martedì 24 aprile 2012

L’alluce e il libro, o sul destino comico dell’Occidente



Io possiedo moltissimi libri. Non che li legga tutti, anzi una minima parte, e però continuo ad acquistarne per accumularli sugli scaffali esausti della libreria Billy, l’unico mobile Ikea che sono riuscito a montare da solo, seguendo i disegnini. Ma il mio appartamento milanese contiene solo quattro Billy, e così la maggior parte dei libri, ancora intonsi, vengono dirottati a Sondrio, dove vive anche mia madre.

Mia madre di lavoro faceva la maestra, insegnava ai bambini a leggere e scrivere. Due cose che solo da grandi si impara a tenere separate – la scrittura e la lettura – e non è detto che questo sia propriamente un guadagno. Una volta ho incontrato un aspirante poeta che, alla mia domanda su cosa stava leggendo, ha risposto serafico: Io le scrivo, le poesie. Non devo mica leggerle.

Forse per questo – tenere a debita distanza la boria autoriale – mia mamma ancora adesso legge molti libri, e mi corregge se uso un’espressione gergale o maltratto in qualsiasi modo la grammatica e la sintassi italiane, con l’eccezione del dialetto che considera una lingua di pari dignità.

Ad esempio, se dico a qualcuno “buona serata”, mettiamo che abbia appena finito di cenare e stia parlando al telefono, lei inizia a borbottare che le persone normali non fanno le serate: hanno delle semplici sere, quiete sere di fronte alla televisione, con l’unico vezzo di una fumante tisana alla melissa. Allora bisogna dire buona sera, cos’è questa mania delle serate, siam mica diventati tutti Gianni Agnelli, o suo nipote Lapo Elkann.

Insomma, credo che sia chiaro il tipo: anziana maestra in pensione, che si distingue dallo stereotipo della professoressa di lettere o latino per un atteggiamento molto più concreto, non reverente verso la cultura che pure ama e frequenta.

Sarà forse per questo lato artigianale della sua professione che, ogni tanto, mia madre prende un libro – un mio libro, meglio, uno dei tanti che pesca a casaccio da uno scaffale – e lo infila tra lo stipite e l’anta della finestra, per non farla sbattere nei mesi estivi e spesso anche in quelli invernali, ché l’aria deve scorrere abbondante in una casa, o almeno così stava scritto nell’inserto salute di un qualche quotidiano.

Ma cos’è, esattamente, la salute?

La salute è un’idea, a ben pensarci. O meglio un’ideologia, un mito moderno, una scintilla gnostica spersa in una trama vischiosa e indifferente, e tutt’al più si può parlare ragionevolmente di benessere, l'immaginario punto dinamico di equilibrio tra opposte funzioni: la vita e la morte, semplificando al massimo l’equazione della vita. 

Così, quando gli opposti non si integrano o bilanciano, abbiamo la malattia, il degrado fisico, i mobili che cascano sotto al peso dei vecchi libri. Mentre nel campo dello spirito, possiamo immaginare un correlativo nella struttura drammaturgica della tragedia, o in quella pseudo-tragedia costituita dai fantasmi petulanti della mente, ora chiamati nevrosi.

Se la malattia trova il suo equivalente narratologico nella tragedia, la nevrosi, un male che istituisce se stesso per poter godere del suo proprio e tangibilissimo dolore (immaginiamo una libreria Billy che si monta da sé, come quei libri per bambini in cui intere città di carta si levano d'incanto allo sfogliare della pagine), la nevrosi potremmo allora vederla come una variazione del registro comico, o se preferite farsesco.

La natura eminentemente nevrotica – e dunque farsesca – nel rapporto di molti figli con i loro genitori, specie con il passare degli anni, io l’ho scoperta la prima volta che ho ritrovato un (mio) libro conficcato nel vano di una finestra socchiusa, un (mio) libro stropicciato e fradicio dei goccioloni di un ringhioso temporale estivo!

Alla sfuriata da bambino tradito nel possesso dei suoi balocchi (ho 46 anni), mia madre (che ne ha 75) ha reagito ricordandomi di come la sera prima, pure io, cosa alzo tanto la voce, non avevo portato i sacchetti gialli della plastica in strada. E così ora bisogna aspettare un’intera settimana, per la nuova raccolta differenziata.

Cosa c’entra, uff… adesso cosa c'entra la raccolta differenziata con il (mio) libro?! Ok, si trattava di un autore danese pubblicato nei tascabili Feltrinelli, non una grave perdita, ma non potevo ugualmente fargliela passare liscia. Cosa c'entra, ho proseguito dunque con voce piccata, cosa cavolo c'entrano le bottiglie vuote della Levissima e la plastica del prosciutto cotto sottovuoto con il (mio) libro trattato in quel modo indegno, offeso, rovinato dagli stipiti e dalla pioggia e poi comunque son sempre quattrini, argomento a cui mia madre è generalmente sensibile.

E allora tu, ribatte lei, che è da tre mesi che non ti tagli le unghie dei piedi!

Ecco, ora prendete questa conversazione surreale e spalmatela sull’arco di almeno dieci anni. Tempo in cui mia madre ha perseverato nell’incuneare i miei libri dentro a porte e finestre, solo che adesso ha imparato a negare il fatto nei suoi numerosi effetti, per altro visibilissimi, e io per ripicca non mi taglio le unghie dei piedi e trascuro la raccolta differenziata, prendete questa scenetta e avrete l’essenza formale del comico: la disfunzione.

Cos’è, infatti, la disfunzione, se non l’incapacità a scorgere in un oggetto una funzione diversa da quella consueta? Con questo imprimendo alle due funzioni – l’abituale e l’inaudita – uno stridore sinistro, ma esilarante se osservato da un punto di vista esterno da cui contemplare l’attrito.

E ho parlato di oggetto ma, naturalmente, tale attributo di cosa può venire a possederlo anche un sentimento o un pensiero in forma reificata, che è un altro sintomo tipico della disfunzionalità nevrotica: l’essere incapaci di empatia, di intendere il “gioco”dell’altro nella sua forma storicizzata e fluida, fissando al contrario l’esperienza nella meccanica della ripetizione.

Non è così leggendolo dentro i miei libri che ho compreso la natura una volta tragica, ma ora comica, di buona parte delle relazioni che intratteniamo con chi ci è più vicino. No, l’ho capito dalla copertina, già che le verità più profonde, per paradosso, spesso sono proprio quelle che stanno a galla e che non vengono occultare, come la nudità del Re.

Copertine segnate, macilente, stropicciate. Copertine passate attraverso l’incudine di una porta e il martello di una finestra che sbatte. Ma a ben vedere sempre copertine sono, involucri. Ciò che ci sta dentro è materia ­ – pagine, carta, cellulosa compressa, dunque ottimo cuneo provvisorio per serramenti ventilati – ma anche spirito – idee, passioni, teoremi, estro felice e cresta spumante dei giorni, che poi si avvita nella risacca cupa del tempo.

Spirito e materia, già. Vita e morte, ancora, vecchie madri e non più giovani figli. Difficile metterli d’accordo, montare l’infinita biblioteca senza l’ausilio di uno straccio di disegnino. E così, alla maniera di una scala che si arrotoli verso il cielo, io continuo a lasciar fiorire le unghie dei miei piedi. Per poi ripercorrere quella scala alla rovescia, come uno scivolo che mi riprecipiti giù giù negli abissi del comico.

1 commento:

  1. Beh ..... fino a che non sfocia in tragedia ........ piuttosto, sarei curiosa di sapere come viene usato da ambo le parti il tagliaunghie ...... sul fatto in quanto tale di usare impropriamente i libri mi pare ci sia una certa sintonia ...... :-)

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