Dopo lunga e attenta riflessione – è quasi cinquant'anni che ci penso, e quando ho finito di pensare ci ripenso –
sono arrivato alla conclusione che il mio ideale di donna è incarnato
da Jhumpa Lahiri. Proprio lei, non un’altra.
Nulla nella scrittrice anglo-bengalese che non mi piaccia: è bella ma
in un modo non forzato, quasi distratto, tipico di chi non subisce l’ipoteca
del corpo come un trofeo oppure una colpa da emendare, dopo aver chiesto perdono al tribunale della mente. Un'assemblea occhiuta che si dà appuntamento sulla superficie dello specchio, a cui molte donne che si attribuiscono l'aggettivo emancipate (intellettuali,
professioniste, donne come si dice in carriera) guardano con la stessa ansia di Grimilde, per poi cominciare a lambiccarsi: oddio sarò mica troppo bella,
mi prenderanno per scema, meglio imbruttirmi un po’, e però non troppo…
Un ruminare interno che finisce col succhiarsi tutte le energie, da Jhumpa
Lahiri, al contrario, riversate nelle cose altrettanto belle che scrive. Oltretutto, da
qualche tempo la sua scrittura ha preso il suono della lingua italiana,
guadagnata in un apprendistato tardivo che mi ricorda la
tenace dedizione degli alpinisti; è frutto di un sapere introverso, quasi un segreto: si sa senza bisogno di dire che la vetta è un
percorso e non un luogo; e così anche la lingua, ogni lingua ma in particolare
quella di uno scrittore.
Scrivendo in parole, modulazioni, ritmi diversi da quelli balbettati fin
dall'infanzia – non a caso si usa l'espressione lingua madre –, è come estorcere ogni frase al silenzio con la piccozza e con le unghie, rinunciando
agli automatismi di ciò che si crede di conoscere fin troppo bene, e invece
sfugge per eccesso di confidenza. Ed è a questo punto che la lingua dell’altro, per un
paradosso solo apparente, si dimostra la nostra vera lingua, interrogandoci a ogni sillaba invece di lasciarsi
semplicemente pronunciare. Che è poi quando succede nell’amore, in cui abbiamo bisogno
di una maglietta fina e tanto stretta al punto di immaginare tutto, ma prima ancora di qualcuno che l'indossi. Viceversa, Baglioni l'aveva capito bene, avremo sempre e solo una parte. E non è detto che sia la nostra.
Viene alla mente un vecchio Carosello con Mike Bongiorno, in cui salutava
dicendo allegria, allegria, dal cucuzzolo innevato del Monte Bianco, su cui era
planato in elicottero per farsi un grappino sempre più in alto! Sembrava finito chissà dove, ma
Mike Bongiorno, senza incontrare la fatica e l’incertezza del viaggio, l'altri-menti quale via concreta verso l'altro, era in
fondo rimasto nello stesso salottino da cui lo stavamo guardando in tivù. Secondo
Paul Bowles, è la differenza che passa tra un turista e un viaggiatore. Jhumpa
Lahiri, rifuggendo il turismo letterario, parlando la lingua dell'amore, non arriva all’ultima pagina dei suoi
libri in elicottero. E a me piace anche per questo.
Domando dunque a chi mi sta leggendo se qualcuno la conosce di persona, va
bene anche una conoscenza riflessa e di secondo grado; che so magari avete un
cugino che vive a Princeton e fa il taxista e una volta lei è salita sul suo
taxi. Non chiedo infatti di presentarmela (è già sposata), ma vorrei solo
sapere che profumo ha; la pelle proprio, l'odore emanato dal corpo in certi
torridi pomeriggi di fine giugno. Mi darebbe infatti sollievo saperlo
sgradevole.
Forse sa di curcuma, quella sensazione che colpisce le narici quando
passiamo di fronte a un negozietto in cui arrostisce il rullo del kebab;
oppure inalazioni sulfuree di acqua di Tabiano, solette Converse All Star indossate da un adolescente, sotto pelo di bovaro del bernese in un giorno di pioggia; mi basterebbe anche della semplice
e banalissima cacca. Magari, ecco, chiamatela escrementi, per non turbare il mio
cuore di devoto.
Il fatto è che la trovo così maledettamente perfetta, un'altra che è troppo altro da me; quando, anche l'alterità, ha bisogno di un punto di accesso per iscriversi e uscire dalla dimensione della rêverie, divenendo storia. Il mio immaginario si contrae allora in un solo e inaccessibile punto, come
una bandiera ammainata e poi ripiegata più volte, fino a farla diventare un
fazzoletto da infilare nel taschino. E rimpiango i bei tempi in cui mi giravo al
passaggio di ogni femmina, incantandomi di fronte ai capezzoli rosa delle
ragazze Cin Cin.
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