Ho
sempre trovato enfatica, oltre che vagamente comica, l’espressione “il mio Paese”.
Ma quando la sento applicata allo sport vi trovo qualcosa di inquietante.
Perché, ad esempio, dovrei provare partecipazione ai successi
– o ai recenti insuccessi – di una come Federica Pellegrini?
Se
anche lei non fosse la bella Barbie che è e io non fossi io, se cioè avessimo
avuto diverse vicende, fortune, amori e letture a trapuntare il cappottino
stropicciato delle nostre vite, immagino che ugualmente non riusciremmo a
scambiarci più di qualche frase di convenienza nella sala d’attesa di un
dentista, e per quanto i suoi denti siano troppo solidi e smaglianti per
immaginare un qualsiasi intervento. Il tifo sportivo rappresenterà allora una
sottocategoria dello star system, in cui lo slancio partecipativo origina da
una qualche forma di insoddisfazione personale, che viene compensata,
proiettivamente, dai riflettori che scolpiscono il corpo tonico dell’atleta.
E
fin qui è tutto risaputo, siamo al Bignamino della psicologia. La differenza,
che io trovo appunto rozza, se non pericolosa, è che questa identificazione
nello sport avviene su base collettiva. La Pellegrini non si limita insomma a
surrogarmi, ma prima centrifuga la mia identità in un “noi” acefalo e ormai anche
a-storico – che differenze culturali, dico, possiamo ancora ritrovare tra un
adolescente belga e uno italiano, quale l'appiglio a cui agganciare il souvenir ottocentesco dei nazionalismi?
All’illusione
del tifo sportivo io però non contrapporrei la fede stolida nella realtà,
personale o collettiva poco importa, ma un’illusione più articolata
(leopardiana, mi vien da dire) che capitalizzi le mie emozioni conferendogli una
possibile dirittura civile. Un gioco di specchi in cui io continuo a essere io, per quanto rivestito dal fantasma dell'altro, del mio "mito", ma ora al cospetto di
molti, impastato nel fango della storia. In fondo è lo stesso della grande letteratura, se ci pensiamo… Una
sorta di conversione della vita in racconto, che, nei casi più riusciti, restituisce un senso e una direzione al passo incerto dei giorni. Quando lo
sport, non spesso, ma in taluni casi, ha saputo essere proprio questo: epica.
Muhammad
Ali, per fare solo un nome, non era un semplice bambolotto americano che
gareggia in luogo di altri bambolotti svaccati su comode poltrone,
sgranocchiando popcorn annaffiati da lunghe sorsate di birra gelata in lattina.
No, Muhammad Ali era anche e soprattutto una narrazione, in cui era bello e istruttivo
prendere posto, accomodandosi tra le sue pagine più segrete. Mentre il volto di
Federica Pellegrini è quello senza storia, senza letteratura, senza dramma
autentico ma solo palestra, smart phone e milk shake che accomuna migliaia di
ragazzi italiani, quei neo-volti che a Pier Paolo Pasolini facevano esclamare
in una celebre poesia:
Avete
facce di figli di papà.
Buona
razza non mente.
Avete
lo stesso occhio cattivo.
Siete
paurosi, incerti, disperati
(benissimo)
ma sapete anche come essere
prepotenti,
ricattatori e sicuri:
prerogative
piccoloborghesi, amici…
Amici,
già. Termine che Pasolini utilizza qui in chiave certamente ironica e
antifrastica. Quando l’epica sportiva è invece proprio una
forma di amicizia, benché immaginaria: la percezione che l’amico stia sudando, lottando, prendendo
pugni in faccia anche per te. Ma anche sperando in un mondo senza più sudore e
cazzotti da buscare, e tu con lui. E però cosa vuoi mai sperare, dentro lo
sguardo di plastica della Barbie?
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