
Tutto è puri per i puri, scrive Paolo di Tarso nella lettera a Tito. Ma cos’è la purezza?
Probabilmente, già in epoca precristiana, con questo termine ci si riferiva all’assenza di filtri intellettuali, emotivi, insomma di una complessa grammatica interiore che faccia da discrimine, e quindi anche da scudo, tra il soggetto e ciò con cui entra in relazione. Il puro ha per così dire un’esperienza immediata delle cose, che al suo meglio produce empatia e dedizione, spirito di comunità. Ma è proprio in conseguenza di un’attitudine fiduciosa ed esposta al mondo che il puro è anche più facilmente influenzabile dall’esterno.
La purezza, da un punto di vista linguistico, corrisponde infatti a pulizia e a “nettezza” del carattere. Eppure è proprio in questo tratto appartenente all’orizzonte semantico dell’igiene che si scorge il potenziale limite del termine: solo chi è pulito può realmente e definitivamente sporcarsi, solo chi è netto può diventare lordo. Gli altri, tutt’al più, sono impolverati e grigi.
In un grigiore diffuso, un’esposizione prolungata al lerciume non ha così l'effetto di uno stigma battesimale, ma tutt'al più induce a lavarsi le mani molte volte, per poi sporcarsi fatalmente di nuovo. O almeno, questa è la reazione che provoca l'ambiente sui lambiccati ed i pensosi, i quali hanno sviluppato una confidenza critica con la sporcizia. Che essi sono però in grado di riconoscere ed eventualmente emendare, anche solo temporaneamente e parzialmente.
E’ dunque e principalmente un’anima pura, un cuore candido, ad essere contaminato e infettato da un ambiente sociale tendente alla lordura. Che il puro non è diversamente in grado di riconoscere e contrastare proprio perché affetto da purezza, da disposizione fiduciosa verso l'altro o, più spesso, verso una comunità di persone di cui si fida per abitudine o istinto, al punto da scavallare il perimetro sospettoso tracciato dalla ragione. E con tutta evidenza, questa è la condizione del tempo attuale.
Conviene allora diffidare delle persone pure, donne e uomini che si descrivono come solari e senza sovrastrutture di pensiero, in un diffuso disprezzo di chi si ostina in forme di anacronismo critico verso l’esistente, che loro chiamano senza distinzione intellettuali. Mentre i puri, con la loro programmatica rinuncia a un’autonomia emotiva, prima ancora che cognitiva, sono la manodopera ideale di ogni élite politica subdolamente totalitaria, che con una mano raccoglie una buccia di banana e con l’altra distribuisce scorie tossiche in lunga processione di container.
E poi come erano pure, empatiche, certe amorevoli missive dal fronte dei militari delle SS. Quando si preoccupavano della carie dentale dei figli – biondi e puri come lo erano loro –, prima di abbandonarsi a minuziose descrizioni delle torture inferte ai prigionieri.
Certo, in un tempo e in una società più decenti di questa, correndo incontro alla vita con fiducia i puri non si macchiavano, e al contrario risplendevano come fiaccole nella notte. Ma è proprio per tale disposizione indiscriminata ad accogliere la vita che, oggi, e per primi, i puri sono stati inghiottiti dalla stessa notte che vorrebbero illuminare. Si chiama legge dello specchio e ci mostra come il pelo del leopardo sappia adattarsi alla savana, e l’uomo ai peggiori orrori di natura.
Credo sia proprio questa l'intuizione più acuta dell'ultimo Pasolini, quando abiurò dalla Trilogia della vita. Ma il suo pensiero era già contenuto in nuce nel breve cortometraggio La sequenza del fiore di carta. In quelle immagini concentrate assistiamo a una spensierata passeggiata di Ninetto Davoli, il più puro tra i puri, per le vie di una indefinita città moderna, accompagnato da una colonna sonora costituita dalle drammatiche notizie radiofoniche del presente. Ma chi se importa, chi se frega di quei lutti e di qui conflitti, sembra dirci il volto sorridente e candido di Ninetto, che saltella con un enorme fiore di carta rosso stretto nel pugno. Lui non ha colpa, è vero. Lui è puro.
Ma ugualmente, si abbatte infine una saetta sulla sua testa riccioluta, scagliata da quel deus ex machina che è il regista. Il film si chiude con Ninetto riverso al suolo privo di vita, con la mano ora dischiusa accanto allo stelo del suo enorme fiore rosso, evidente metafora di purezza interiore. E ciò ad ammonirci che in un mondo violento e malato, siamo, seppure in forme e gradi differenti, tutti complici e responsabili. O meglio ancora, siamo “colpevoli” di quell’antica colpa teologica chiamata omissione.
Ma nonostante il film fosse ispirato a un enigmatico episodio dei Vangeli, forse è il caso di retrocedere ulteriormente nel reperire eventuali riferimenti religiosi nella pellicola. In cui Pasolini, dopo un’evidente sintonia estetico-morale proprio con il cristianesimo di eredità paolina, sembra qui riaccordarsi con la tradizione tragica. La colpa e il peccato di Ninetto non corrispondono infatti a un’intenzione a compiere il male, e da una punto di vista cattolico sarebbe dunque già assolto. Eppure, per Pasolini, questa in-coscienza e non-intenzionalità rappresentano un’aggravante.
La colpa è dunque quella pagana dei padri, che ricade osmoticamente sui figli. Ma soprattutto sono le colpe dei figli senza colpa, che in un’epoca in cui occorre fare invece barriera, assumersi responsabilità, contestualizzare e quindi resistere alle forme diffuse e dominanti di immondizia politica e culturale, si sono arresi al mondo per un eccesso di purezza, di candore. Ed è per questo che anche io, con Pasolini, affermo che i puri sono miei nemici. E che la complessità è un atteggiamento molto più conforme a questo mondo impuro.