domenica 18 aprile 2010

Design, o sulla bellezza nel conforme


Design. Un termine inglese. Che, come si intuisce, significa semplicemente disegno. Ma anche progetto; motivo; abbozzo, canovaccio; piano; complotto, intrigo; proposito, intenzione. Tutti elementi che riverberano anche nell'equivalente italiano.

Per quale ragione, dunque, per indicare il disegno tecnico di oggetti di consumo o di arredamento usiamo il termine anglosassone design?

Lo facciamo in modo ormai naturale, scontato. Mi sentirei ridicolo se riferendomi a una lampada Flos o una poltrona Barcelona li rappresentassi come oggetti di disegno; mi sentirei come D'Annunzio quando chiamava "coda di gallo" il cocktail. E ciò perché nel lievissimo scarto di suono tra l'italiano e l'inglese accadono evidentemente un mucchio di cose. Ma sotto, al sicuro, nella pancia delle parole e fin dentro di noi.

Per avvicinarmi al segreto racchiuso nel ventre della balena, provo allora a partire da una circostanza privata. Da qualche mese io ho acquistato un nuovo appartamento. Si trova all'interno di un complesso urbano piuttosto innovativo, che sul modello scandinavo e anglosassone prevede la condivisone di alcuni spazi: piscina; lavanderia; sala conviviale; locale bricolage. Anche in questa occasione il termine con cui ci hanno proposto il progetto non era italiano, e diversi giornali hanno strombazzato la notizia che a Milano era nato il primo "cohousing".

Cohousing, già. Termine perfino più antipatico di design. Letteralmente non significa altro che abitare assieme. Più o meno lo stesso del sostantivo di discendenza latina condominio (con-domus, ovvero una casa in comune). E però tocca convenire che anche in questa circostanza un condominio non coincide esattamente con un cohousing.

A differenza del galateo sospettoso tra condomini, nel cohousing si riscontra un'affabilità fin troppo sorridente, gli inquilini sono tutti solidali, ecosensibili, di sinistra. Come Lupo de Lupis: che è un lupo, sì, ma tanto buonino. E poi qui le persone fanno quei lavori che non sai mai bene che cazzo di lavoro fanno; tra noi pure un "futurologo" altrimenti detto "trendwatcher", parole sue. Inoltre, nel mio cohousing tanto buonino, abbiamo anche tre designer. Non uno, tre.

A me queste tre persone sono tutte simpatiche, davvero, nessuna punta di polemica o ironia. Si tratta di un veneto, di una sarda e di una bresciana. Come nelle barzellette. Solamente che, al contrario delle barzellette, quando chiedi qualcosa al veneto, alla bresciana o alla sarda non ti rispondono con espressioni tipo pota, ndemo, eja, no, loro ti rispondono con dimmi Guido?

Come, dimmi Guido?

E la cosa più sorprendente è che te lo dicono con un tono di voce in cui non riesci a riconoscere la provenienza, ti si sfarina tra le mani la tua barzelletta regionale. In genere ho un buon orecchio per gli accenti, ma è la prima volta che non riesco a riconoscere un veneto, una bresciana e una sarda dall'inflessione. Parlano allo stesso modo.

Provvisoriamente mi verrebbe dunque da segnarmi questa cosa: il termine design, non so come, non so perché, ma deve c'entrare qualcosa con il parlare tutti nello stesso modo. Possibilmente in inglese.

L'idea alla base della nascita del design sarebbe anche semplicissima. Cercare la bellezza dentro la funzione. Strappando al cielo, alle muse, a un élite di censo e di buoni studi il monopolio del piacere e dell'armonia tra le cose. Per ricollocarli infine tra la confusione e il baccano di un'esperienza che sia davvero vissuta.

Come molti osservatori hanno giustamente sottolineato, oltre che estetica è stata una trasformazione politica. Fino a poco più di un secolo fa la bellezza era infatti posta al margine delle pratiche quotidiane, monopolio di un'aristocrazia del gusto che aveva tempo e pazienza per grattarne la polvere dalla volta di un affresco, o succhiare il nettare di paesaggi scrutati con l'inefficienza curiosa e attenta del flâneur. Altro termine straniero che trova nel più disincantato "fancazzista" una moderna traduzione.

Insomma, vi era una sorta di equivalenza tacita tra bellezza e inattività, tra contemplazione e piacere. Movimenti progressivi come quelli del Bauhaus hanno però contribuito a disgiungere nuovamente questi termini, mostrando come al fondo contenessero un pregiudizio culturale che si ripercuoteva nei rapporti tra le persone. E dunque, con la fondazione moderna del design, ecco che la bellezza torna a dilagare tra le strade e gli oggetti del mondo.

Non un mondo a caso: questo mondo.

Eppure eppure eppure... deve essere successa anche un'altra cosa, forse meno apparente ma ugualmente decisiva, e i cui effetti hanno il carattere di una contraddizione poco indagata. Provo a spiegarmi con un paragone.

Immaginiamo la bellezza come una sorta di investitura militare, un'onorificenza di cui nel passato potevano disporre solo le classi superiori che di tale privilegio - di tempo, di studi, di sensibilità ma soprattutto di risorse - si ammantavano per ribadire gerarchicamente il loro status. Nei primi decenni del Novecento avviene però un colpo di mano, una rivoluzione non armata. Come nella presa della Bastiglia, vengono così fatti saltare tutti chiavistelli, tanto che la bellezza può sprigionarsi in un'economia del bello finalmente accessibile a tutti.

E' la libertà, allora, e con la libertà l'affermazione definitiva di una democrazia del piacere?

Mmmh... c'è più di una ragione per sospettare che le cose non siano andate a questo modo, e che le forze della restaurazione si siano rimesse presto al lavoro. Ossia che la rivoluzione democratica della bellezza, instaurata dall'armata moderna del design, abbia finito col reincorporare tutti quei motivi di disparità sociale e privilegio inizialmente combattuti. Nelle forme attualmente diffuse, l'estetica delle merci non si arresta infatti al dato orizzontale dei sensi, ma continua a muoversi anche dentro una dimensione verticale. Di casta, nuovamente. Di censo.

In altre parole attraverso la partecipazione a un'idea di bellezza semplificata e comunemente accettata - quella istruita dai designer - si finisce con l'aderire anche a una aggiornata toponomastica sociale, non più aristocratica ma borghese. Che continua però a utilizzare la fruizione estetica quale sua controparte manifesta. Se io acquisto una lampada Flos o una poltrona Barcelona sono infatti una persona di gusto. E se sono una persona di gusto, di buon gusto, significa che il mio ipotetico grado di investitura socio-militare sta crescendo, che sto facendo carriera. Così attraverso la mia nuova poltroncina levigata mostro a tutti i galloni.

Insomma, tutto è cambiato perché tutto restasse come prima. Attraverso l'esibizione degli oggetti di design, in genere molto costosi e dunque già di per sé selettivi, si realizza anche oggi una marchiatura al fuoco vivo del pregiudizio, che colloca gli individui all'interno di uno schema di valore che non è solamente estetico, ma contiene in filigrana le eterne categorie del potere e dell'esclusione.

Non dico che il design sia solo questo, intendiamoci. Il design rimane, almeno al suo meglio, bellezza dentro la funzione. Ma il design è anche questo: velleità artistica e culturale, ostentazione, darwinismo sociale. Ciò che dal romanzo di Flaubert in poi è stato racchiuso nel termine "bovarismo".

E cosa diceva Emma Bovary di tanto esemplare, quali pensieri in questa piccola donna mentre attraversava i sentieri per i campi di una provincia brumosa, chiusa in un corpetto nero e troppo stretto per l'ossigeno che smaniava? O cosa infine faceva, a parte la pratica in fin dei conti banale di tradire il proprio marito, quale gesto così inaudito da aver caratterizzato lo spirito di un'intera epoca?

Niente.

La mia impressione è che in Emma Bovary non ci fosse niente, ma davvero niente di difforme o anche solo remotamente soggettivo, tanto da poter incidere il suo nome non dico sopra la copertina di un libro, ma anche solo nella minuscola casella di un documento anagrafico. La signora Bovary, dopo avere superato i ranocchi e le sterpaglie dei campi, nel suo esporsi anima e corpo alla brezza che alitava per le strade, lo sguardo rivolto alle vetrine sature di merci fino a incorporarle in ogni minimo tessuto della sua persona, la moglie di Carlo Bovary era un niente ventilato, uno specchio, una maschera moderna. Ed è perciò che è diventata un tutto.

Madame Bovary "c'est moi", dichiarava con vezzo il suo magnifico autore. Ma per questa sua indistinzione osmotica è anche un tu, un voi, un tutti. Madame Bovary c'est tout le monde.

E il mondo intero può forse parlare in sardo, in veneto o in bresciano?

No, il mondo integrato dalle nuove tecnologie della comunicazione ha bisogno di una lingua media, che mediamente rappresenti la sua assenza di asperità. Una conca sintattica avvolgente, tiepida, che ospiti il corpo quando è stanco ma anche gli amici, i conoscenti e i rompicoglioni. L'importante è che in questa forma-mondo non vi sia più traccia di un'ombra personale, di un punto soggettivo di resistenza. E secondo me il design allora è anche questo:

La nuova lingua media del mondo, che spalma gli spigoli recalcitranti della biografia dentro la curva sinuosa di una forma.

Attraverso l'adesione a questa neo-lingua formale e simbolica, noi perdiamo dunque qualcosa in storia, in specificità; ma guadagniamo in riconoscimento pubblico, consenso e gerarchia. Siamo cioè conformi al nostro tempo, che ci premia come fa il comandante con il soldato che ha compiuto con disciplina la sua missione.

Tommaso Labranca, in un bel saggio sulla figura moderna del "cialtrone" (Chaltron Escon, Einaudi, 1998), per collocare concettualmente questa categoria estetica, ormai prevalente, usa il termine latino "elegantia". Intensa quale sinonimo di trash, o se preferiamo di kitsch. Ossia, parole ancora sue, siamo al cospetto di "un'emulazione fallita di un modello alto".

Ecco, il sospetto è allora che nel design, per quanto camuffata sotto ai veli di multipli e sontuosi travestimenti, covi proprio tale idea cialtrona di mondo. Bella, sì. Oltre che funzionale ed efficiente. Ma in cui i rapporti tra le persone sono all'insegna dell'emulazione e dell'inautenticità. Una bella casa diventa allora una casa che potrebbe essere di chiunque, senza luogo né tempo. Ma soprattutto senza l'altarino con i nostri santi ingialliti, baffuti, vecchie fotografie impilate sopra a una credenza da quattro soldi, da scambiarsi a ogni rintocco generazionale.

Torna alla mente anche una vecchia canzone di Piero Ciampi, dove con spirito beffardamente livornese riesce a rendere poetico il più orrendo tra i gesti. Un pugno dato a una donna, la compagna di chi di chi dice io. L'uomo le ha così rotto il naso che è rimasto storto e bugnato. E però quale infinita tenerezza nel guardare poi quel volto imperfetto e amato, concludendo: "Ma il naso ora è diverso: l'ho fatto io, non Dio..."

Manca a questo punto solo una conclusione. Le barzellette, per scoccare la freccia di un sorriso, hanno bisogno di un finale che sciolga ogni conflitto in burla. In una barzelletta dove veneti, sardi e bresciani parlano tutti allo stesso modo, un finale che restituisca la certezza di un sillogismo però non si trova. Ci sono molti buoni motivi per apprezzare lo sforzo di chi cerca di portare bellezza nelle cose di ogni giorno; ma anche, come si è visto, motivi per diffidare di un'idea di bello senza storia o conflitto, saccheggiata da ogni esperienza vissuta e singolare.

Possiamo solo aggiungere che alle poltrone troppo tonde e avvolgenti preferiremo sempre i nasi rotti, gobbi, storti e con la goccia. Come quello del bimbo che, di nascosto dai genitori di un qualche lustro cohousing milanese, scarabocchia il proprio nome sopra alla stessa poltrona firmata.

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