lunedì 14 marzo 2011

Io mi vergogno


Ascoltando in sottofondo un programma televisivo di Giletti, ripensavo a una remota puntata del Maurizio Costanzo Show. Bracardi con il frac giallo, la marcetta allegra che accompagna la passerella attorno al golfo mistico, il gioco delle parti cinico e implacabile del conduttore. Tra gli ospiti era presente un ormai vecchio Raf Vallone, il cui ruolo programmato avrebbe dovuto essere quello di saggio e bonario osservatore delle miserie del mondo; ma con l'ottimismo della volontà proprio dei giusti e di chi ha seminato bene. Certo così di ottenere una risposta da conficcare tra il cioccolato e le nocciole dei Baci Perugina, Maurizio Costanzo chiese a Raf Vallone quale bilancio potesse trarre come padre di due figli ormai adulti, ed entrambi avviati a un'incerta carriera nello spettacolo. Ma lui, bum, altro che Baci Perugina! Dinamite purissima, piuttosto, che scagliò tra il pubblico seduto compostamente sulle seggioline del Parioli, quando semplicemente rispose:

- Io mi vergogno dei miei figli.

E attenzione, avrebbero potuto cavarsela con una frase del tipo: "Beh, mi sarei aspettato qualcosina di più"; oppure "Sono sensibili, intelligenti ma non si impegnano a sufficienza"; o infine sviare con una battuta sui bei tempi in cui giocava a pallone nel grande Torino, e dopo una rapida doccia si precipitava ai corsi universitari tenuti da gente come Luigi Einaudi o Leone Ginzburg. Invece disse proprio e solo così: "Io mi vergogno".

All'oscenità del silenzio televisivo che seguì a quell'affermazione terribile, Bracardi, preso anche lui in contropiede, non seppe replicare con nessun refrain musicale, la liquida benevolenza delle note che affiancano lo scorrere incerto della vita. Poi Costanzo cercò di rimediare rendendo ancora più imbarazzante la situazione, mentre il regista staccava dal primo piano che inchiodava l'eco della frase appena pronunciata al meraviglioso sguardo di chi non conosce la parola sipario. Gli occhi scuri ancora illuminati dal fervido acume di sempre, una fitto arabesco di rughe sul volto largo e squadrato, le labbra serrate come chi rientri al banco dopo aver ricevuto l'eucarestia.

L'inquadratura prese così a divagare tra il pubblico attraverso la camera a mano, dove incontrò, seduta in prima fila, la moglie anch'essa anziana di Raf Vallone, che era appena scoppiata in lacrime all’incandescente dichiarazione del marito. Adesso la chiameremmo tivù del dolore, quella che ascolto in sottofondo e che accompagna il pisolino domenicale di mia madre, ma allora si trattava di un'altra cosa. Una cosa preziosa e pulita, a ripensarci. Perché il tema non era l'esibizione compiaciuta e sciatta della sofferenza umana, ma, al contrario, la dignità che sopravanza il dolore, lo sconfigge nell'araldica quasi rinascimentale di quel viso: il ritratto di un uomo che nella vita ha davvero cercato di dare tutto se stesso, spendendosi in ciò che faceva - calciatore, giornalista, scrittore, attore, critico cinematografico, una laurea in lettere e una in giurisprudenza - con uguale generosità e passione, sempre accompagnate da intelligenza e cultura. Ma ora, per chi gli succede nella vita, prova solo vergogna.

L'imbarazzo palpabile di quel momento testimoniava inoltre dell’atavico tabù italiano per la vergogna; in particolare la vergogna per i figli, per la propria sacra famiglia. Non che in Italia si abbia un maggiore pudore, ma è la nozione stessa di vergogna, di onta estetica e morale a venir meno. La virtù non corrisponde infatti con quel che si dice o si fa, come negli altri paesi europei riformati, ma con quel che si è, una sorta di essenza tribale che precede ogni successivo gesto civile. E sarà forse per questa coincidenza tra merito e sangue che, proprio e specialmente in Italia, ogni scarrafone è bell’ a mamm’ soja. Una sensibilità che io conosco fin troppo bene, appartenendo a una generazione per cui l'orgoglio paterno ha toccato vertici inimmaginabili. Ma cosa sono diventati i nostri figli per suscitare tutto questo orgoglio sanguigno, che si accompagna alla più totale assenza di vergogna?

I nostri figli sono la capriola nel recinto di fronte alla Nikon del nonno, ecco. Oppure il ruttino dopo la poppata, il saggio di ginnastica artistica a cui non possiamo mancare, le lezioni di tennis con la Fred Perry con il collo alzato. Più tardi gli happy hour e le canne e il lavoro che manca e gli infiniti corsi di formazione. Tanto che la vera domanda diventa forse quella che riguarda le ragioni per cui i nostri figli dovrebbero essere orgogliosi di noi, che gli abbiamo consegnato il testimone di questo paese. Noi che sappiamo ancora rollare le canne, ok, e li ritroviamo agli happy hour e gli diamo il cinque quando ci dicono "Ciao vecchio". Il mattino dopo, con quella punta di acidità allo stomaco che ti lascia sempre il Margarita, ci contendiamo le stesse Fred Perry impilate nell'armadio da una moglie-madre compiacente, con cui poi lanciarsi in una bella corsetta al parco, il golden retriver al fianco che scintilla nella sua pelliccia dorata.

Parlo al plurale, sì, anche se non ho figli e ho fumato l’ultima canna ventisette anni fa. Tutte situazioni che effettivamente sperimento sempre più di rado sulla mia pelle; come per altro non ho mai giocato nel grande Torino o abbracciato Silvana Mangano in pantaloncini corti e gambotte a mollo nella risaia vercellese, nel capolavoro di De Santis. Però io sono un italiano – è il mio sangue a esserlo - e appartengo a questo presente nazionale come voi che mi state leggendo, e che intendete la meravigliosa lingua che abbiamo avuto in prestito, non certo in dono. Abbiamo nella vene centocinquanta anni di sangue unitario ma io faccio fatica ad appendere una bandierina tricolore all'orlo della giacca, a essere orgoglioso.

Provo al contrario un’infinita vergogna che desidero anch’io affermare, come Raf Vallone e le sue labbra chiuse a stritolare un'eucarestia pungente e velenosa. E me ne frego – anzi ne sono felice – se non sempre sperimento ciò che dico. Già che è falsa l'idea che si debba avere esperienza diretta delle cose per sapere, è falsa e ipocrita. Io lo so, semplicemente. Lo so come Pasolini che sapeva i nomi e cognomi di chi aveva compiuto le stragi, per immaginazione poetica. Così che a Orson Wells, in una celebre sequenza de La ricotta, faceva pronunciare questa inappellabile sentenza a proposito dei nostri figli, fratelli, genitori:

"Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d'Europa."

Immaginazione poetica, dunque. La stessa immaginazione che mi fa vergognare dei figli che non ho avuto; dei miei coetanei che incontro scodinzolanti agli happy hour; di mio padre quando non offre il passo a chi esce da un parcheggio; di mia madre quando si mette tasca le bustine di zucchero; dei parenti tutti le rare volte in cui ci troviamo e fingiamo di essere una famiglia felice; dei miei colleghi scrittori e giornalisti, che per un pollice alzato su facebook rivenderebbero le bustine di zucchero a anche la madre; di chi usa espressioni come "trendwatching", "chicchissimo" e "lusso nonchalante"; dei politici che mi rappresentano e io invece voglio essere pura e immediata presenza; dei tifosi italiani quando si fermano in un Autogrill, dove arraffano tutto tranne lo zucchero; dei primari del San Raffaele che ti chiedono quattrocento euro per una visita; di chi mi fracassa le palle con gli impressionisti di cui possiede intere monografie incelofanate; delle donne che invece di baciarti ti parlano dell'ultimo Maitreya e dell'apertura del quarto chakra; di quelli che ti fumano in faccia perché tanto l'automobile è la loro; di chi non fuma e fa sport e ti parla di sport e legge solo la pagina dello sport; dei maestri che non mi hanno ammaestrato e degli amici che ho perduto, per reciproca distrazione:

stavano lì, accidenti, dove li ho messi... stavano lì vicino agli occhiali e all'ultimo libro di Camilleri, ma ora non ci stanno più.

Ma soprattutto io mi vergogno di me e del padre che non sono; degli animali che si usmano il culo prima di azzannarsi a morte; dell'onda che sommerge il barcone e carezza la modella distesa nell'idromassaggio; del tempo che fa avvizzire la rosa mentre sussurra le sue sconce promesse a un minuscolo seme. Sì, io mi vergogno, mi vergogno di continuo, mi vergogno della vergogna che non prova l'universo intero.

ps - consigli per gli acquisti.

12 commenti:

  1. Parafrasando Gaber "Io mi sento italiano e per fortuna o purtroppo lo sono". Niente retorica ma io sono contento del mio paese: certo il passato ci ha donato un lustro permanente e di personaggi "che fanno la storia" probabilmente non ne abbiamo da parecchio tempo però l'Italia è bella e noi non siamo capaci di valorizzarla, guardiamo sempre l'erba del vicino: andiamo a Sharm quando la Sardegna è mille volte meglio, ammiriamo Madrid quando abbiamo Roma, il nostro paesaggio naturale e artistico non ha eguali al mondo. E poi ci sono gli italiani, popolo unico. I pregi e i difetti li trovi in tutte le nazioni e in ogni comunità e tu lo sai bene. Ma noi siamo italiani e tu un po' te ne vergogni mentre io ne sono orgoglioso. Del nostro passato sicuramente ma anche di un certo nostro presente fatto di inventiva, solidarietà, sport e cucina, arte e artigianato.
    Senza eccedere nel nazionalismo e ben contento di essere in Europa, rivendico la mia italianità.

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  2. Carlo, la tua rappresentazione mi sembra un'ottima sintesi di quel che penso e ho provato a dire in questo post. basta insomma cambiare di segno ciò che tu scrivi - per te sono pregi, per me vergogna allo stato puro - e in fin dei conti siamo d'accordo. in particolare se consideri che anche tu hai elencato perlopiù una serie di qualità "essenziali" (la bellezza, la creatività, l'unicità del popolo italiano) trascurando i comportamenti, la prassi effettiva dei gesti. max weber sosteneva che l'emancipazione dei popoli avviene nel momento in cui si passa da un'etica "dell'intenzione" (ciò che io sento, ciò che nel mio cuore desidero e mi propongo) a un'etica "della responsabilità" (gli effetti concreti delle azioni). così quando tu citi la solidarietà come qualità caratteristica del nostro popolo – e questo sì è un comportamento effettivo - io non sono d'accordo. l'italiano è stato, ma ora sempre meno, un popolo "compassionevole", non solidale. anche la compassione è una qualità preziosa, intendiamoci. ma nasce dall'estro del momento, dal cuore di mamma che pulsa nell'empatia dell'attimo, di fronte all'esposizione disarmata alla sofferenza altrui. ed è una qualità, paradossalmente, intimamente legata al cinismo - potremmo vederla come la faccia positiva della stessa medaglia - quale effetto della mancanza di sovrastrutture intellettuali e precettive. mentre la solidarietà costituisce il passaggio successivo, in cui la compassione, l'empatia momentanea si strutturano dentro un progetto politico di convivenza civile. ma perché questo passaggio si compia si dovrebbe appunto passare da un'etica dell'intenzione a un'etica della responsabilità. e come già detto, con tutta evidenza, non è.

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  3. ps - e poi per piacere: per una volta proviamo a lasciarlo fuori, lo sport, questo cazzo di sport, quando si parla di qualità civili e di identità nazionale... ;-)

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  4. Ho volutamente elencato qualità per identificare il mio paese. Ho anche sottolineato come il mio popolo non ci regali molti "personaggi storici" se non nell'arte, nella cucina, ecc. ecc. cioè nelle cd "attività secondarie". Anche lo sport e lo ribadisco (mi spiace) ma il sentimento di identità nazionale esce più spesso qui che in altri campi.
    Per quanto riguarda il comportamento effettivo, sono ancora convinto che il nostro è un popolo solidale e ti cito, a sostegno, wikipedia "Secondo un'indagine ISTAT relativa all'anno 2004 in Italia sono circa 11 milioni (il 22,2 % degli abitanti con più di 14 anni) i cittadini che hanno partecipato almeno una volta nell'anno ad attività di volontariato. Di questi, però, solo poco più della metà (circa 6 milioni) sono andati oltre la partecipazione ad episodiche riunioni. Si tratta, comunque, di un numero consistente di volontari, che in genere dedicano parte del proprio tempo libero ad una singola organizzazione in modo identitario."
    http://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_non_a_scopo_di_lucro

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  5. I dati citati da Carlo potrebbero essere una conferma di quanto dici, Guido: molti italiani si muovono spinti dalla compassione ma non reggono la fatica della solidarietà, anche se direi che 6 milioni di volontari sono tanti e personalmente li ammiro Condivido con Carlo un certo orgoglio per la bellezza del nostro paese, perchè davvero ci sono città e paesaggi e opere semplicemente meravigliose, non c'è che da guardare e vedere! Altro discorso meritano gli italiani... Tu hai scritto un post molto duro, sgradevole a tratti, di cui condivido solo il rammarico per la scomparsa del sentimento della vergogna nel nostro paese. Mi capita in questi giorni di catastrofe per il popolo giapponese di ammirarne proprio la compostezza, la grande dignità, che dagli speakers dei tg scopro avere un nome particolare il quale racchiude esattamente il concetto di vergogna come credo la intenda anche tu: responsabilità verso gli altri, consapevolezza della ricaduta etica delle proprie azioni e quindi grande attenzione e controllo sulle proprie azioni e emozioni. Anch'io provo spesso il sentimento della vergogna e non capisco più se mi vergogno per me o per gli altri. C'è un tuo post di qualche tempo fa che mi aveva un po' aiutato ad alleviare (?), sospendere (?), dare una certa dignità a questa vergogna: avevi parlato di noi (mi ci metto anch'io perchè mi pare di intuire che siamo più o meno coetanei - e anch'io senza figli -) come della "generazione pàrol", che non è certo una cosa esaltante dal punto di vista etico, ma almeno ha una pregnanza ermeneutica, una buona chiave per dare un orizzonte di senso al presente. Scrivevi che noi abbiamo ibernato, sospeso, il gioco, " preservando il nostro soldo di bellezza e verità da quel pericoloso azzardo che è la vita". Stiamo chiamando "pàrol" e lasciando che sia la prossima generazione a giocarsi la partita. Certo fa rabbia, amarezza, probabilmente scritto per sferzare, o anche per prenderti gioco della nostra generazione; non so. Ma quando l'ho letto ho pensato che fosse semplicemente vero.
    Luisa

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  6. Io la vedo diversamente, altrimenti non avrei citato questi dati :) Sei milioni d'italiani sono circa il 10% della popolazione. Mi sembra un dato molto elevato e con pochi casi al mondo.
    La caduta etica, la mancanza d'ideali, la fretta e la frenesia sono mali dei nostri tempi e non mali italiani. Il dio denaro si sta elevando, se non lo ha già fatto, a unica ragione di vita ma, ripeto, questo è un male del pianeta terra.

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  7. Purtroppo questa mancanza di senso di colpa - e quindi di vergogna - non riguarda solo gli italiani ma tutto l'occidente e non solo. Là dove i comandamenti morali delle istituzioni ( chiesa, stato, famiglia ) perdono credibilità e autorità, l'uomo si trova sempre più di fronte con se stesso, con la sua morale interiore.
    Così, se da un lato siamo più consapevoli della responsabilità, il valore e le potenzialità della nostra azione individuale, da un'altra parte giustifichiamo le nostre bassezze morali come gesti necessari alla sopravvivenza e al sacrosanto diritto alla propria felicità.
    A quanto pare il benessere, l'affermazione e la salute del proprio IO definiscono i limiti fin dove siamo disposti a sacrificarci per gli altri (e non solo estranei ma a volte anche amici, parenti e addirittura i propri figli).
    Tutti noi, almeno ogni tanto, dobbiamo trovare il coraggio di guardarci negli occhi e vergognarci, quando è il caso.

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  8. rispondo con un po' di ritardo, cosa posso aggiungere... condivido ciò che ha scritto Luisa, e ciò che il fenomeno - obiettivo, consistente - del volontariato italiano rappresenta l'altra faccia (positiva) della sua irresponsabilità civile. e cioè, ancora, compassione e non solidarietà strutturata in comportamenti stabili e duraturi. detto questo, trovo che la compassione sia uno dei sentimenti più preziosi; e anche un po' di sano "anarchismo light", come scrive il mio amico marco baldino (di cui vi consiglio il sito: http://www.marcobaldino.com/ )non è forse da sottovalutare. intendo con anarchismo light quell'atteggiamento un po' sgamato, e davvero molto molto italiano, di chi sappia entrare e uscire dalle pratiche sociali senza mai identificarsi totalmente con esse, come nella teoria dei giochi. rimangono comunque aperte molte questioni decisive, che nel mio intervento non avevo per altro nessuna intenzione di affrontare; o comunque non direttamente, non era quello il tema. insomma, io non volevo fare una radiografia polemica dell'italia, ma esprimente un rammarico profondo del sistema di relazione - familiari, amicali, civile - che in questo momento mi vede protagonista. ed è un bilancio in buona parte negativo, che vi devo dire: je suis comme je suis...

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  9. @ Anam, non so se la risposta precedente soddisfi anche quanto tu scrivi. io non penso, in effetti, che quest'epoca storica manifesti una maggiore ferocia e indifferenza nei rapporti tra le persone. certamente qualcosa sta però accadendo nei legami civili che saldano le nazioni: sia tra di loro, sia nei rapporti con gli altri popoli. e il caso italiano rappresenta un'oggettiva particolarità, che senza esitazione, politicamente, civilmente, e anche in merito a qualcosa che potremmo definire "un'estetica sociale" io reputo come negativa (altro che il famigerato buon gusto e allure italiano...) su queste trasformazioni molto è comunque già stato scritto, già a partire dagli esordi del secolo scorso. i filosofi e i sociologi hanno appuntato il loro sguardo sulle ricadute che le nuove tecnologie hanno avuto sui sistemi di produzione e di scambio; quindi, di conseguenza, sulle vite individuali. che hanno risentito anche della velocizzazione degli spostamenti e delle possibilità della comunicazione. tutto ciò ha obiettivamente deteriorato i legami comunitari su scala ristretta; senza però contestualmente - ci vogliono decenni, meglio secoli - aver contribuito a generare legami sociali su scala allargata. io non sono un filosofo, non sono un politico e nemmeno un sociologo. stiamo a vedere. mi limito a suggerire letture come zizek, bauman, beck, bourdieu, giddens, touraine. ad averci tempo e voglia, dentro lì ci sta roba buona. più di quanto in effetti possa offrire uno scrittore di provincia. che non avendo dove scrivere, al momento, si è inventato questo blog (cosa che per altro non gli dispiace affatto!)

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  10. ps - Anam, è curioso: mi lasci un messaggio e poi ti cancelli dai lettori fissi del blog... :-O

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  11. Il Guttuso definisce il Caravaggio:" Non Plebeo,bensì di animo popolare, come chi abbia inteso quale sia la fonte di verità da cui attingere:toccare terra per trarne linfa e carne"
    Ed io per lo stesso motivo definisco te Guido Hauser: "Non disperato,ma di animo disperato per lo stesso motivo".
    gdc

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  12. caro GDC, hai capito, grazie, che quel di cui cercavo di parlare non erano le celebrazioni dell'unità di italia - a cui comunque continuo a essere del tutto indifferente - ma nemmeno il carattere e la vocazione antropologica dei miei concittadini. quanto piuttosto un sentimento che potremmo paragonare a una definitiva "dissidenza ontologica". che rasenta gli oscuri gironi di una teologia infera, entro cui sguazzare con animo non certo curiale, né plebeo, me come nella canzone del grande maestro milanese: "per vedere di nascosto l'effetto che fa..." (ma non per "venire anche noi", viceversa per tentare di raccontarlo)

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