mercoledì 10 agosto 2016

Federica Pellegrini, o sulla “barbiezzazione” dello sport



Ho sempre trovato enfatica, oltre che vagamente comica, l’espressione “il mio Paese”. Ma quando la sento applicata allo sport vi trovo qualcosa di inquietante. Perché, ad esempio, dovrei provare partecipazione ai successi – o ai recenti insuccessi – di una come Federica Pellegrini?

Se anche lei non fosse la bella Barbie che è e io non fossi io, se cioè avessimo avuto diverse vicende, fortune, amori e letture a trapuntare il cappottino stropicciato delle nostre vite, immagino che ugualmente non riusciremmo a scambiarci più di qualche frase di convenienza nella sala d’attesa di un dentista, e per quanto i suoi denti siano troppo solidi e smaglianti per immaginare un qualsiasi intervento. Il tifo sportivo rappresenterà allora una sottocategoria dello star system, in cui lo slancio partecipativo origina da una qualche forma di insoddisfazione personale, che viene compensata, proiettivamente, dai riflettori che scolpiscono il corpo tonico dell’atleta.

E fin qui è tutto risaputo, siamo al Bignamino della psicologia. La differenza, che io trovo appunto rozza, se non pericolosa, è che questa identificazione nello sport avviene su base collettiva. La Pellegrini non si limita insomma a surrogarmi, ma prima centrifuga la mia identità in un “noi” acefalo e ormai anche a-storico – che differenze culturali, dico, possiamo ancora ritrovare tra un adolescente belga e uno italiano, quale l'appiglio a cui agganciare il souvenir ottocentesco dei nazionalismi?

All’illusione del tifo sportivo io però non contrapporrei la fede stolida nella realtà, personale o collettiva poco importa, ma un’illusione più articolata (leopardiana, mi vien da dire) che capitalizzi le mie emozioni conferendogli una possibile dirittura civile. Un gioco di specchi in cui io continuo a essere io, per quanto rivestito dal fantasma dell'altro, del mio "mito", ma ora al cospetto di molti, impastato nel fango della storia. In fondo è lo stesso della grande letteratura, se ci pensiamo… Una sorta di conversione della vita in racconto, che, nei casi più riusciti, restituisce un senso e una direzione al passo incerto dei giorni. Quando lo sport, non spesso, ma in taluni casi, ha saputo essere proprio questo: epica.

Muhammad Ali, per fare solo un nome, non era un semplice bambolotto americano che gareggia in luogo di altri bambolotti svaccati su comode poltrone, sgranocchiando popcorn annaffiati da lunghe sorsate di birra gelata in lattina. No, Muhammad Ali era anche e soprattutto una narrazione, in cui era bello e istruttivo prendere posto, accomodandosi tra le sue pagine più segrete. Mentre il volto di Federica Pellegrini è quello senza storia, senza letteratura, senza dramma autentico ma solo palestra, smart phone e milk shake che accomuna migliaia di ragazzi italiani, quei neo-volti che a Pier Paolo Pasolini facevano esclamare in una celebre poesia:

Avete facce di figli di papà.

Buona razza non mente.

Avete lo stesso occhio cattivo.

Siete paurosi, incerti, disperati

(benissimo) ma sapete anche come essere

prepotenti, ricattatori e sicuri:

prerogative piccoloborghesi, amici…

Amici, già. Termine che Pasolini utilizza qui in chiave certamente ironica e antifrastica. Quando l’epica sportiva è invece proprio una forma di amicizia, benché immaginaria: la percezione che l’amico stia sudando, lottando, prendendo pugni in faccia anche per te. Ma anche sperando in un mondo senza più sudore e cazzotti da buscare, e tu con lui. E però cosa vuoi mai sperare, dentro lo sguardo di plastica della Barbie?

Nessun commento:

Posta un commento