mercoledì 3 dicembre 2025

Racconto di Natale (mi ricordo 68)



Mi ricordo della cassiera di un discount. Si trova a Casacce, un paese a una decina di chilometri da Sondrio, dove è comunque presente un punto vendita della stessa catena, che è però sempre affollato. Così ho preso l’abitudine di andare a Casacce. Qui ci sono due casse ma solamente una viene mantenuta aperta, per il flusso di clienti è più che sufficiente. Una cassa per tre cassiere in alternanza.

La cassiera del mio ricordo è bionda, alta, l’espressione un po’ triste. Quando l’ho vista la prima volta ho pensato a una versione tinta di Anna Karina in Pierrot le Fou. Da giovane sceglievo la cassa nei supermarket in base all’avvenenza delle cassiere; ora cerco di intuirne l’umore, le speranze deluse o la soddisfazione per avercelo, comunque, un lavoro.

Con questa cassiera confesso che è stato difficile. Si spegneva e riaccendeva a ogni turno di spesa, on off, on off, passando dal dentro al fuori attraverso una parola di attenzione e un sorriso per tutti, in una versione disneyana del cliente ha sempre ragione. Arrivato il mio turno mi ha chiesto a bruciapelo: “Come stai?”

Come sto? Di solito lo si chiede a chi già si conosce. E comunque sto male, molto male. Che faccio, glielo dico… Alla fine ho optato per la figura della litote: “Non bene” le ho detto senza guardarla in faccia, e cominciando a infilare la spesa nel sacchetto che avevo portato da casa.

“Cos’hai?” ha insistito lei. “Sempre se posso chiedere…”

“Beh, tante cose. Problemi alla vista in particolare. Due settimane fa ho avuto un distacco della retina, e ora da un occhio quasi non ci vedo.”

“Anche io, da un occhio, non vedo.”

“Davvero?” ho ribattuto tanto per dire qualcosa, tutto preso dal mio essere al centro di un mondo di ombre confuse e oscene, un mondo sul punto di sfasciarsi.

“Da quale occhio?” ha insistito lei. “Quello che non va, intendo.”

“Il destro.”

“Io il sinistro.”

“…

“Allora,” ha concluso la cassiera, “in due facciamo una persona normale!”

Nei giorni successivi ho pensato spesso alla sua battuta. Avevo voglia di trasformare i miei pensieri in un gesto: non di seduzione, è troppo giovane per me. Un gesto che restituisse la figura di integrità intravista per un attimo, mentre il cliente successivo premeva con una bottiglia di Baileys sottomarca.

Sono tornato altre volte nel discount di Casacce. Non sempre la trovavo, e un po’ mi dispiaceva. Ma quando c’era lei veniva ripreso il filo del discorso, come se l'ultimo scambio fosse avvenuto pochi secondi prima. Dall'oculistica si è passati alla musica – curioso che una ragazza di nemmeno trent’anni ascolti i Beatles – poi alle serie TV. Mad Men è piaciuta molto a entrambi, peccato che non siamo riusciti a confrontarci sulle ragioni per cui Don Draper ha allontanato il fratello, perché diavolo l'ha fatto... ma c’era sempre il cliente successivo.

Mediamente, si trattava di conversazioni di trenta secondi, massimo un minuto. È possibile dare forma umana a rapporti di un minuto? Rapporti che col sesso, o altre scorciatoie fisiche, non c’entrano nulla. Non so, ma alla fine mi è venuto in mente il gesto.

La volta successiva, arrivato il mio turno, ho aggiunto alla spesa una confezione di Lego; conteneva dei girasoli da montare, non l'avevo presa dagli scaffali del discount ma acquistata su Amazon. In fondo eravamo a dicembre inoltrato, una coppia balcanica aveva infilato un enorme Babbo Natale nel carrello. “Sono per te” le ho detto. "E sono due, come i nostri occhi sani o quelli scassati, a tua scelta. Non battermeli con la spesa però” ho aggiunto per stemperare l’imbarazzo.

Lei è rimasta un po’ interdetta. Ah, grazie grazie… che pensiero gentile. Ora non ricordo le parole esatte, ma deve avere balbettato qualcosa del genere. Intanto, la coppia balcanica aveva già posato il pupazzone rosso con la barba bianca sul nastro. “Allora ciao” le ho detto, “alla prossima e buon Natale.”

Ma prima di uscire dalla porta scorrevole mi sono sentito chiamare. “Ehi, tu, occhio scassato... Cioè, scusa: uomo dei girasoli.” Ci siamo accorti che non ci eravamo ancora presentati. “Una cosa, non fraintendermi.”

“Dimmi.”

La donna della coppia balcanica, spazientita, continuava a tamburellare le dita sul capoccione del pupazzo e, più dietro, il carrello di un uomo con i capelli fulvi era pieno di sacchi di carbonella. C’è da credere che dovesse organizzare una grigliata per il cenone degli alpini.

“Posso abbracciarti?” ha detto la cassiera in un soffio.

Poi è uscita dalla casa e l’ha fatto, mi ha abbracciato davanti a tutti senza che io avessi il tempo per rispondere, né di chiederle quel nome che mi è tutt'ora ignoto. Con i nostri occhi scassati che vagavano, fuori fuoco, tra friggitrici ad aria che si rompono dopo due settimane, merendine piene di grassi saturi, mozzarelle di bufala in scadenza. Mentre i nostri occhi buoni si aggrappavano al buono che c'è.

A lezione di scrittura creativa da Francesca Albanese

Le recenti polemiche sull’infelice uscita di Francesca Albanese mi toccano il giusto, e cioè pochissimo. Le trovo però un formidabile esempio della natura del linguaggio; dunque, volendo, anche un’involontaria lezione di scrittura creativa. Provo a spiegarmi.

Nel condannare l’irruzione violenta nella sede torinese del quotidiano La Stampa – violenta verso luoghi e oggetti, va precisato, non verso le persone che erano assenti a causa di uno sciopero – nel condannare come tutti quel brutto episodio, ad Albanese è sfuggito il termine monito.

È una cazzata, sia chiaro, e credo che lei stessa se ne sia accorta a stretto giro – monito è la foma contratta di ammonimento: quello che fanno gli arbitri di calcio ai giocatori fallosi, ma anche i mafiosi a chi non paga il pizzo.

Nessun ammonimento dunque, che i giornalisti della Stampa continuino a scrivere quel che gli pare, senza cartellini rossi o frasi minacciose pronunciate a mezza bocca.

Il fatto è che il termine improprio faceva capolino all’interno di parole di condivisibile buon senso; se volessimo quantificare, sarebbe l’uno per cento del dettato linguistico.

Eppure, quell’uno per cento è quel che si è fissato nell’attenzione dei più, compreso di chi (come me) non ha pregiudizi ostili verso Francesca Albanese. Perché?

La risposta non la troviamo nella teoria politica, ma in quella, appunto, narratologica. Nella sua ultima newsletter, lo scrittore Ivano Porpora parla di “come un dettaglio minimo può aprire la porta alla profondità."

“Molte storie si inceppano perché restano in superficie: la scena c’è, ma non scava. Sembra giusta, sembra messa lì bene, eppure non cambia niente del personaggio, non apre niente, non lascia filtrare nessuna crepa.”

Fin qui la cornice astratta, ma nel testo vengono aggiunti anche alcuni esempi. Il primo riguarda un racconto di Tommaso Landolfi dal titolo La pietra lunare.

“All’inizio" prosegue nel suo ragionamento Porpora, "sembra tutto lineare: un ragazzo si innamora. Ambientazione quasi da realtà domestica. Purezza. Poi Landolfi mette un dettaglio: gli zoccoli caprini della ragazza.”

Ecco, il termine monito, pronunciato da Francesca Albanese quasi distrattamente, corrisponde agli zoccoli caprini nel racconto di Landolfi: in entrambi i casi è il dettaglio che indirizza l’interpretazione del lettore.

Si produce infatti un’incrinatura discorsiva nel leggere di zoccoli caprini, specie quando a indossarli è una ragazza in tutto il resto normale; si produce una speculare incrinatura quando si utilizza il termine monito associandolo al vandalico assalto della redazione di un giornale.

Seguono le precisazioni di chi ha commesso la gaffe; e le ragioni, specie quando sono ragionevoli, sono sempre bene accolte. E poi chi siamo noi per assegnare patenti di virtù, come fece la stessa Albanese quando si rivolse al sindaco di Reggio Emilia: “La perdono, Sindaco.”

No, noi non perdoniamo proprio nessuno, perché nessuno abbiamo accusato. Ma da lettori quel monito è difficile da dimenticare... Per dirla con Roland Barthes: è il punctum della narrazione.