venerdì 12 agosto 2016

Guidino, una storia (molto) italiana



Alla ripresa autunnale del campionato di basket del 1979, nello spogliatoio, minuscolo, della palestra dove la squadra giovanile in cui militavo faceva allenamento, vedemmo entrare un nuovo ragazzetto. Si era evidentemente iscritto anche lui alla Sondrio Sportiva, aveva fatto la visita medica, pagato la retta, ricevuto la divisa bianca a righine blu… A quel punto, era a tutti gli effetti uno di noi.

Come ti chiami?, qualcuno gli chiese. E di lui, ormai, ricordo quasi solo la risposta: Guido, si chiamava Guido come me. Ma ricordo pure che, oltre al cognome, mi distinguevano da Guido una quarantina di centimetri circa, due o tre spanne che potevo far valere nelle contese a palla ferma.

Eppure io non sono un watusso, e col mio metro e ottantaquattro stiracchiati avevo una statura appena appena passabile, gli spilungoni della squadra erano ben altri (Carletti e Sgro, ad esempio). Era dunque lui, Guido, detto Guidino, a essere decisamente sottodimensionato, e ciò come conseguenza della microsomia da cui era affetto dalla nascita. Insomma, dai, era un nano, non giriamoci attorno.

Ora io non conosco i tortuosi e bizzarri circuiti neuronali che hanno spinto i genitori di Guidino a iscriverlo a quello sport – una volta, si diceva che giocare a pallacanestro facesse aumentare di statura. Ma si diceva anche che, brucando le gemme sulla sommità degli alberi, alle giraffe crescesse il collo, prima che Darwin spiegasse a Lamarck come stessero in realtà le cose. E comunque, un nano che gioca a basket è il più crudele e perverso tra gli ossimori umani, inferiore forse solamente a un paraplegico che fa salto in alto, o un cieco tiro a segno.

Ma è anche l’immagine – Guidino con le sue braghette che gli arrivavano quasi ai piedi, Guidino a cui lasciavamo prendere i rimbalzi, di tanto in tanto, per non umiliarlo più di quanto già avesse fatto la vita – l’immagine che ora mi è venuta in mente pensando allo stato della cultura di questo Paese.

Non un nano che si arrampica sulle spalle dei giganti, intendo, come vuole il celebre motto medievale, ma un nano tra giganti. Un nano che però, a differenza del povero Guidino, di cui mi figuro la sofferenza ogni volta che si allacciava le Converse e metteva il suo piccolo piede sul parquet, non si accorge della catastrofe a cui sta andando incontro. E così scivola spensierato e ignaro tra le tibie degli avversari, scambiandole forse per arredo urbano…


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