domenica 13 marzo 2011

Il potere "osceno" dei capoclasse, una risposta


(Per l'estensione che ha finito con l'assumere - nello spazio dei commenti proprio non ci stava, nemmeno a liofilizzarlo come l'aranciata - ho deciso di pubblicare come post indipendente la risposta che ho cercato di dare a Luisa. Riporto dunque la sua breve nota in apertura (segue in origine uno scambio più lungo, che può essere letto qui per intero), a cui faccio seguire le mie riflessioni. Che in effetti si discostano da quanto scritto fino ad ora, e forse anche da ciò che Luisa mi chiedeva, o meglio che dichiarava come suo smarrito e idiosincratico umore, andando ad accostare il "fenomeno Facebook" da una prospettiva diversa e alternativa.)

Messaggio di Luisa dalla pagina dei commenti del mio blog:

"Oddio Guido, lo so benissimo che si può sopravvivere anche senza Facebook... ma non era questo il punto. Mi sto solo rammaricando (e anche un po' invidiando forse?) il fatto di non capire, di non condividere l'entusiasmo di molti miei simili per il nuovo mezzo. Forse perché vorrei tornare bambina e godere pienamente dell'illusione che il mondo sia magico e facile, un'emanazione della mia psiche... Però ganza la tua mamma che ti dava l'olio 31!! ;)"

Luisa

Luisa, certo che non è questo il punto; o almeno non era il punto dei miei recenti interventi, in cui cercavo di penetrare lo strano paradosso delle nuove tecnologie comunicative. Qualcosa come una moneta con due facce, in cui da un lato (pars costruens) viene massicciamente rilanciata la pratica della scrittura, e ciò anche tra persone che da anni compilavano a malapena una schedina e ora li vedi al semaforo che rispondono freneticamente a un sms, mentre le macchine in coda gli strombazzano impazienti. Esiste però anche l'altro lato della moneta (pars destruens), in cui si inizia a intravedere come questo rigurgito grafologico, in una forma però ibrida con le cadenze e la velocità impressiva del parlato, abbia finito col fare implodere le ragioni stesse per cui la scrittura ha caratterizzato l'evo storico precedente; la cosiddetta "grafosfera" di cui parlava il filosofo francese Regis Debray. E cioè la possibilità, attraverso segni stabili ed estrinseci e duraturi, di dare una forma strutturata e certa alla caotica mobilità del pensiero.
In Facebook assistiamo così a un dialogo tra muti e sordi - e davvero ti consiglio di andare a sfogliarti i commenti al post di Giulio Mozzi in cui si parla del mio primo testo (si trovano qui), quale esempio di ciò che cerco di descrivere. O meglio, direi, assistiamo all'ossimoro di un "monologo dialogato", con il sospetto che il vero interlocutore sia lo specchio della regina di Biancaneve, a cui di continuo domandare chi sia il più bello, intelligente, ganzo del reame. Eppure anche dentro la diffusa autoreferenzialità di Facebook, come ho provato invece a insinuare nel mio successivo intervento, si vanno progressivamente affermando dinamiche comunicative la cui struttura è indirizzata e gerarchica, con capi e capetti che buttano lì il becchime in un gesto largo e magnanimo, accompagnato solo da uno svelto pio pio.
La pseudo-discussione dei Facebooker si sviluppa dunque in un secondo momento, a seguito di uno stimolo che proviene quasi sempre dall'esterno; o meglio che viene recepito come esterno, come "altro", anche se in effetti viene presentato dentro gli stessi gironi orizzontali del discorrere. Si tratta insomma di qualcosa come un'esca verbale, che fa da premessa al rilancio di una frenetica e inconcludente giostra delle opinioni; ma questo solo perché la conclusione non rientra come obiettivo dialettico in questo genere di attività, è avulsa dalle regole del suo gioco direbbe Wittgenstein. Se l'immagine può immediatamente risultare triste o antipatica - questa è in fin dei conti la ragione perché io me ne sono scappato via - a ben vedere trovo però che ci siano anche buone ragioni per rallegrarsi.
Malgrado la rapidità impressiva di Facebook non sia probabilmente emendabile, per ragioni tecniche costitutive al mezzo, il fatto che ci sia gente come Mozzi che palleggia tra “dentro” e “fuori”, tra mondo e pollaio e tra lingua scritta e cadenze del parlato, investito in questo ruolo dai galloni di un'autorevolezza conquistata all'esterno della pratica che alimenta e di cui si fa garante, tutto ciò mostra anche un possibile punto di fuga verso modalità comunicative di tipo tradizionale, e cioè asimmetriche e normative. Cosa che potrebbe apparire come esisto antidemocratico dello slancio utopico verso l'orizzontalità delle opinioni, almeno da parte degli ideologi di Facebook, ma al contrario io trovo rappresenti una funzione imprescindibile della comunicazione, e che perciò non saprei definire diversamente se non civile. Provo a spiegarmi meglio.
La presenza di questi popolari "dispensatori graduati" all'interno di mobili comunità linguistiche - che su Facebook non si sia tutti uguali è un dato talmente evidente per cui non è nemmeno il caso di soffermarsi - ha la funzione di contenere lo slancio libertario delle opinioni dentro un ordine estrinseco, fondato appunto sull'autorità carismatica dei tutori dello spazio comunicativo. Ed è un'autorità solo raramente guadagnata sul campo virtuale e più spesso derivata da ciò che essi fanno e dicono "fuori"; si tratta con frequenza di personaggi appartenenti alla sfera dello spettacolo (considero ovviamente sport e politica come spettacolo), ma non di rado anche di intellettuali e scrittori come Giulio Mozzi, che vengono qui come spettacolarizzati e resi simili a icone pop. Ma in fondo una civiltà, qualsiasi essa sia, è proprio questa cosa qui. Un sistema gerarchico in cui i saperi vengono disciplinati secondo logiche che in buona parte attengono al potere, all'autorità personale prima ancora che istituzionale, come la filosofia e la psicologia moderne hanno ampiamente documentato, con pagine decisive quali ad esempio quelle prodotte da Foucault e da Lacan, fino ad arrivare alle moderne analisi di Slavoj Žižek.
Il potere non risulta dunque solo un poter fare, ma anche un poter essere, un poter rappresentare, inteso come una sorta di nucleo pre-formale e pre-legale che agisce nei meccanismi di attribuzione collettiva del significato. Al posto di potere, se preferiamo, possiamo anche utilizzare espressioni come codice o Grande Altro, sempre proveniente dal tortuoso alfabeto lacaniano, che vanno comunque a definire una presenza normativa occulta, sorta di legge oscena nella vita delle comunità. Già che è proprio la sua esclusione dall'evidenza pubblica a garantire l'efficienza di questo codice implicito, che consente lo stesso slancio associativo (qualcosa come un galateo o regola dei giochi) e la generazione del senso comune dall'incontro di pretesti mai effettivamente dibattuti; potremmo chiamarli dei "tabù semantici". O detta in altre e più semplici parole: una comunicazione totalmente democratica e orizzontale, quale l'utopia di Facebook vorrebbe, anzi sbandiera come fatto compiuto, sarebbe anche una comunicazione che finisce col negare se stessa, raggiungendo il grado zero dell'afasia.
Per quanto anche a me lasci un po' perplesso il comportamento di certi capoclasse, che su Facebook buttando lì il sasso e subito nascondono la mano, lasciando sfogare i propri accoliti in discussioni senza costrutto, regola, disciplina e spesso anche nessun oggetto reale, mi viene da considerarlo come una sorta di male necessario, il sacrificio per ciò che un tempo la teologia chiamava bene superiore. Una dinamica ancora una volta visibile nella circostanza che mi vede protagonista, quando sono intervenuto tra i commenti del post di Giulio Mozzi in cui si dibatteva animatamente del mio testo, cercando quindi di chiarire (come immaginavo utile) le mie intenzioni. Bene, nessuno ha badato alla mia riposta, o meglio solo una persona si è filata le mie parole, buttandomi lì uno stiracchiato pollicione. Tutti gli altri, essendosi già sfogati sulla superficie dello specchio, erano già protesi verso un nuovo osso da spolpare, piovuto dalla mano generosa del loro referente di turno.
Una vicenda che io trovo tecnicamente esemplare, come a dire: il principio di realtà (l'autore, il testo, le sue intenzioni: cioè io) diviene totalmente irrilevante rispetto all'onnipotenza narcisistica dell'interprete (i Facebooker che usano la mie parole in modo a volte anche intelligente, ma non dialettico tra di loro e con me: ognuno insomma se la suona e se la canta da solo) oltre che all'autorità del veicolo (Giulio Mozzi, che in forma laconica veicola l'informazione nuda cruda, quindi si ritira con aristocratico diniego), mentre velocità e novità dello stimolo coincidono con l'importanza progressiva che viene socialmente a occupare. E però sia l'onnipotenza interpretativa sia la libertà di parola sono solo apparenti, già che è sempre un burattinaio a insinuare l'oggetto (lo stimolo) del dibattere nell'arena delle opinioni. E' insomma ancora una volta il veicolo l'elemento davvero decisivo, l'etichetta a fare bello l'abito, tanto che il gesto esterno di offrire la notizia finisce col configurarsi come l'unico significato realmente condiviso. "The medium si the message", scriveva Marshall McLuhan. Ma anche colui che media il medium si fa così messaggio, lex implicita della narrazione.
L'elemento forse davvero rilevante sta allora nell'obiettiva costatazione che fenomeni diversi, ma uniti dal denominatore tecnologico e dalla ricalibrazione di lingua scritta e parlata, combinati all'immediatezza visiva, si stanno manifestando in un'epoca in cui le agenzie tradizionali su cui si fondava l'autorità - lo Stato, la Chiesa, la cultura alta e accademica - vanno perdendo di credito e riconoscimento. La mia tesi è dunque quella che proprio su Facebook, o comunque in generale sul web, si stia consumando il decisivo cambio di consegne alle interno delle strutture simboliche del potere. Con alcuni intellettuali che stanno assumendo i panni severi dell'autorità militare o quelli ammiccanti e carismatici dello spettacolare - la diva che discende piano le scale luccicanti della ribalta, il ventaglio e le morbide piume di uno struzzo ad accarezzarne il lungo collo disteso - non solo o non sempre per il narcisismo dei suoi interpreti, ma proprio perché è quel che gli viene richiesto dalle moltitudini confuse. E tutto ciò solo per poter continuare in quella cosa che Leopardi chiamava semplicemente "con-versazione". Ossia protendersi, con altri, nel medesimo verso che sappiamo tutti fin troppo bene qual è, ed è forse perciò che abbiamo la continua esigenza di parlare: per scordarcelo, per vivere come se la vita fosse sempre.
Ebbene Luisa, per quanto le retoriche di Facebook ti possano sembrare becere o perfino disgustose - come sai anche io le ho vissute con estremo disagio, almeno fin che ci sono stato invischiato - non sono probabilmente altro che il riflesso dell'eterno meccanismo gerarchico su cui si fondano e declinano le civiltà. Ma al netto di istituzioni, che prima o poi arriveranno a contendersi la scena, per avvalorare e congelare in legge esplicita la torta dei poteri che sta qui solo lievitando. Noi evidentemente apparteniamo a una civiltà morente, vedila così... Al biscotto che si frantuma nelle tasche di un bambino.

2 commenti:

  1. grazie della risposta Guido!!Innanzitutto devo dire che mi sono inserita con un commento al tuo post senza preoccuparmi di chiedermi se mi stavo nutrendo di un becchime elergitomi da una mano occulta (dopotutto non sono dei capo-classe anche i blogger??) perchè fondamentalmente e semplicemente mi piace quel che scrivi e che mi ci sono inserita del tutto ignara della querelle in corso su facebook. Se posso avanzare poi le mie semplici osservazioni, non credo di appartenere ad una civiltà morente solo perchè non seguo le regole comunicative di facebook; scopro che i blog - che comunque rientrano a buon diritto nelle forme comunicative della post- modernità - siano più interessanti almeno nella misura in cui si concede lo spazio ad una replica, ad una risposta :-) a me piace la possibilità che mi sta offrendo internet di dialogare in modo passabilmente articolato con uno sconosciuto che però ha qualcosa da dirmi.
    Che altro aggiungere? Alcune delle cose che scrivi mi piacciono,stimolano riflessioni e poi ognuno ne faccia quello che vuole....non si tratta di creare maitre à penser, ma di cercare/offrire occasioni per riflettere sulla realtà, prendendo il becchime - deliberatamente scientemente e consapevolmente - che nutre di più...Ciò detto non mi resta che ribadire la mia semplice gratitudine (faccina simpatica :-))
    Luisa

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  2. Luisa, sì, hai ragione. il rischio di trasformare anche un blog in una macchinetta distributrice di becchime è palpabile. per altro, come ho cercato di argomentare, la trovo una funzione utile e necessaria. non ho nulla contro i vari capoclasse del web. se non che, il grado di consapevolezza delle ricadute delle nuove forme di comunicazione, trovo che sia ancora molto basso. ma anche questo trovo che sia in qualche modo inevitabile, data l'oggettiva novità del fenomeno. credo insomma che l'unica cosa ora da fare si quella di realizzare il proprio lavoro con serietà e impegno. e se uno ha avuto in dono da Dio il talento di gettare becchime, forse fa bene a fare anche quello. e così sia.

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