martedì 27 aprile 2010

3.36


La sintesi, si dice. Il dono della sintesi. Raramente mi è capitato di rimanere impressionato dal potere sintetico della rappresentazione come in questo recente video di Fulvio Abbate, al solito inserito nella sua benemerita Teledurruti.

Ciò che mi impressiona: la durata, 3 minuti e 36 secondi in tutto. E in 3 minuti e 36, probabilmente oltre le intenzioni dello stesso autore, chissà, mi sembra di poter leggere nemmeno troppo in filigrana dentro immagini di assoluta e personale routine - una visita al cimitero insieme all'anziana madre, è una tiepida giornata primaverile - i seguenti temi universali:

1) La morte - Fulvio Abbate e Gemma Politi si trovano di fronte alla lapide funeraria del loro, rispettivamente, padre e marito. Lui esegue le riprese, lei parla, guarda in macchina, compie i piccoli gesti abituali della manutenzione funebre. Cimitero palermitano di San Orsola e Santo Spirito, aprile 2010.

2) La memoria oltre la morte - La fotografia, tutto prende avvio da una fotografia. Quella incastonata nel marmo davanti a cui sostano i famigliari per ricordare chi non c'è più. Non sono lì per caso, dunque. Da quel che accennano si può immaginare un viaggio travagliato e difficoltoso: semafori, code, traffico, parcheggi da trovare e scale da scendere e da salire. Biglietti, forse, anche. Non per caso ma per intenzione. E al termine di quel minimo viaggio sono finalmente lì, e ricordano.

3) La nostalgia come glorificazione della memoria - Nel grigiore appena variegato delle pietre sepolcrali, il breve video si tinge del rosso acceso di un fiore. Stranamente non è invasato, come in genere si conviene al luogo, ma deposto in piano sul marmo che richiude la tomba. Fa pensare, così tutto solo e disteso, a un gattone neghittoso o a un turista olandese allampanato, avido dei raggi del primo sole mediterraneo. Rosso, non capisco nemmeno bene che fiore sia, semplicemente rosso; il colore delle emozioni, del sentimento, quello che invade e colora la memoria di madre e figlio. Una tonalità cromatica "laica", ci tiene però a specificare subito la professoressa Gemma Politi. Comunque rosso.

4) La nostalgia come falsificazione della memoria - "Ma da dove viene quella fotografia?", chiede in quel momento di compunta commozione familiare la madre. Scoprendo con sorpresa dal figlio che l'immagine posta nell'ovale è stata modificata attraverso la grafica computerizzata. Lo sfondo di piastrelle nell'originale - "...ma allora ce l'ho anche io a casa?", replica la donna senza raccapezzarsi - è stato infatti sostituito da una campitura azzurrina e pacificante. Più Andy Warhol che Giotto, a dire il vero.

5) La rappresentazione della memoria e della nostalgia - Un angelo composto con la tecnica del mosaico su uno sfondo questa volta dorato, da Giotto si ritorna a Cimabue, staglia sopra la lapide verticale. "E' bello l'angelo", esclama il figlio. Per molti anni l'uomo si è occupato proprio di arte: come giovane promettente autore, quindi critico, curatore di mostre e amico di numerosi artisti. La rappresentazione della memoria e della nostalgia come fondazione cognitiva dell'arte? E' bello l'angelo, e non si capisce se lo dica con una punta di ironia.

6) La rappresentazione dell'immemorabile e dell'ulteriore - Cioè, ancora, l'arte intesa come ipotesi teologica. Dove sta ora quel padre, quel marito, senza più il conforto abituale delle sue piastrelle, avvolto nel velo azzurrino di una carta da parati che non è quella di casa sua? La madre ripete nuovamente di aver scelto un'immagine "laica", quasi a volersi giustificare. Il figlio risponde: "Un angelo, ti sembra laico un angelo?"

7) La famiglia, il luogo degli affetti - Madre e figlio si ritrovano così nello spazio fisico di una memoria. Memoria che genera sentimento, quel particolare sentimento che non guarda avanti, come l'eros, ma alle proprie spalle. Ed è sempre la nostalgia. Madre e figlio sono dunque uniti da un sentimento nostalgico, saldati, "sposati" dal perdurare di un'assenza.

8) La famiglia, il luogo dei conflitti - I due, improvvisamente e per via di un infimo dettaglio - la manipolazione della fotografia - si separano dal galateo della concordia funebre, virando inaspettatamente verso registri linguistici opposti. Crepuscolare e attonito quello della madre, che sembra non capacitarsi degli effetti della tecnica sulla memoria, confondendo a volte i piani. Risentito e quasi astioso il figlio; che di certo non ignora la questione, ma vive con disappunto il momento di imbarazzo senile della propria madre.

9) La tragedia come luogo in cui affetti e conflitti si rimescolano - La morte, il degrado cimiteriale, diventano così l'occasione per un inaspettato confronto di interpretazioni, quasi uno scazzo di fronte al totem silenzioso del famigliare scomparso. Oggettivo e dolente l'atteggiamento della vecchia madre, che registra la scena di ordinaria inadempienza con sfinito e davvero molto siciliano fatalismo, soffermandosi sconsolata sul vialetto cieco del cimitero invaso dalle infiltrazioni d'acqua, a cui nessuno provvede. Il figlio risponde che è Palermo, ad essere un corridoio alluvionato e senza uscita.

10) La tragedia, la morte, fondazioni dell'idea moderna di famiglia - Se la tragedia rende manifesto il contrasto, la tragedia è però anche ciò che vincola, trattiene, nell'impossibilità di uscire dal gioco sempre ipotetico delle questioni ultime e delle memorie prime. La morte, per quanto naturale, è dunque tragica proprio in questo: nel rendere oscena e inesauribile qualsiasi interpretazione. E con ciò si configura quale religio laica, che circoscrive una comunità umana dentro la memoria che si tinge d'emozione, senza risolversi mai in un pensiero conclusivo. Ma l'emozione è un gas che, quando non trova una via di fuga nel presente o uno slancio verso il futuro, si infiamma nell'attrito. Divampando nel passato.

11) Il cimitero quale correlativo oggettivo - Come il figlio sottolinea più volte, il degradato scenario di un assolato cimitero palermitano come tanti, nel contesto della rappresentazione, assume una valenza espressiva di carattere generale. Nel nostro sguardo di spettatori complici, non è insomma più solo Palermo a essere un corridoio alluvionato e senza uscita, una fotografia neorealista che imprigiona il tempo, modificandolo ad arte, ma l'Italia intera.

12) L'Italia è una tragedia civile - La correlazione tra Paese e cimitero, adombrata ma giustamente non sottolineata dall'autore - e ciò perché sorge automatica, quasi scontata - assume una coloritura non solo dolente, ma spietatamente e puntualmente descrittiva. E così, sembra suggerirci Fulvio Abbate. Così come si vede nelle immagini del cimitero di Sant Orsola e Santo Spirito, così come nelle parole di un figlio adulto e della propria vecchia madre, nei loro battibecchi affettuosi, rimpianti trattenuti, ricordi familiari. E' così.

13) L'Italia, di conseguenza, è una tragedia familiare - Un luogo in cui gli affetti e le memorie, quando non hanno il respiro o forse il coraggio, la curiosità, di scavalcare il recinto del proprio sacrario privato come invece fa lo scrittore Fulvio Abbate, arrampicandosi sulle spalle curve della madre e urlando a tutti il suo orrore, un luogo in cui ogni slancio si traduce in un'onda ottusa e caramellosa, che infinitamente rivolge in una risacca senza orizzonte comune.
Sì, l'Italia è un inesauribile battibecco di fronte a una fotografia contraffatta: la fotografia sorridente di un morto, mentre alle sue spalle il cielo si tinge di blu. Il cielo è sempre più blu.

Tutto questo spremuto in 3 minuti di registrazione con un telefonino portatile, senza editing o regia cinetelevisiva. 3 minuti e 36 secondi, per l'esattezza.

domenica 18 aprile 2010

Design, o sulla bellezza nel conforme


Design. Un termine inglese. Che, come si intuisce, significa semplicemente disegno. Ma anche progetto; motivo; abbozzo, canovaccio; piano; complotto, intrigo; proposito, intenzione. Tutti elementi che riverberano anche nell'equivalente italiano.

Per quale ragione, dunque, per indicare il disegno tecnico di oggetti di consumo o di arredamento usiamo il termine anglosassone design?

Lo facciamo in modo ormai naturale, scontato. Mi sentirei ridicolo se riferendomi a una lampada Flos o una poltrona Barcelona li rappresentassi come oggetti di disegno; mi sentirei come D'Annunzio quando chiamava "coda di gallo" il cocktail. E ciò perché nel lievissimo scarto di suono tra l'italiano e l'inglese accadono evidentemente un mucchio di cose. Ma sotto, al sicuro, nella pancia delle parole e fin dentro di noi.

Per avvicinarmi al segreto racchiuso nel ventre della balena, provo allora a partire da una circostanza privata. Da qualche mese io ho acquistato un nuovo appartamento. Si trova all'interno di un complesso urbano piuttosto innovativo, che sul modello scandinavo e anglosassone prevede la condivisone di alcuni spazi: piscina; lavanderia; sala conviviale; locale bricolage. Anche in questa occasione il termine con cui ci hanno proposto il progetto non era italiano, e diversi giornali hanno strombazzato la notizia che a Milano era nato il primo "cohousing".

Cohousing, già. Termine perfino più antipatico di design. Letteralmente non significa altro che abitare assieme. Più o meno lo stesso del sostantivo di discendenza latina condominio (con-domus, ovvero una casa in comune). E però tocca convenire che anche in questa circostanza un condominio non coincide esattamente con un cohousing.

A differenza del galateo sospettoso tra condomini, nel cohousing si riscontra un'affabilità fin troppo sorridente, gli inquilini sono tutti solidali, ecosensibili, di sinistra. Come Lupo de Lupis: che è un lupo, sì, ma tanto buonino. E poi qui le persone fanno quei lavori che non sai mai bene che cazzo di lavoro fanno; tra noi pure un "futurologo" altrimenti detto "trendwatcher", parole sue. Inoltre, nel mio cohousing tanto buonino, abbiamo anche tre designer. Non uno, tre.

A me queste tre persone sono tutte simpatiche, davvero, nessuna punta di polemica o ironia. Si tratta di un veneto, di una sarda e di una bresciana. Come nelle barzellette. Solamente che, al contrario delle barzellette, quando chiedi qualcosa al veneto, alla bresciana o alla sarda non ti rispondono con espressioni tipo pota, ndemo, eja, no, loro ti rispondono con dimmi Guido?

Come, dimmi Guido?

E la cosa più sorprendente è che te lo dicono con un tono di voce in cui non riesci a riconoscere la provenienza, ti si sfarina tra le mani la tua barzelletta regionale. In genere ho un buon orecchio per gli accenti, ma è la prima volta che non riesco a riconoscere un veneto, una bresciana e una sarda dall'inflessione. Parlano allo stesso modo.

Provvisoriamente mi verrebbe dunque da segnarmi questa cosa: il termine design, non so come, non so perché, ma deve c'entrare qualcosa con il parlare tutti nello stesso modo. Possibilmente in inglese.

L'idea alla base della nascita del design sarebbe anche semplicissima. Cercare la bellezza dentro la funzione. Strappando al cielo, alle muse, a un élite di censo e di buoni studi il monopolio del piacere e dell'armonia tra le cose. Per ricollocarli infine tra la confusione e il baccano di un'esperienza che sia davvero vissuta.

Come molti osservatori hanno giustamente sottolineato, oltre che estetica è stata una trasformazione politica. Fino a poco più di un secolo fa la bellezza era infatti posta al margine delle pratiche quotidiane, monopolio di un'aristocrazia del gusto che aveva tempo e pazienza per grattarne la polvere dalla volta di un affresco, o succhiare il nettare di paesaggi scrutati con l'inefficienza curiosa e attenta del flâneur. Altro termine straniero che trova nel più disincantato "fancazzista" una moderna traduzione.

Insomma, vi era una sorta di equivalenza tacita tra bellezza e inattività, tra contemplazione e piacere. Movimenti progressivi come quelli del Bauhaus hanno però contribuito a disgiungere nuovamente questi termini, mostrando come al fondo contenessero un pregiudizio culturale che si ripercuoteva nei rapporti tra le persone. E dunque, con la fondazione moderna del design, ecco che la bellezza torna a dilagare tra le strade e gli oggetti del mondo.

Non un mondo a caso: questo mondo.

Eppure eppure eppure... deve essere successa anche un'altra cosa, forse meno apparente ma ugualmente decisiva, e i cui effetti hanno il carattere di una contraddizione poco indagata. Provo a spiegarmi con un paragone.

Immaginiamo la bellezza come una sorta di investitura militare, un'onorificenza di cui nel passato potevano disporre solo le classi superiori che di tale privilegio - di tempo, di studi, di sensibilità ma soprattutto di risorse - si ammantavano per ribadire gerarchicamente il loro status. Nei primi decenni del Novecento avviene però un colpo di mano, una rivoluzione non armata. Come nella presa della Bastiglia, vengono così fatti saltare tutti chiavistelli, tanto che la bellezza può sprigionarsi in un'economia del bello finalmente accessibile a tutti.

E' la libertà, allora, e con la libertà l'affermazione definitiva di una democrazia del piacere?

Mmmh... c'è più di una ragione per sospettare che le cose non siano andate a questo modo, e che le forze della restaurazione si siano rimesse presto al lavoro. Ossia che la rivoluzione democratica della bellezza, instaurata dall'armata moderna del design, abbia finito col reincorporare tutti quei motivi di disparità sociale e privilegio inizialmente combattuti. Nelle forme attualmente diffuse, l'estetica delle merci non si arresta infatti al dato orizzontale dei sensi, ma continua a muoversi anche dentro una dimensione verticale. Di casta, nuovamente. Di censo.

In altre parole attraverso la partecipazione a un'idea di bellezza semplificata e comunemente accettata - quella istruita dai designer - si finisce con l'aderire anche a una aggiornata toponomastica sociale, non più aristocratica ma borghese. Che continua però a utilizzare la fruizione estetica quale sua controparte manifesta. Se io acquisto una lampada Flos o una poltrona Barcelona sono infatti una persona di gusto. E se sono una persona di gusto, di buon gusto, significa che il mio ipotetico grado di investitura socio-militare sta crescendo, che sto facendo carriera. Così attraverso la mia nuova poltroncina levigata mostro a tutti i galloni.

Insomma, tutto è cambiato perché tutto restasse come prima. Attraverso l'esibizione degli oggetti di design, in genere molto costosi e dunque già di per sé selettivi, si realizza anche oggi una marchiatura al fuoco vivo del pregiudizio, che colloca gli individui all'interno di uno schema di valore che non è solamente estetico, ma contiene in filigrana le eterne categorie del potere e dell'esclusione.

Non dico che il design sia solo questo, intendiamoci. Il design rimane, almeno al suo meglio, bellezza dentro la funzione. Ma il design è anche questo: velleità artistica e culturale, ostentazione, darwinismo sociale. Ciò che dal romanzo di Flaubert in poi è stato racchiuso nel termine "bovarismo".

E cosa diceva Emma Bovary di tanto esemplare, quali pensieri in questa piccola donna mentre attraversava i sentieri per i campi di una provincia brumosa, chiusa in un corpetto nero e troppo stretto per l'ossigeno che smaniava? O cosa infine faceva, a parte la pratica in fin dei conti banale di tradire il proprio marito, quale gesto così inaudito da aver caratterizzato lo spirito di un'intera epoca?

Niente.

La mia impressione è che in Emma Bovary non ci fosse niente, ma davvero niente di difforme o anche solo remotamente soggettivo, tanto da poter incidere il suo nome non dico sopra la copertina di un libro, ma anche solo nella minuscola casella di un documento anagrafico. La signora Bovary, dopo avere superato i ranocchi e le sterpaglie dei campi, nel suo esporsi anima e corpo alla brezza che alitava per le strade, lo sguardo rivolto alle vetrine sature di merci fino a incorporarle in ogni minimo tessuto della sua persona, la moglie di Carlo Bovary era un niente ventilato, uno specchio, una maschera moderna. Ed è perciò che è diventata un tutto.

Madame Bovary "c'est moi", dichiarava con vezzo il suo magnifico autore. Ma per questa sua indistinzione osmotica è anche un tu, un voi, un tutti. Madame Bovary c'est tout le monde.

E il mondo intero può forse parlare in sardo, in veneto o in bresciano?

No, il mondo integrato dalle nuove tecnologie della comunicazione ha bisogno di una lingua media, che mediamente rappresenti la sua assenza di asperità. Una conca sintattica avvolgente, tiepida, che ospiti il corpo quando è stanco ma anche gli amici, i conoscenti e i rompicoglioni. L'importante è che in questa forma-mondo non vi sia più traccia di un'ombra personale, di un punto soggettivo di resistenza. E secondo me il design allora è anche questo:

La nuova lingua media del mondo, che spalma gli spigoli recalcitranti della biografia dentro la curva sinuosa di una forma.

Attraverso l'adesione a questa neo-lingua formale e simbolica, noi perdiamo dunque qualcosa in storia, in specificità; ma guadagniamo in riconoscimento pubblico, consenso e gerarchia. Siamo cioè conformi al nostro tempo, che ci premia come fa il comandante con il soldato che ha compiuto con disciplina la sua missione.

Tommaso Labranca, in un bel saggio sulla figura moderna del "cialtrone" (Chaltron Escon, Einaudi, 1998), per collocare concettualmente questa categoria estetica, ormai prevalente, usa il termine latino "elegantia". Intensa quale sinonimo di trash, o se preferiamo di kitsch. Ossia, parole ancora sue, siamo al cospetto di "un'emulazione fallita di un modello alto".

Ecco, il sospetto è allora che nel design, per quanto camuffata sotto ai veli di multipli e sontuosi travestimenti, covi proprio tale idea cialtrona di mondo. Bella, sì. Oltre che funzionale ed efficiente. Ma in cui i rapporti tra le persone sono all'insegna dell'emulazione e dell'inautenticità. Una bella casa diventa allora una casa che potrebbe essere di chiunque, senza luogo né tempo. Ma soprattutto senza l'altarino con i nostri santi ingialliti, baffuti, vecchie fotografie impilate sopra a una credenza da quattro soldi, da scambiarsi a ogni rintocco generazionale.

Torna alla mente anche una vecchia canzone di Piero Ciampi, dove con spirito beffardamente livornese riesce a rendere poetico il più orrendo tra i gesti. Un pugno dato a una donna, la compagna di chi di chi dice io. L'uomo le ha così rotto il naso che è rimasto storto e bugnato. E però quale infinita tenerezza nel guardare poi quel volto imperfetto e amato, concludendo: "Ma il naso ora è diverso: l'ho fatto io, non Dio..."

Manca a questo punto solo una conclusione. Le barzellette, per scoccare la freccia di un sorriso, hanno bisogno di un finale che sciolga ogni conflitto in burla. In una barzelletta dove veneti, sardi e bresciani parlano tutti allo stesso modo, un finale che restituisca la certezza di un sillogismo però non si trova. Ci sono molti buoni motivi per apprezzare lo sforzo di chi cerca di portare bellezza nelle cose di ogni giorno; ma anche, come si è visto, motivi per diffidare di un'idea di bello senza storia o conflitto, saccheggiata da ogni esperienza vissuta e singolare.

Possiamo solo aggiungere che alle poltrone troppo tonde e avvolgenti preferiremo sempre i nasi rotti, gobbi, storti e con la goccia. Come quello del bimbo che, di nascosto dai genitori di un qualche lustro cohousing milanese, scarabocchia il proprio nome sopra alla stessa poltrona firmata.

giovedì 15 aprile 2010

Defilè, o sul defilarsi della vita dalle parole


Nei giorni scorsi ho pubblicato una collezione di magliette con la sigla di questo blog. Vecchie fotografie, perlopiù. Divi del cinema vampirizzati nell'ennesima attualizzazione a scopo di merchandising. Tutto vero, intendiamoci: le magliette sono state effettivamente realizzate. Ma anche tutto finto. Si trattava infatti e con evidenza di satira. La quale agisce per mezzo di un'adesione estrema all'oggetto che in tal modo si intende dubitare. Ecco, da qualche tempo io ho iniziato a maturare un dubbio sempre più insinuante: essere diventato qualcosa di assimilabile a un sarto, uno di quelli con le erre moscia e la cui massima aspirazione è farsi amico Simona Ventura.

Stiamo parlando di moda, insomma.

Il meccanismo della moda è semplice. Si prenda uno stile tradizionale dell'abbigliamento, uno qualsiasi, e lo si scorpori dal significato originario, il galateo sociale, lo schema antropologico o anche solo dalla funzione termica che aveva accompagnato la manifestazione di quella maniera dell'abbigliarsi. Quindi lo si ricomponga con altre citazioni estetiche, mescolanze ornamentali ed eccentriche, esercizi anche estremamente accurati della forma. O detta in altre parole, la moda trasforma un segno collegato a un codice umano precedente, cioè una testualità anche se solamente allusiva, ma riconosciuta, in un elemento di pura evidenza spettacolare, in competizione con altri segni ugualmente privi di una qualsiasi referenza all'esperienza vissuta.

Jean Baudrillard, uno tra i più acuti osservatori del sistema della moda, già aveva intuito come sulle passerelle si defili il segno da ogni significato residuo. Bene, la mia adesione satirica al medesimo meccanismo, per quanto nella pratica anch'essa seria e reale, contiene allora un sospetto ulteriore. Chiamiamola circolarità viziosa, tautologia. Come se il diffondersi del fenomeno contemporaneo dei blog celasse al fondo una contesa quasi primitiva, meglio animale, cani che orinano sopra allo schizzo altrui per affermare il proprio, depositando segni a casaccio in un universo testuale che tende all'irrilevanza comunicativa...

I blog rappresenterebbero in tal caso l'estensione del sistema della moda all'unico enclave che fino ad ora aveva provato a resistervi, l'antico gioco combinatorio dei Sumeri quale luogo che ancora rivendicava la presenza di un senso, di un rapporto vivo tra cose e simulacri; ma anche tra persone che quei segni si scambiano nel mercato dell'esperienza.

La scrittura che capitola, dunque, la scrittura che si arrende e corre in soccorso del nuovo sovrano della rappresentazione fine a se stessa...

E' solo un dubbio, ripeto. Una domanda. La quale paventa una sorta di grado zero della relazione umana. Dove la composizione di un testo, che pure si accorda a una tradizione e a una regola sintattica e grammaticale sempre più lasca, finisce con l'esaurirsi in un esercizio di arredamento delle proprie stanze; o al limite all'ammiccamento dentro i codici di un clan che approva in via preventiva, come le firme che in banca ti chiedono di scarabocchiare sopra a interminabili protocolli.

In questa prospettiva si spigherebbe anche la consistenza quantitativa dei contatti dentro i blog, compreso il mio, senza che ciò produca un effetto di realtà. Si tratterebbe infatti di numeri che non fanno mondo, ma fanno moda. E perciò percepiti come il ticchettio dell'orologio che di notte ci rassicura sull'ostinarsi del tempo, carillon musicale da un'infanzia soffusa e presente. Contatti che cessano di produrre relazione quanto cognizione: solo flusso, alternanza delle maree. Che si mescolano e confondono come la birra e il piscio tiepido e suadente, dentro l'infinito budello degli orinatoi dell'Oktoberfest.

O come gli strass, i pon pon, gli allure e i glamour e i tres jolie che bijou: abbigliamento linguistico del nulla che connota una blatera ormai definitivamente priva di relazione con la vita, ma anche o soprattutto con la morte.

Io di questa potente macchina di insignificanza globale ne faccio parte a tutti gli effetti. E così, con la mestizia scanzonata di un'orchestrina nella sala da ballo del Titanic, ho voluto trarne le conseguenze più esplicite. Realizzando la mia personale collezione primavera-estate, la mia pisciatina su un paracarro senza polvere né agguato di trifoglio. Ma tanto trendy.

martedì 6 aprile 2010

Collezione primavera-estate by Fontana con soldino


















Di fronte a un plaudente parterre composto da calciatori, modelle, calciatori calciatori, modelle, calciatori... insomma, più che altro calciatori e modelle e Ignazio, che è un tipo che conosco, è stata presentata oggi la nuova collezione primavera-estate di Fontana con soldino.

Se da un lato i capi delineano un chiaro segno di continuità con la migliore tradizione sartoriale del bel paese - i vari Caraceni, Brioni, Borrelli - al contempo contengono quell'elemento in più di glamour e cool e trendy che ha suscitato un sussulto di gradita sorpresa nella folta delegazione della stampa di settore. Sono stati spesi aggettivi quali civettuolo, stiloso, giusnaturale, apotropaico, fenotipico.

Ignazio giura di aver sentito anche un ipersupercazzolare denaturato.

Una giornalista di una prestigiosa testata dell'underground uzbeko, in preda a una crisi di allergia al caviale delle numerose tartine distribuite al prestigioso evento milanese, ha commentato con "dabrilodova zupa curga anfraga daboba". Quindi ha starnutito, si è soffiata il naso e ha concluso: "Stik azzovsksij".

Ma a noi piace ricordare anche le belle parole di una modella, stava sotto l'ala possente di un calciatore in grisaglia Rocco Barocco e canottiera fucsia, che intervistata da una truppe televisiva di Teleradioallure, a ha così risposto: Guido Hauser... who is cacchio è?

Oh, yes, the stylist: he's very molto fico!

Quindi ha proseguito rivolta al giornalista della prestigiosa testata radiotelevisiva, But lui è even, how you say in Italy, finoccio...?


La giornalista Anna Piangi, dell'altrettanto prestigioso mensile Io sono ok tu sei ok, è subito intervenuta per sviare l'imbarazzo dei presenti, aggiungendo che questo Hauser è un outsider da tenere sott'occhio, lo aspettiamo al checking della collezione autunno-inverno. Se sarà un bear out a questi livelli di glamorosa excellence, di certo, attraverso un know how che non può che corroborarsi nel time after time, sarà lui l'interprete del post-macho 2012.

In quei già prestigiosi momenti, è arrivato anche un sms da una prestigiosa collega, già nota per altre occorrenze mondane ai lettori di questo prestigioso blog. Stava scritto: Sei prestigioso, caro Guido. Nostra nonna sarebbe orgogliosa di te. Di più, sei chicchissimo.

Lusingati per tanta unanime benevolenza, in anteprima per i nostri affezionati lettori pubblichiamo l'immagine di alcuni tra i modelli più apprezzati della serata. Ricordiamo inoltre che è possibile acquistare tutta la merce esposta attraverso la comune pratica finanziaria del baratto, anch'essa ispirata al trend che già si delinea per il 2012.

In pratica voi mi inviate qualcosa che ritenete bello, buono, congruo o semplicemente a cui tenete particolarmente, e io vi spedisco una o più magliette della collezione Dress yourself by Fontana con soldino, a vostra scelta.

E' sufficiente che voi mi indichiate l'immagine che compare sul fronte della maglietta che desiderate, la taglia (sono disponibili small; medium; large; x-large; xx-large) e infine il vostro indirizzo; o naturalmente quello della persona a cui intendete regalarla. A quel punto sarà mia cura farvela recapitare in un paio di settimane circa.

E se pensate che sia uno scherzo, no, non lo è. Fontana con soldino, da mercoledì 6 aprile 2010 e con una mossa di inconsulta autarchia sartoriale, ha deciso di muovere alla conquista di nuovi spazi espressivi, nel senso concreto della parola: luoghi fisici in cui incidere sogni, parole e sintomi del presente narrativo di questo paese.

Chi l'ha detto che il web si ferma al web, o che gli scrittori debbano stare al calduccio dentro le pagine magari finemente rilegate di un libro?

We are the world, we are the children...

Chiunque desiderasse dunque fare da superficie riflettente alla nostra nuova avventura (da medium, insomma, da dazibao), non ha che da mettersi in contatto direttamente con lo stilista Guido Hauser all'indirizzo di posta elettronica che segue:


In futuro verranno create anche nuove collezioni con testi, prose, poesie sempre by Fontana con Soldino design. Che è orgoglioso di essere ufficialmente un brand della penisola del sole e della moda e di Ignazio, che magari un'altra volta vi spiego chi è.

(ps -nelle fotografie figura solo una piccola parte della collezione primavera-estate. per l'intero catalogo rivolgersi allo stilista Guido Hauser)

sabato 3 aprile 2010

Torpore


La gamba ripiegata su se stessa
o sotto all'altra gamba
ci si alza, così, all'improvviso
nel passo svelto ma
subito senza forza;
intanto il telefono squilla
dalla porta aperta della cucina
e squilla ancora, ti richiama al mondo.
Se frena è allora il limbo
che sottile ottenebra il sangue:
parte di questa terra
e parte di un piacere osceno
della carne - sì, come pregustando
un'assenza.

venerdì 2 aprile 2010

Brand non brand, o sulle trame di tessuto della biografia


Passante ferroviario da Bovisa-Politecnino a Porta Venezia, Milano, poco dopo l'ora di pranzo. Mi arriva il riverbero attutito di una conversazione tra adolescenti addossati nella mia stessa carrozza, che stanno discutendo di un marchio di abbigliamento evidentemente piuttosto noto.

A dire il vero io non ho mai sentito nominare quella sigla, ma dal tono con cui ne parla il più convinto dei tre - capelli rasati, jeans a vita inguinale, un giubbino chiaro e attillato dall'aspetto non molto caldo, almeno in un primo aprile che nasconde l'ultima beffa dell'inverno - intuisco che quell'accrocchio straniero di consonanti riveste un ruolo decisivo, se non per il mondo all'interno dei rapporti di forza del gruppo. Il ragazzo ci tiene infatti a chiarire che i suoi abiti sono di quella marca lì, sono autentici insomma, mentre un loro comune amico si veste con delle imitazioni; e già solo questo fatto è sufficiente a indicarne l'assenza di prestigio, se non di valore a tutti gli effetti.

Il tema sarebbe dunque: verso o falso, che sia l'abito a fare il monaco?

Ed è naturale che la domanda, posta a questo modo, risulti piuttosto scontata, se non ridicola. Una persona dovrebbe essere ben più della somma delle pecette che la rivestono, come tanti post-it che ne scandiscono un'esistenza per conto terzi. Eppure mi verrebbe la voglia, qui, adesso, tra le matite rosse e affilate di tre raggazzetti lesti nel assegnare le loro implacabili sentenze estetiche, oltre a un gruppo di slavi che mi premono contro dentro pantaloni che sono solo pantaloni, giacche che sono semplici giacche, sì mi viene voglia di abbozzare un ragionamento controintuitivo.

Abbiamo ancora due fermate, dai, proviamoci. Partendo da un ricordo personale. Quando io avevo circa sette o otto anni mio padre collaborò con l'allora segretario del CONI valtellinese, a cui scriveva i discorsi pubblici che era chiamato a pronunciare. Che so, allo sfinito traguardo di una marcia longa dei piedi buoni, o per la soddisfazione di vedere una delegazione sondriese vincere i Giochi della gioventù di mini basket, celebre e mai più ripetuta annata d'oro del sessantuno.

Mio padre faceva insomma da ghost writer. E dal momento che questo impegno era particolarmente "ghost", fantasma nominale dentro la paludata retorica della lealtà sportiva, l'importante non è vincere ma partecipare o chissà quali altre parole saranno sgorgate dalla sua penna Parker (mi ricordo il marchio perché gliel'avevo regalata io a una qualche festa del papà) i suoi invisibili sforzi non venivano remunerati con denaro, ma con magliette da tennis di marca Lacoste.

Non chiedetemi il motivo, non ne ho la minima idea. Evidentemente questo segretario del CONI, un abruzzese corpulento e affabile dalle gote rubizze e vagamente simile al commissario Basettoni, ma che a differenza di quello usava intercalare con l'espressione "grazie al cacchio", avrà avuto qualche convenzione commerciale con un negozio di articoli sportivi o un rappresentante o la Lacoste stessa, mamma coccodrillo.

Facciamo dunque che non ci interessa da dove arrivassero quei gettoni di purissimo cotone a nido d'ape, come non mi interessava troppo nemmeno allora.

Tutto il mio interesse era invece rivolto a certi sacchetti opachi del Supermarket Scherini, ma senza la maionese Calvè o il formaggino Susanna, con cui mio padre rincasava ogni tanto in ritardo per la cena; fatto già di per sé strano, e che lasciava presagire l'emergere di una soffice epifania al termine del pasto. Con la minestra riscaldata nel piatto, io iniziavo così a fantasticare sullo spettro luminoso dei colori: rosso, verde, blu, amaranto - che era allora la mia tinta preferita -, azzurrino pastello, bianco, giallo, marrone - che era invece quella che mi piaceva meno, come per altro anche adesso.

Ecco, forse ci sono: la Lacoste accucciata dentro il sacchetto del Supermarket Scherini senza spesa, e in attesa di sbucare fuori al termine di una cena consumata con malcelata smania, era quella a righine!

Al mio compagno di banco Claudio l'avevano regalata per il compleanno, riusciva a fregarmi ogni volta sul tempo. Resa nota da un celebre tennista, una scritta nera, o forse blu, riprendeva la sigla del marchio stampata in un continuo grafico su di uno sfondo bianco - LacosteLacosteLacosteLacoste... - e andando così a formare un colpo d'occhio d'insieme che ricordava appunto tante minuscole righine, il cui effetto trovavo irresistibile.

Ma a dirla tutta, ogni singolo dettaglio di una Lacoste era irresistibile. Il tessuto, il colore, i due bottoncini, uno aperto e uno chiuso sotto al colletto, lo stesso colletto e il coccodrillino con le gengive finemente intessute di rosso; per non dire i polsini leggermente ristretti sui bicipiti affilati. Ma più di ogni altra cosa era bello che la mia famiglia si meritasse quei piccoli gioielli di sartoria, e ciò per via di una attività segreta, quasi clandestina, che mi appariva come il prezioso talento di mio padre. Ghost writer, come a dire un fantasma che alitava oltre i muri spessi del carcere solo intravisti dal nostro balcone: un talento che non era solo per noi, intendo. Ma da donare sottovoce al mondo.

E nella fattispecie il mondo, a cui consegnare la felice estensione di una lingua compiuta, aveva il volto rubizzo di un signore che diceva sempre e solo grazie al cacchio.

Più tardi, uno o due anni dopo, cioè a quell'età molto tempo dopo, qualcuno tra i miei parenti mi regalò una polo acquistata in un mercatino, che della Lacoste voleva essere una scadente imitazione. Era presente anche il coccodrillo disteso sopra al cuore, ma rispetto all'originale non c'entrava proprio nulla. Era grasso, un lucertolone scomposto e di un verde pesante, da acquitrino, senza nemmeno il richiamo di filo rosso all'interno della bocca. Insomma, era brutta. Ma più che altro era triste.

Già allora mi sembrò che la persona che aveva imitato il celebre marchio non si fosse sforzata nel suo compito, che ci fosse dell'indolenza, della sciatteria. Non si lavora in quel modo lì. Negligenza che si univa al tradimento per ciò che io percepivo come un legame di sangue, come Tex Willer quando si incide il palmo della mano e mescola il fiotto tiepido e scuro con quello della sua sposa indiana. Mentre io e la mia famiglia, nel velo di cotone che faceva da filtro tra noi e gli altri, c'eravamo sposati con la Lacoste. Quella vera.

Sì, eravamo una famiglia modesta, piccolo borghese, che si avventurava nelle frequenti gite domenicali con la Ford Escort color sabbia prestata dal nonno, con molte avvertenze, ma indossando Lacoste. Era quella la nostra gioiosa divisa, soldatini in libera uscita dentro al tardo boom economico: era quello il nostro araldo. E ciò perché nella gola di mio padre ci stavano molte più parole che nell'espressione grazie al cacchio.

Ne ero orgoglioso.

Ecco, io penso che un marchio, un "brand", rappresenti al suo meglio tutto ciò. La capacità di catturare le storie randagie e latenti dentro il baccano delle strade, il venticello di un tempo o la tempesta dei secoli. Che si incunea nelle masse in cammino come nelle leggende famigliari, le biografie private fino agli accidenti quotidiani, frullati e compressi dentro un'immagine o un suono riconoscibile da tutti. Lacoste, sì. Funziona. E già a sette anni io sapevo di essere un tipo da Lacoste.

Eppure io non ero, e non sono, che so: un tipo da Rolex o da Armani o da Hugo Boss o da Dolce & Gabbana, questo meno che mai. Al contrario, sono sigle che mi lasciano nella più completa indifferenza; se non in alcuni casi suscitano un certo fastidio, addirittura insofferenza fisica. Credo che dipenda dal fatto che questi marchi non abbiano saputo intercettare dolcemente la mia vicenda umana, e ne avverta così il tentativo di sovrapporsi ad essa indirizzandone il gusto, la personale cadenza del mio passo dirottata verso narrazioni che percepisco come estranee, ostili quando pretendono di farsi gli affari miei.

Quelle storie non sono la mia storia, semplicemente.

Mi sembra allora, in questi casi, che l'immaginario nascosto dentro ai marchi si sporga come una sottile e invasiva ombra su di me, il maldestro doppiaggio di un film giapponese. Il cui suono originario, la voce degli interpreti senza sottotitoli né musichetta, solo cacofonici impasti di consonanti, sì mi sembra che quel suono inclini pericolosamente verso quello di grazie al cacchio.

Per una ragione che potrei chiamare di "idiosincrasia narrativa", rispetto a molti marchi mi trovo dunque in sintonia con le imitazioni, simpatizzo con le copie. Tra un orologio Rolex e un clone non avrei dubbi: decisamente un clone. A patto però che sia presente e tangibile lo sforzo di replicare il modello originale in ogni dettaglio. Perché è questo l'elemento che genera in me ammirazione, e quindi identificazione. L'umiltà del lavoro fatto bene, senza smanie o vezzi creativi; pazienza laboriosa di chi compia un gesto non per la spavalda affermazione di sé, ma per onorare ciò che avverte come perfezione formale dell'altro.

Se ci pensiamo bene, è il meccanismo alla base dell'idea stessa di magistero: la convinzione che le arti e i saperi si possano offrire solo in una prospettiva gerarchica, inizialmente imitativa. Come il monaco amanuense, che prima di elaborare una sua idea teologica dei cieli e della terra deve ricopiare i testi di Aristotele. Anche le virgole, sì, anche quelle.

Abbiamo dunque due modelli "filosofici", se così possiamo dire, che si profilano contrapponendosi. Quello aristotelico-tomista, che vede nelle cose, negli abiti perfino, delle strutture replicabili, una meccanica che ha nel gesto la sua perfezione. A cui si oppone il modello Platonico dell'autenticità, in cui la riconoscibilità di un marchio starebbe a indicare addirittura un'essenza prima che cattura lo spirito, e attraverso la forma lo innalza alle squisitezze senza tempo né luogo dell'increato. Lacoste è stata per me un'iniziazione di tale genere: sintesi immaginifica e morbidissima dell'idea paterna di magistero, che come insegna il mito alla lunga può perfino divorare.

(Ecco da dove venivano, allora, le macchioline rosse tra le fauci del coccodrillo...)

Il convoglio frena con decisione nei pressi della banchina della stazione di Porta Garibaldi; uno degli slavi, intento a gesticolare, mi finisce addosso con il suo giaccone di pelle che è un giaccone di pelle è un giaccone di pelle, come la rosa di Gertrude Stein. Mi dice anche qualcosa, forse sono delle scuse nella sua lingua orgogliosa; scuse che somigliano a minacce. I tre ragazzi adesso stanno parlando di automobili, mentre uno di loro li saluta e si avvicina all'uscita. Quello con il giacchino chiaro e i jeans a vita bassa replica con un cenno del capo, continuando a parlare di un nuovo modello decapottabile di BMW, il cui tettuccio si apre in una manciata di secondi al premere di un tasto.

Piacerebbe anche a me disporre a questo punto di un tasto simile, per lasciare aperta anche la mia conclusione. Cabriolet.

Mi sembra infatti evidente che i marchi, soprattutto quelli d'abbigliamento, possiedono una subdola vocazione a colonizzare l'immaginario delle persone, iniettandovi il seme di narrazioni piccole piccole, spesso meschine. Ma proprio perché gli abiti sono cose, ma anche segni, "spirito" di un altrove desiderato o rimpianto, gli stemmi e le sigle hanno pure un potere magico, cioè analogico, di intercettare anche gli eventi reali e le vicende personali e spesso trascurabili, innalzandole a una dimensione mitica, opalescente.

Mio padre, per me, sarà sempre un eroe di questo genere, un Ulisse che si insinua segretamente sotto la coltre di parole di un ciclope monologante, per conferire alla sua lingua la misura preziosa dell'esattezza variabile, che è corrispondenza mutevole con le cose. Già, proprio come la sagoma verdolina di un coccodrillo in miniatura: che non deve essere troppo timida e piccina, ma nemmeno grande e presuntuosa. Deve essere giusta.

Massì, dai, finiamola allora a questo modo. Con uno spot. Bevete più latte, il latte fa bene. Ma soprattutto comprate Lacoste, vestite Lacoste, restituendo alla vostra minima storia il respiro grande e terribile di una storia che non è mai stata ma che sempre sarà, come ripeteva Sallustio.

Una storia che è fatta di padri di figli e di orchi loquaci ma senza parole, e grazie al cacchio se vi par poco!