sabato 20 agosto 2016

Burkini sì, burkini no... o sul desiderio e il suo limite



La brezza leggera della chiacchiera, in questi giorni e con ampio anticipo sull’autunno, sta facendo volare sul web una nuova parola-foglia, che si è staccata dall’albero dell’attualità e ora plana sulla bocca di tutti. La parola burkini. Se ho ben capito, burkini rappresenterebbe l’ironica fusione tra due termini contrapposti, quasi un ossimoro tra burqa, l’abito islamico che ricopre interamente il corpo femminile, e bikini. Un costume da bagno, insomma, ma che somiglia alla muta del sub. Il governo francese sembra che stia pensando di vietarne l’utilizzo sulle spiagge nazionali – è un oltraggio alla libertà e alla dignità delle donne, si dice – e ciò ha rilanciato quello che è ha tutti gli effetti un problema etico anche dall’altro versante delle Alpi.

Riguardo la questione pratica, ho davero pochi dubbi: mi pare che rappresenti un’ingerenza illegittima anche il divieto a indossare abiti che pure potrebbero contenere un’idea autoritaria e subalterna dei rapporti tra i sessi, e ciò perché non ci è dato sapere (nemmeno ipotizzare) quale sia il livello di consapevolezza e volontà che porti a tale scelta in chi la compie. In altre parole, trovo sia estremamente arrogante e presuntuosa la falsa coscienza occidentale nello stabilire quale sia il bene e il male per una donna islamica, assumendone, a questo modo, la totale incapacità di intendere e volere (per inciso: un islamico che guardi a come è abbigliata una qualsiasi adolescente occidentale, siamo certi che ne ricavi un modello più alto e virtuoso…?).

In secondo luogo, e questo è davvero un fatto compiuto, indossare il burkini costituisce un comportamento che non ha ricadute moleste su altri, e ciò anche in Occidente dovrebbe rappresentare un intangibile diritto, almeno da Voltaire in poi: “non sono d’accordo su come ti vesti, ma sarei disposto a dare la vita perché tu possa vestirti come cazzo ti pare”.

Rimane una questione, e questa sì è davvero sottile e delicata, sul rapporto che esiste tra corpo femminile e immaginario sessuale, quindi sulle implicazioni che un abbigliamento particolarmente castigato ha sull’erotismo, che è sempre un pensiero astratto prima di farsi vita vissuta. Scrive ad esempio su Facebook, quale commento a un post sul burkini dello scrittore Fulvio Abbate, una giovane donna molto certa delle sue opinioni: “Le culture che non valorizzano la sfera erotica sono cupe e represse”. Un’affermazione che possiede la tautologica evidenza dei pensieri acquisiti, e il cui unico limite sta forse nell’ovvietà.

Eppure, se entriamo nello specifico psicologico, questa frase a me non sembra affatto tanto ovvia, e nemmeno tanto vera l’idea che ogni negazione mortifichi il suo oggetto. Sigmund Freud già insinuava un vincolo tra desiderio e limitazione, che in seguito è stato sviluppato da Jacques Lacan. Per il grande psicanalista francese è infatti la legge del padre, quel codice non scritto che impedisce l’incesto dai primordi del vivere comunitario, ma più in generale si pone come impedimento al godimento illimitato, sessuale e non, a fondare il desiderio. E’ insomma proprio il limite, il differimento, l’evocazione immaginaria frutto di una concreta inibizione (ciò che appunto avviene nel burkini) a rilanciare la sessualità dal piano reale al potenziale, erotizzando quel che altrimenti rappresenterebbe solo il verbo della perversione, che per la psicanalisi si riassume in un interrogativo implicito: perché no?

A questa domanda pronunciata con autorevole forza letteraria anche dal Marchese de Sade, le culture tradizionali rispondono no, no di certo, deve esser stabilito un argine per ogni possibilità, specie nel campo sessuale, dove la pulsione caotica al soddisfacimento dell'uzzolo genitale costituisce una minaccia per l'ordine sociale, come una scintilla tra la paglia da spegnere con l'acqua del nomos civile e religioso, frutto di infinite mediazioni umane. Ma non perché il corpo della donna rappresenti in sé un male, o peggio sia criminalizzato, come viene detto sempre da più parti nei commenti alla decisione del governo francese, ma perché il femminile incarnato è letteralmente o-sceno, ovvero va posto fuori scena.

Un destino che, nell’Islam, viene condiviso dalla divinità, il cui impedimento figurale (l’iconoclastia) serve a rilanciarne la potenza evocativa. La rimozione del corpo dalla scena pubblica non ha dunque una funzione svalutativa, ma, al contrario, ne sancisce definitivamente la sacralità. E forse è utile ricordare che sacro deriva dalla radice sanscrita sac – sag – sak: attaccare, aderire, avvincere, a stabilire una relazione inestricabile tra ciò che è sottratto alla vista e l'ordine divino. Rimane da capire se, alle donne islamiche, vada bene essere trattate come delle madonnine intonse oppure preferiscano bere birra gelata e poi farsi un bel rutto, come avviene qui. Ma questo non deve essere un maschio adulto e caucasico e laico a stabilirlo.

In ogni caso, una cultura simbolica molto articolata non può essere interpretata sulla base di categorie che sono invece politiche, e di un politico ormai totalmente ridotto a balbettio letterale, almeno se vuole essere compresa e quindi accostata dialetticamente. Mentre, e questo invece è legittimo, oltre che sacrosanto, si deve saper filtrare e limitare le pretese religiose quando intendano porsi quale dettato universale da esportare violentemente, come spesso avviene nell’Islam radicale. Non è però il caso del burkini, dove davvero siamo al cospetto di un comportamento personale rispettoso delle diverse sensibilità, a cui non si pretende di imporre nulla: le donne, alcune donne islamiche semplicemente lo indossano con un grado di libertà che, come si diceva, non ci è dato disputare, almeno fino a prova contraria.

Universalista e ideologico è viceversa chi, assumendo la propria ragione come assoluta, non ammette questa lieve eversione estetica, già praticata in Occidente dagli ordini monacali. Un abbigliamento che, per inciso e grazie a tutti i suoi veli e tabù, è molto più erotico dell’imperativo attuale all’ostensione fisica, che si avvale del corpo femminile come geografia pubblica di un godimento perverso senza più alcun limite né legalità, fedele al motto ingordo tutto e subito. Ne consegue l'implosione del piano simbolico della rappresentazione, ed è semmai tale iperrealismo a provocare il definitivo harakiri del desiderio, non di certo il burkni. Con buona pace del governo francese e delle Folies Bergère.


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