martedì 20 settembre 2016

Le mele del signor Pizzala, o sul bene e il valore



Io abito in un condominio costruito nella periferia semi agricola di Sondrio da una cooperativa di maestri elementari alla fine degli anni cinquanta. I maestri hanno acquistato il terreno in cui il signor Pizzala, mi raccontano i miei genitori, coltivava le mele, delle belle mele gialle e rosse che segnavano l’estremo confine meridionale della città. Quindi ci hanno costruito sopra un palazzotto grigio e impettito, funzionale, o come chiama questo stile Gianni Celati con felice intuizione: geometrile. Era la sigla di un’Italia sollecita e ottimista, magari un poco approssimativa, ecco, edificata dai geometri nel tempo del boom economico senza troppe sottigliezze estetiche. In altre parole: casa mia.
In quell’Italia gli insegnanti elementari avevano un ruolo ben preciso, rappresentato e rappresentativo, perfino esemplare, erano insomma classe dirigente. I miei genitori, per la soddisfazione dei loro, di genitori, avevano guadagnato l’accesso alla classe dirigente del nostro Paese dopo essersi conosciuti sui banchi dell’Istituto Magistrale Lena Perpenti, le cui aule ospitano ora i corsi di musica del Comune. Anche due fratelli di mio nonno – lo zio Enrico e lo zio Peppino -, la sorella di mio padre, mia zia Marina, la cugina materna Alba e suo marito Pietro, quasi tutti, ora che ci penso, nella mia famiglia sono stati maestri elementari. Anche la zia Gina, che viene ricordata malvolentieri quando si enumerano le genealogie di fronte a una tazza fumante di tè con i canestrelli.
Adesso quel condominio geometrile sbocciato da un giorno con l’altro nel frutteto del signor Pizzala, dall’estremo orlo in cui si trovava si è ricollocato nel semicentro della città, in base al principio di espansione e inclusione proprio dei grandi imperi come delle metastasi tumorali. Molti dei maestri elementari che ci abitavano sono morti, gli appartamenti sono stati ereditati, venduti, affittati. Quasi tutti i nuovi inquilini probabilmente nemmeno conoscono il nome che fu dato al loro sogno di calce e mattoni, con evidentemente slancio rinascimentale, da quel lontano manipolo di maestri: condominio la Gioiosa, come la Ca' Zoiosa di Vittorino da Feltre.
Per qualche tempo hanno abitato nel codominio la Gioiosa anche delle entreneuse rumene, rientravano tutte le notti alle quattro e si alzavano a mezzogiorno. Un’altra rumena che abita qui, ma di professione fa la badante, fingeva, con loro, di essere italiana. Poteva così origliare i discorsi nell'androne di ingresso senza suscitarne la cautela, cercando in tal modo di carpire se covassero qualche malaffare. Questo minimo spionaggio condominiale veniva poi condiviso tra i vicini. 
Nell’appartamento, a piano terra, delle entreneuse rumene, da qualche mese si sono trasferiti un gruppo di giovani africani, probabilmente appartengono a un’associazione di aiuti umanitari o qualcosa del genere, visto che i numerosi inquilini cambiano di frequente e si fa fatica a riconoscerli. A qualcuno, me l'aspettavo, ho sentito dire che "i negri sotto tutti uguali…” (purtroppo nel condominio non abbiamo nessun ghanese che possa travestirsi da italiano e fornirci ragguagli).
Quando i giovani africani sono arrivati erano ancora in corso i lavori per il rifacimento dell’ascensore, che perciò non funzionava. Ogni volta che mia madre rientrava con un sacchetto della spesa o degli altri ingombri, c’era sempre un ragazzo africano pronto ad agguantarlo per precipitarsi al quarto piano, ma rifiutandosi di accettare la mancia che sempre gli offriva mia madre, la quale si sdebitava con qualche manicaretto che gli portava ancora fumante all’ora di cena. E non voglio dire che le persone di colore siano tutte brave, sarebbe anche quello razzismo, razzismo all’incontrario, ma semplicemente che è andata a questo modo. Un modo che mia madre ha gradito molto, e che ha fatto piacere anche a me.
Durante l’ultima assemblea condominiale, mi sono però accorto che la presenza africana viene vissuta diversamente dalla maggioranza degli altri condomini. L’intervento che mi ha più colpito è quello della giovane e bellissima figlia degli inquilini del primo piano. Secondo lei, se non poniamo al più presto argine alla cosa – questi “negri” che sostano davanti a casa in minacciosi capannelli, parcheggiando le numerose e scassate biciclette in cortile, a disdoro dell’immagine del condominio –, la loro sgradita presenza si rifletterà negativamente anche sul valore dell’immobile.
Il suo ragionamento temo che sia verosimile, già che verosimilmente buona parte della popolazione la pensa allo stesso modo. Se infatti un “negro” vale (ipotesi) meno di un bianco, anche un condominio con andirivieni di persone di colore, in base al principio della metonimia, varrà di meno. Meno soldi proprio, moneta sonante. Un ragionamento che in effetti non fa una grinza.
Quel che forse sfugge alla mia bellissima vicina di casa è che il valore, qualsiasi tipo di valore, economico o sociale poco importa, è conseguenza di attribuzioni in buona parte discrezionali, non è un dato di fatto per così dire ontologico. Si fa insomma valere qualche cosa, il valore è un’attribuzione, mai uno status autonomo che definisce un oggetto o una condizione, ed è quindi frutto più della consuetudine (gli occhiali che indossiamo nel guardare il mondo) che della realtà oggettiva delle cose.
Possiede quindi ampi margini discrezionali anche la nozione di utilità – ha valore ciò che è utile, ciò che serve specialmente in regime di scarsità dell’offerta, ci ricorda la teoria economica –, quando l’utilità e il danno sono molto meno intuitivi di quel che appare agli economisti. Siamo ad esempio certi che una polo Ralph Lauren sia davvero quattro volte più utile di un’uguale maglietta della Robe di Kappa…? O non sarà che entrambe possiedono la medesima utilità, ma una vale di più, quattro volte di più, perché è stata come gonfiata da un elemento immateriale e psicologico, che potremmo chiamare prestigio.
Il prestigio è dunque una narrazione subliminale che associa un oggetto a una condizione auspicata, la quale può essere anche molto lontana dall’oggetto stesso, quanto lo è l'auspicio da un tornaconto reale. L’elemento che potrebbe aiutare a distinguere tra utilità e prestigio, quindi tra valore e bene, ossia tra un codice simbolico e un vantaggio concreto e umano, è la consapevolezza, qui intesa come coscienza delle strutture antropologiche che portano sia al giudizio che al pregiudizio, da cui una possibile valorizzazione dell’inutile. Ma questa preziosissima facoltà, preziosa oltre ogni valore, dovrebbe essere la scuola a fornirla, l’insegnamento a farla circolare per il mondo. Sapere, in altre parole, prima di avere e volere e giudicare.
Ecco, a me sembra allora che la minima vicenda qui accennata sia una perfetta metafora di questo tempo, in cui dilaga il valore (economico, sociale, razziale) ma implode il bene e la coscienza, nel più totale vuoto pedagogico. E allora sì, tocca concludere che ha davvero ragione la bellissima ragazza che non vuole "negri" in casa propria: perché quella casa ora vale meno, molto meno da quando noi, con le nostre belle polo Ralph Lauren con il colletto sollevato, abbiamo occupato le stanze che i suoi antichi maestri avevano costruito con slancio e passione, dopo aver colto le mele gialle e rosse dall'albero del signor Pizzala.

4 commenti:

  1. Fortunatamente anche la zia Gina, come accade a tutti, insieme a tante persone che la ricordano malvolentieri, ne ha almeno altrettante che la pensano con immenso affetto... Tutti siamo più o meno buoni, più o meno cattivi e chiunque ha di noi un ricordo solo suo e di nessun altro. Per questo chi se n'è andato ha il diritto di riposare in pace.

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  2. Marina, il testo pubblicato su questo blog è firmato da Guido Hauser, non da Guido Bussoli, e non contiene altri cognomi se non quello del signor Pizzala, che tra parentesi non ha mai posseduto un meleto in via Parolo. Siamo insomma di fronte a un particolare genere letterario chiamato fiction biografica, in cui verità e finzione si mescolano e confondono, per quanto a volte sbilanciando da una delle due parti, come nel presente caso. Inoltre, in ciò che ho scritto proprio non riesco a ritrovare offesa - effettiva ma neppure implicita - verso nessuna delle persone reali a cui i personaggi del racconto si richiamano, compreso "la zia Gina". Con l'avverbio malvolentieri, accompagnato alla sua evocazione dentro il romanzo famigliare, si esprime infatti un disagio, un malessere o se preferisci una difficoltà reciproca di comprensione che i personaggi di quel racconto avrebbero vissuto negli anni, che è esattamente quanto successo alla famiglia del narratore; nella fattispecie la mia famiglia, che è anche la tua, la nostra famiglia. Se dunque quell'avverbio, o qualsiasi altra parola o riferimento nel testo ti hanno ferita, non ho alcuna difficoltà a scusarmi, e lo faccio con tutto il cuore. Mi tocca però aggiungere, molto sommessamente e senza volontà polemica, ma con uguale e ferma convinzione, che non mi sento in dovere di corregere ciò che ho scritto, e anzi penso che il compito di uno scrittore sia proprio quello di portare a evidenza i non detti della storia: sia in quella grande, con la esse maiuscola, sia pure in quella piccina piccina, che si intreccia nelle radici genealogiche formando a volte dei brutti e tenaci nodi. E che tra la zia Gina e il resto della famiglia P. si fosse creato un nodo mai più sciolto, Marina, questo è un fatto, non un insulto, non un giudizio affrettato o lacunoso. Così ricordarlo con i semplici mezzi della letteratura non è molestare il legittimo sonno dei morti (che riposino in pace tutti quanti), ma forse la condizione affinché i nodi non vengano passati di generazione in generazione, quindi riconosciuti e sciolti. O almeno, io scrivo anche per questo: nel rispetto di tutti, zia Gina compresa. A cui davvero non ho nulla di personale da imputare, e anzi mando una piccola carezza postuma, come quelle che lei mi regalava da bambino.

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  3. Niente nodi o incomprensioni é un obiettivo molto alto; sciogliere o superare quelli nati tra persone ormai tutte lontane da noi per sempre può forse accadere ma solo attraverso le azioni quotidiane di chi ne conserva vivo il ricordo e l'esempio. Più passa il tempo più mi convinco che con le parole spesso si pasticcia e si fa soffrire a prescindere dalle intenzioni, ma non sono una scrittrice.....

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  4. Marina, le parole non sono poi tanto diverse da quelle che tu chiami "azioni quotidiane", tanto che molti filosofi le chiamano ormai "atti linguistici". La lingua, sia scritta sia parlata, condivide infatti con le azioni pratiche un fine, un mezzo e un risultato concreto, che purtroppo e come giustamente ricordi può essere anche molto lontano dall'intenzione in origine, l'unica cosa di cui io possa dar conto. Che non era certo un' intenzione offensiva: né verso i morti né verso i vivi, che ne "conservano vivo il ricordo e l'esempio". Ma, neppure, era contenuta la volontà di indicare, prescrivere ad altri percorsi del tutto personali, che ciascuno è liberissimo di fare o non fare. Oltretutto, appartengo a una generazione anagraficamente successiva a quella di cui parlo, e dunque non conosco l'origine del "nodo" da me solo sveltamente evocato (né tantomeno eventuali responsabilità, o peggio "colpe"), che ha avuto l'effetto di creare una sottile linea d'ombra dentro la nostra famiglia, come in quasi tutti le famiglie. E dove c'è ombra, sì, Marina, c'è spesso anche sofferenza. A cui si può accennare con rispetto oppure cacciare sotto il tappeto, come la polvere in quel vecchio film di Bergman. Ecco, diciamo che la mia è stata una spolverata alla nostra storia famigliare un po' più brusca di quelle solite, che ha risollevato un po' di polvere... (Ma siamo sicuri che la polvere debba riposare come i morti?)

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