martedì 3 aprile 2012

Le regole del gioco ovvero il gioco delle regole


Nel precedente intervento sul blog ho pubblicato una breve storiella, in cui si parlava di un prato, due porte simili a quelle del gioco del calcio, e un uomo misterioso che arriva da non si sa dove, non si sa quando, consegnando un pallone alle ventidue persone che già si trovano lì, anch’esse misteriosamente. Quindi l’uomo si ritira, ponendo come unica condizione l’utilizzo di ciò che offre, ma nessuna norma esplicita su cosa farne. Ciò che richiede in cambio è unicamente l'impegno a stupirlo e commuoverlo. Chi lo saprà fare, avrà in dono il pallone.

In effetti, più che di un racconto e indipendentemente dal merito – che non sta certo a me giudicare – si trattava forse di un breve apologo, nelle mie intenzioni collegato al testo che a sua volta lo precedente. Prendendo spunto da una buffa canzoncina del grande Henri Salvador, accennavo lì alle polemiche suscitate dalla riforma dell’articolo 18, che oltre a richiamare giustamente l'attenzione sull'incalzare del problema della precarietà, non solo economica ma esistenziale, a mio avviso lasciano trapelare anche una sorta di mitologia contemporanea del lavoro.

Ora io non voglio sminuire, o peggio negare, la centralità drammatica che possiede il lavoro in questo tempo. Io stesso, sono disoccupato. Ma se ci pensiamo bene, ciò che è veramente urgente sono le risorse – per mangiare, bere, proteggersi dal freddo e dalle aggressioni degli animali più feroci; quindi per cazzeggiare e svagarsi un po’ – non certo il lavoro. Ci sembra dunque naturale, ovvio e quindi indispensabile dover lavorare, per soddisfare tutte queste esigenze. E lavorare sempre di più.

Bene, io mi limitavo a proporre l’idea che le cose, almeno nei termini puramente logici, da cui discende un nesso quantomeno potenziale con la realtà, dunque politico, non stiano esattamente così. Ossia che non esista un vincolo necessario tra risorse e lavoro.

Pensiamo ad esempio al sistema economico della città di Sparta. In quell’antica città greca nel cuore del Peloponneso non esisteva – per scelta, attenzione, per scelta e non per un ritardo nello sviluppo storico! – non esisteva il denaro, e così la maggior parte degli spartiati si dedicavano ad attività non produttive; l’addestramento militare, in particolar modo.

Certo, la prima obiezione a questo riferimento è che Sparta poteva permettersi una tale economia dell’improduttività, già che a compenso del loro diletto marziale esistevano gli iloti, una popolazione asservita che lavorava la terra per conto di una minoranza di cittadini liberi. Un’obiezione che non solo è fondata moralmente – questo tipo di struttura sociale ha un nome ben preciso: si chiama sfruttamento –, ma anche, e per paradosso, perfetta per arrivare al punto che io intendevo dimostrare.

Il grado di evoluzione scientifico-meccanica della civiltà odierna – non a caso identificata dai filosofi proprio come evo tecnologico – ha raggiunto esiti di tale sofisticazione da configurarsi come nuova e potenziale casta produttiva: far lavorare le macchine al posto dell’uomo, detto in poche e semplici parole. Le macchine come gli iloti. Questa è l’idea.

Naturalmente io non mi nascondevo, e non mi nascondo, la natura utopica di una proposta tanto estrema. Ma non perché sia impraticabile nei fatti, bensì per il carattere illusoriamente naturale delle forze in campo, che ci fa percepire i limiti autoimposti dalle consuetudini culturali come la struttura stessa del sistema, e non invece come la sua congiuntura storica – e dunque modificabile – dentro un diverso sistema.

Provando a riformulare l'idea con termini più correnti, se non abusati, le attuali regole economiche non sono l’hardware delle nostre vite, ma solamente uno dei possibili software, a dire il vero piuttosto collaudato, che fa da velo a interessi particolari e minoritari. Ci sono insomma sempre degli spartiati – che sfruttano – e degli iloti che vengono sfruttati.

Per distogliere lo sfruttamento dall’umano e rivolgerlo all’inorganico, è dunque necessario ripensare l’intero processo economico, e farlo in una direzione che effettivamente possiede diversi punti in comune con la teoria marxista. Infatti per ridistribuire il prodotto della meccanizzazione del lavoro è necessario che i mezzi di produzione e di scambio siano a disposizione della collettività, come vuole appunto la dottrina economica che da Karl Marx discende. Quindi anche le risorse produttive devono essere appannaggio della polis, e non stornate nell'imbuto che conduce allo stomaco di pochi fortunati.

Ma al di là, o forse al di qua di una proposta politica circostanziata – che non ho lo spazio, il tempo e probabilmente neppure gli strumenti per proporre – quel che mi interessa rimarcare è l’intima natura politica di tutto ciò, anche se noi ci siamo abituati a pensarlo (complice la stampa, i mezzi di informazione) come indiscutibile e scontato; o se preferite, con maggior zelo filologico, come impolitico. E in questa categoria vengono ormai ricomprese anche l'attività parlamentare e l'amministrazione della cosa pubblica, che vengono rubricate dentro la dimensione del fare, del "fare le cose per bene", come si usa sentenziare al bar, e in ultima analisi del dominio della tecnica.

Platone, nel Politico, perimetra molto bene il campo concettuale del discorso, definendo l’azione politica quale “tecnica régia” (basilikè téchne), che sovraintende e conduce tutte le altre tecniche particolari, singolarmente utili alla trasformazione dell’intenzione politica in prassi operativa. Beh, come credo sia a tutti evidente, i termini del rapporto tra politica e tecnica appaiono ora invertiti. E’ la politica, insomma, a dover sottostare agli imperativi tecnici, che direzionano strategicamente ogni aspetto della vita associata.

Questo forzato contenimento della libera sovranità politica imposto dalle catene procedurali della tecnica, è però un tema svincolato dall'ipoteca culturale della Sinistra, e anzi sviluppato proprio dalla Destra culturale novecentesca (Heidegger, Pound, Schmitt, Benn, Junger...). Tema che ritroviamo anche nel raccontino a cui accennavo. Dove non è nelle cose, o nelle infinite possibilità del pensiero combinatorio, il limite che gli uomini si sforzano di rispettare – non toccare il pallone con le mani, nello specifico. Infatti chi l’ha detto, che non si può: sta forse in qualche legge naturale, biologica, fisica o strutturale...?

L’uomo del pallone, dopo averlo consegnato ai ventidue, ha solamente aggiunto: “Ora provate a stupirmi, e a commuovermi.”

Il limite che gli altri si sono imposti – rispettare le regole del gioco del calcio, a cui si mostrano assuefatti – sta dunque nella testa degli uomini, e non in supposti vincoli normativi o ambientali. Un limite probabilmente indotto, oltre che dai già accennati interessi particolari, anche da qualcosa come una tautologia tecnica, ossia da una sorta di pregiudizio operativo che replichi all’infinito se stesso: le cose fino ad ora sono state fatte a questo modo, e dunque questo è il modo in cui vanno eternamente fatte le cose.

Palle.

Perseverando in uno schema mentale circolare, noi restiamo avvinti da suggestioni irrazionali, bloccati da un sortilegio magico, una bolla cognitiva, che fino a quando non viene fatta scoppiare continua a impedire ogni reale possibilità di progresso, non necessariamente coincidente con lo sviluppo tecnico e produttivo, come aveva intuito Pasolini già quasi mezzo secolo fa. Per tale ragione un progresso pienamente umano potrà avvenire solo quando la politica – tecnica régia – avrà nuovamente asservito le tecniche particolari, proprio come gli spartiati con gli iloti.

Al momento, non ci resta dunque che verificare come l’attuale governo rappresenti la fotografia più esatta di tale incantamento magico su ampia scala: il sessanta per cento degli italiani pensano che alcune decisioni dolorose debbano essere prese perché così vogliono le regole dell’economia, i trattati di Maastricht, i codicilli di Schengen. Ma chi ha deciso quelle regole, quale tecnica régia sovraintende alla tecnica economica (e quindi particolare) di Mario Monti?

La politica si dovrebbe occupare delle ragioni per fare le cose, ricordiamolo ancora, prima che delle cose stesse. Ragioni che si possono riassumere in antiche ma per nulla deteriorate categorie come la felicità, il benessere, la giustizia, il bene, l’interesse personale e collettivo. Maastricht non mi dice nulla in merito alla felicità o al dolore o alla direzione della mia vita! E ciò perché i trattati di Maastricht appartengono all'ambito della tecnica, non a quello della politica, che può e deve sempre rivedere le proprie decisioni, negoziare i suoi valori.

Ci vorrebbe allora qualcuno – un uomo autenticamente politico, un gremlin, un marziano con le antennine verdi, o ancora meglio tutti quanti noi – che a un tratto e per sovrano slancio della volontà prenda tutte le nostre belle regole economico-finanziarie, e le appallottoli in una sfera. Quindi la faccia girare sulla punta del proprio naso, mostrando che ci sono altri modi di giocare con una palla, e che quelli fino ad ora replicati sono solamente una minuscola provincia nel regno del possibile.

Perché non c’è labirinto che non contempli una via d’uscita, e non c’è gioco senza soluzione. Basta cambiare – opplà – le regole del gioco stesso, ed ecco una partita di calcio trasformarsi in una di basket, di rugby, di pallavolo… Non abbiamo che da scegliere, e da reclamare un po' di buona vita anche per noi, non un semplice lavoro!

1 commento:

  1. Un po' di buona vita...

    Ieri sera andando al cinema con una collega , durante il percorso in macchina , ci comunicavamo il palpabile senso di disagio , essendo dipendenti pubblici, nel sentirci definire da una vasta moltitudine come fannulloni, assenteisti , incapaci . E come questi vocaboli , a forza di essere urlati, si fossero incuneati in un modo di sentire comune; il disappunto di sentirceli scaraventati addosso, come piovuti dall’alto, nonostante anni di studio, lavoro, impegno!Concordavamo che, scantonare i ragionamenti per partito preso, anche di amici e conoscenti,quantificasse una nostra latente rassegnazione. Ci si preoccupava, inoltre, che questa rassegnazione potesse, per proprietà transitiva, spalmarsi su problematiche sociali di gravità sconcertante: la Tav, il Muos, e via discorrendo…Per dovere di cronaca, ricordo che il Muos è un'antenna (Mobile User Obiect System) ad altissime frequenze UHF (parte del sistema militare statunitense di comunicazioni satellitari).L'antenna dovrebbe essere attivata a breve. Una volta messa in funzione, produrrà onde elettromagnetiche con effetti devastanti per la salute.
    E’ con questo stato d’animo che siamo entrati al cinema per vedere : “Cosa piove dal cielo”, mai film è stato più simbolico, commovente e necessario.
    Ci siamo detti all’unisono: ecco come ci sentiamo noi cittadini di questo disgraziatissimo paese. Investiti da mucche che piovono dal cielo! Non sono forse mucche che piovono dal cielo le quarantuno antenne statunitensi, installate da vent’anni a Niscemi, ( all’insaputa -questo sì - degli abitanti) in una riserva naturale , a pochi chilometri dal centro abitato, dove vivono migliaia di bambini? E che dire del sopracitato Muos che sta per essere ultimato? Non sono mucche piovute dal cielo le decisioni di costruire ,(nonostante il parere contrario della popolazione) la Tav? Non sono mucche piovute dal cielo, le discariche abusive, le città ancora cariche di amianto?
    E’ verosimile, metaforicamente parlando, sentirsi come il giovane cinese scaraventato fuori dal taxì/territorio, esule in terra “straniera”, circondato dall’indifferenza e dall’autismo delle istituzioni e dalla stampa?
    Al contempo, non è spudoratamente commovente, l’incontro del giovane cinese con Roberto un uomo burbero, buono, intelligente che sa accogliere e riempire di senso l’incontro con l’altro?
    Ebbene, io e la mia collega siamo ritornate a casa con la speranza che le mucche che piombano dal cielo, ci segnalino non uno , ma cento , millle Roberto!

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