sabato 30 marzo 2024

E io tra di voi, o sulla famiglia allargata

Mia nonna aveva un’amica di nome Erminia. Uno dei miei primi ricordi – avrò avuto quattro anni, forse meno – è la sensazione del mio corpo minuscolo tra i loro corpi giganteschi, umidi dopo essersi lavate per sommarie porzioni nel catino; e sì che nel bagno era presente la vasca, da riservare però ai soli giorni festivi. Si distinguevano dagli altri perché, oltre a lavarsi nella vasca, il nonno si radeva e metteva l'Acqua Velva sulla faccia, la nonna il foulard e le scarpe con un accenno di tacco. Quindi andavano in una chiesetta dalla spigolosa architettura modernista (lui non proprio tutte le domeniche, più che altro si era specializzato in funerali), dove in ampio anticipo sull'happy hour veniva offerto un dischetto di farina 00 mescolata ad acqua e cotta per bene, la forma ricordava i gettoni dell’autoscontro. Solamente il prete poteva tenere i gettoni dell'autoscontro tra le dita, agli altri non era concesso; pare fosse anche quello un corpo: il prete non poteva toccare il corpo degli uomini e, soprattutto, delle donne, ma nel caso del corpo di Cristo veniva fatta un'eccezione. Mi sembra un compromesso ragionevole. Un problema che io non avevo, come una bambola di porcellana ero toccato, vestito, lucidato dopo essermi arrampicato sul fienile, e prima di dormire posato proprio nel mezzo del lettone matrimoniale in noce, mia nonna da una parte ed Erminia dall'altra. Sentivo le mani callose che mi rimboccavano le coperte, il tepore di pance tornite dalla polenta più che dagli addominali, a ogni minimo movimento era il frusciare dei sottanoni bianchi, da cui di tanto in tanto sfiatavano delle puzzette, non so se fosse la nonna oppure Erminia. O forse si trattava dell'odore che solo i bambini riconoscono, lo chiamano vecchiaia; immagino che se un bambino mi annusasse oggi avvertirebbe lo stesso odore. Poi l'esperienza si è ripetuta, e non posso dire con certezza a quale sera si riferisca il ricordo; probabilmente a tutte quante assemblate in un unico prodotto psichico, in fondo la memoria somiglia al montaggio nel cinema. Erminia passava a trovare la nonna non troppo spesso, le facevano male i piedi e nonostante questo si rifiutava di prendere la corriera, ma neppure si trattava di un evento eccezionale, diciamo una via di mezzo. Il nonno le cedeva volentieri il suo posto nel letto, dove io venivo incorporato mentre i miei genitori potevano tornare alla vita che mi precede: si cenava comunque a casa per risparmiare sul modesto stipendio da maestri elementari, seguiva un film che è quanto passava il convento – escludendo la sala della parrocchia dove la programmazione era per ragazzi, rimaneva il Pedretti con la sua platea immersa nella nebbia di MS e Marlboro. Se andava bene poteva essere Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Piccolo grande uomo, Il girardino dei Finzi Contini, tutti usciti nel 1970 come la Fiat 128, e poi di nuovo a casa per una scopatina. Intanto, mentre il nonno già ronfava nella cameretta e io mi sforzavo per non fare lo stesso, Erminia e la nonna parlavano, parlavano, non la smettevano più anche una volta spenta la luce. Ciò che non mi tornava era il senso delle frasi sempre uguali, seguivano ai pettegolezzi che, dopo un gesto compiuto da entrambe in sincronia, a collegare con la mano destra la fronte, il petto e le spalle in sequenza, riprendevano. Retrospettivamente, scommetterei che si trattava di preghiere rivolte a Gesù, alla Madonna e a un signore barbuto che nel suo cuore aveva scalzato il povero Giuseppe; ma per quel che ne so avrebbero potuto essere invocazioni a qualche divinità precolombiana, Hun-Hunahpu ad esempio. Mia nonna, Erminia, Hun-Hunahpu e io – perché no? Nel tempo in cui tutto era ancora possibile la nozione di assurdo non esiste. Erminia arrivava a passi lenti, ne riconoscevo la sagoma scura e leggermente ricurva già all’inizio della strada sterrata che portava a Busteggia; lo stradino la pettinava una volta la settimana con un rastrello di metallo dalla dentatura fine, per quanto mi fossi fatto l'idea che il suo fosse un hobby stravagante, il vero lavoro fumare il sigaro. Già ad accenderlo, un sigaro del tipo toscano, ci voleva dedizione e pazienza e fiammiferi di legno, ma dopo un paio di boccate lo spegneva e infilava nella tasca del gilet, per ripescarlo, assestati pochi colpi di rastrello, riaccendere la punta annerita e così via. La nonna dava da mangiare ai conigli e chiudeva le galline nel pollaio, il nonno terminava di mungere le mucche, io non sapevo ancora leggere e così non avevo neppure quella rottura di coglioni, solo guardarmi in giro, guardare ogni cosa incomprensibile e ogni cosa era incomprensibile e giusta, senza bisogno di sfidarla con la fionda del concetto. Infine una scodella colma di riso e latte che anticipava quel calore, quelle puzzette, quei Pater Noster. Se penso a un’immagine che riassuma l'espressione famiglia allargata, è questa qui.

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