In questi giorni si trova ospite a casa mia un
ragazzino di undici anni. E’ un amico di famiglia che, per ragioni che non sto a raccontare, è molto legato a mia madre, e lei a lui. E’ buffo osservarli nelle
schermaglie alimentari: mia madre cerca di convincerlo a mangiare questo o
quello (la faraona ripiena, la pasta con i frutti di mare) ma lui incrocia le
braccia e dice no no no, gli fa schifo quasi tutto. Le uniche cose che gradisce
sono pane, cioccolato, hamburger e patatine fritte, ma da mangiare in rigida e separata successione - il pane è una portata, dunque, non un complemento. Curiosamente, gli piacciono
molto anche le carote. Ma tutto il resto è motivo di sdegnata riprovazione,
perfino la pizza lo disgusta (mai visto, per inciso, un ragazzino a cui non
piace la pizza).
Nel mio palazzo abita però anche un altro giovane,
che è una vera e gioiosa fogna: mangerebbe anche sua nonna, se condita con
dovizia. I due ragazzi, a fasi alterne e conflittuali, sono diventati amici.
Quando è uscito per la prima volta a cena con il suo nuovo amico, io e mia madre
temevamo che il nostro ospite rientrasse digiuno, e avevamo già apprestato una versione notturna del suo rancio quotidiano a base di carote, hamburger e cioccolato al latte con nocciole. Siamo così
rimasti di stucco quando abbiamo scoperto che, al contrario, aveva mangiato ogni cosa (ogni cosa che l'altro aveva ordinato), e ce ne decantava entusiasta le
virtù: quanto era buona la cucina messicana (ma come, se fino al giorno prima
lasciava nel piatto tutto ciò che aveva anche solo sfiorato il peperoncino…?!)
e per non dire il sushi, con quella salsina verde, mmm, voi non potete capire
come si mangia bene con Marco, così si chiama l’amichetto.
Aver assistito a questo buffo valzer degli appetiti
di un preadolescente un po’ viziato, dopo un primo disarmato stupore – io e
mia madre che ci guardavamo come due mammut appartenenti a una diversa era
geologica – si è però rivelato istruttivo. Mi è infatti venuto il dubbio che
tutti noi, magari in modo più sfumato, funzioniamo un po’ allo stesso modo, e
non solo nei confronti dell’alimentazione. Basta aprire Facebook e guardare
come la gente distribuisce i propri like. Generalmente non per un gusto proprio decantato dopo esser passato dal filtro della ragione, ma perché
al divetto di turno piace o non piace un libro, un politico, un film o qualsiasi altra cosa. Più che esprimere un consenso meditato, in altre parole, si oblitera il biglietto di iscrizione a un club, si aderisce. Salvo cambiare gusti e adesioni al cambiare dei divetti,
degli amichetti, dei riferimenti umani, che sono sempre esterni e come sopraelevati alla statura del nostro piacere. E’ anzi forse proprio
questo il piacere: riconoscere quella misura, quindi provare ad arrampicarsi per avere almeno le briciole del banchetto. Mentre con il "dispiacere", nella forma di uno sdegnato rifiuto, cerchiamo, magari inconsciamente, di punire chi prova a occuparsi di noi su un piano orizzontale.
Il grande filosofo francese Renè Girard ha ripetuto
in numerosi e bellissimi libri (purtroppo tutti uguali…) che il desiderio è mimetico.
Si desidera cioè per imitazione, in una sorta di triangolazione con quanto
osserviamo fare agli altri; ma non a tutti gli altri, solo quelli che invidiamo. Il desiderio, oltre che imitativo, è infatti anche invidioso, desiderando al fondo una condizione diversa dalla propria. Per questo l'erba del vicino è sempre più verde, perché è il vicino, in realtà, a essere più verde.
Ma oltre che nei proverbi popolari, ritroviamo lo stesso meccanismo anche nella grande letteratura. Madame Bovary, che si innamora dell'amore per il tramite dei fouiletton di cui si nutre, o Paolo e Francesca quando scoprono
la loro reciproca attrazione leggendo quella, speculare, di Lancillotto e
Ginevra, facendo concludere a Dante: “galeotto fu il libo e chi l’ha scritto.”
Ma galeotto è in realtà tutto quanto accade intorno a noi, e, chi più chi meno,
somigliamo a un ragazzino di undici anni che incrocia le braccia e dice no no
no, questa cosa non la mangio, manco l’assaggio, puoi pure piangere in turco,
ma è picche. Salvo convertire il suo no in sì, quando, con la coda dell’occhio,
vede l’amico cacciarsela in bocca con gusto.
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