sabato 1 ottobre 2016

Silenzio e buio, o sulla bellezza dell’inciampo





Sergio Caputo



Mi piace quando al cinema salta la pellicola e si rimane stretti stretti e in silenzio e al buio. Non so se succeda ancora, ma con le nuove tecniche di proiezione – forse c’è lo zampino del solito digitale – ho l’impressione che sia stata messa una pezza a quello che per quasi tutti gli altri spettatori doveva rappresentare un problema, o comunque un inciampo al loro legittimo svago (cavolo: abbiamo pagato il biglietto!). Tra i legni e i velluti impregnati di Muratti Ambassador della sala Pedretti di Sondrio, un tempo, perlomeno, dopo pochi secondi si iniziava a sentir gridare: “Luce!”, “film!”, o semplicemente la gente fischiava e faceva tum tum con i piedi e buuu con la bocca. Ed era un piacere anche accodarsi a quella festosa caciara, come quando ci si mette a suonare con il clacson al passaggio del corteo matrimoniale di non so chi.
Ma era anche l’antico gioco del branco che si ribella, uno slancio rivoluzionario in miniatura, dove una semplice casualità viene vissuta come l’abuso di potere del proiezionista (tutte le rivoluzioni covano almeno un momento di pura e istintiva sciocchezza…). Mi piaceva dunque, ma meno di quel primitivo meravigliato momento di buio e silenzio, che aveva bisogno di una dilazione – il tempo infinitesimale dell’enigma – per riconvertirsi in borbottante malumore. Una pausa, uno scarto improvviso dalla regola, in cui l’impressione, indefinita come tutte le impressioni ma palpabile, quasi concreta, era che tutto potesse accadere. In realtà non succedeva mai niente, e dopo pochi secondi riprendeva il film.
Faccio queste riflessioni appoggiato al bancone di un night club, un locale valtellinese in cui ormai conosco tutto e tutti. E anche qui, è il film che ho già visto mille volte ma non mi stanco di guardare, come un ragazzetto che riconosca i suoi beniamini ancor prima dell’ingresso in scena, divertendosi ad anticipare le battute degli attori, compreso le più logore o tristi o volgari; credo che una definizione di nevrosi potrebbe essere proprio questa: ripetere indefinitamente lo stesso schema, lasciandosi sorprendere dalla povertà di un gesto che al fondo si promuove.
E così c’è Agostino, detto Sant'Agostino, il paziente e garbato cameriere di sala, con il passo felpato e lesto che non ti aspetteresti dalla corporatura, come una pellicola dell'Orso Yoghi proiettata al doppio della velocità; la dolce barista Anna, dalla Bulgaria con pochi rimpianti e ancor meno illusioni (oggi i suoi begli occhi azzurri, sotto la frangetta bionda, sono particolarmente velati e malinconici, quella malinconia e quel lieve senso di anacronismo che qui aleggia su ogni cosa, insinuando il dubbio che dietro la scenografia del nostro film ci sia lo sguardo sornione di Kaurismaki); Nicola, ad accoglierti con una battuta dialettale e un sorriso aperto e schietto, anche in inverno incastrato dentro a una t-shirt di due taglie in meno che ne evidenzia la muscolatura, indispensabile corredo per un buttafuori; Roberto è invece magro e con i capelli diradati, ma sempre abbronzato, scanzonato, perennemente guascone. In fondo, dentro quel piccolo regno, non un giorno ma adesso tutto quanto è già suo. Per questo può concedersi di sbottonare la camicia bianca fino al terzo bottone, e lì farsi carezzare maliziosamente dalle ragazze, che pure avverte come proprie.
Ed eccole finalmente: le ragazze, le "signorine", come venivano dette negli anni ruggenti del tabarin – qualcuno aggiungeva anche l'aggettivo allegre, signorine allegre –, mentre chi masticava un po' di francese già le chiamava entreneuse! ("Come si scrive entreneuse?", chiedeva Cochi a Renato in un vecchio sketch televisivo. "Mmmh..." rifletteva un momento l'altro. Poi rispondeva: "Si scrive champagne!"). Che poi, le ragazze, sono in realtà una ragazza più una ragazza più un'altra ragazza ancora… Persone, intendo, singolarità biografiche come il nome che portano, e poco importa se sia quello vero o un nom de plume: Irina, Natasha, Nora, Gabriela… 

E invece no, quando le vedi e sono una decina al massimo, provenienti perlopiù dall'est europeo, con una forte prevalenza dalla Romania , quando non puoi fare a meno di vederle stipate su due bassi divanetti nel foyer, ti sembrano una cosa sola, un animale mitologico con molte teste e un unico meraviglioso corpo. Quanto all'età, possiamo scommettere sulla loro giovinezza come sulla penna sopra a un cappello d'alpino. 
Con la lenta e implacabile progressione dei petali di una margherita tra le mani di un innamorato, via una, via un'altra, dopo qualche minuto però sfoltiscono sulle note del sax di Fausto Papetti, come le teste di Cerbero. Tornano allora le ragazze a essere il loro nome, mentre, con passo flessuoso su ripidissimi tacchi, si allontanano con il cliente che le è ha invitate a bere, o a cui più spesso si sono offerte.
I primi ad arrivare, poco dopo l'apertura delle dieci, sono i clienti più attempati: gocciolano piano all'interno con la cadenza di un rubinetto rotto (si presentano da soli, i vecchi, e prima di varcare la soglia si guardano in giro con circospezione, non si capisce se alla ricerca di una preda appetibile o per controllare di non essere stati visti dall'amica di un'amica della moglie…), a differenza dell'ondata dei giovani che arriva intruppata dopo l'una di note, ma solo nei giorni festivi.
Intanto, le ragazze accavallano e mostrano le gambe, buttano sguardi che sono ami, esche vive, o forse è solo la copertina lustra di un romanzo con molte pagine e pochissima fantasia. Qui si vendono infatti narrazioni, non è una pescheria sessuale, per quello ci sono le escort, le inserzioni sui giornali o le disgraziate sotto ai lampioni, che porti via per una manciata di euro. Se non che, quando i clienti sono demotivati e abituali o si soffermano al bancone per parlare, come sto facendo io con un contadino di Albaredo (non siamo d'accordo su quanti litri di latte fa al giorno una mucca: da nipote di un mercante di bestiame dico che la Bruna Alpina arriva a venticinque litri, lui ribatte quindici), anche le ragazze chiacchierano nella loro lingua, facendosi belle con pochi e sicuri gesti della mano, mentre si preparano per l’ennesima rappresentazione di uno spettacolo che sembra sul punto di chiudere per sfinimento, ma trova sempre almeno un nuovo spettatore: io.
Il rituale liturgico della funzione religiosa e quello pagano della simulazione erotica, sono, in ogni caso, le due forme di messa in scena con il maggior numero di repliche nella storia. Squadra che vince non si cambia, come si dice. Ma ci sono le varianti, improvvisate di volta in volta in base alla tipologia del cliente – c'è il timido, il bullo, l'ubriaco, il simpaticone e il depresso come me, che nei pub dublinesi viene chiamato sad bastard –, al punto che mi viene da sospettare che la recita più frequente non sia l'ammiccamento sensuale, ma abbia invece una connotazione sottilmente affettiva (everybody needs somebody, somebody to love...) se non addirittura psicologica: “tua moglie non ti capisce, con me puoi invece aprirti e parlare liberamente”, questo il sotto testo a ogni discorso nella luce purpurea dei separé. Che ne contiene  un altro più occulto e perciò rimosso: “con me puoi parlare liberamente perché non mi importa nulla di te”. 

Nella sfinita rappresentazione che avviene nei night club di ogni tempo e luogo, c’è però almeno una circostanza in cui salta la pellicola – prima un lampo accesso, poi lo scomporsi chimico e surrealista dell’immagine – lasciando, anche qui, spazio al silenzio, al buio.
E’ il momento in cui il cliente esce e si trova sul vialetto sotto il cavalcavia di cemento che porta al parcheggio dietro alla stazione di Morbegno, dove, di pomeriggio, gli studenti si scambiano il fumo e le badanti ucraine i numeri di telefono di qualche vecchia a cui sciacquare la dentiera, dopo aver naturalmente intinto i Pavesini dentro al caffelatte tiepido. Intanto, la ragazza con cui sei stato tutta la sera, un breve passaggio in bagno e raggiunge il nuovo cliente che la aspetta girando il ghiaccio nel gin tonic. Così, mentre per te finisce, per lui inizia il film. A volte ci si saluta perfino, come atleti che si passano il testimone, come colleghi che si scambiano una pratica di routine.
E però, prima di ricominciare, c’è quella pausa, quello scarto e quel buio tenace e appiccicoso, che silenziosamente ti avvolge alla maniera di un lenzuolo in una notte torrida di fine luglio. Un tempo che è anche uno spazio, la minima rotta infinitamente percorsa da Agostino con un vassoio in mano e che divide la bella illusione sui divanetti – finalmente una donna che mi capisce e apprezza per quel che sono, una donna con gli anni di mia figlia e la pazienza di mia nonna… –  dal copione logoro che ti attende là fuori, con le scadenze di Equitalia e la visita dall’urologo che incombe minacciosa dal cielo dell'andropausa. Non più l’una ma non ancora l’altro, come l’ora del lupo a separare il giorno dalla notte, che è poi l’orario in cui si esce in genere da qui.
In questo caso però non partono i fischi, non c’è il buuu corale e vagamente goliardico della sala. Il portafogli è solo un poco più leggero, i pensieri anche. E intanto si fa largo una bellezza misteriosa, forse quella stessa che faceva esclamare a Rilke: “la bellezza è il principio del terribile.” Principio, o magari fine, svelamento del lenzuolo che fino a un attimo prima ti avvolgeva, con il gesto distratto dell'infermiere che mostra il volto finalmente disteso del cadavere: ed era tuo padre, tua madre, un fratello o l’amico con cui giocavi a calcetto all’oratorio...
No. Quel volto è sempre e solo il tuo volto. E almeno questo, uscendo da un night club alle quattro del mattino, lo capisci benissimo.

Nessun commento:

Posta un commento