venerdì 2 aprile 2010

Brand non brand, o sulle trame di tessuto della biografia


Passante ferroviario da Bovisa-Politecnino a Porta Venezia, Milano, poco dopo l'ora di pranzo. Mi arriva il riverbero attutito di una conversazione tra adolescenti addossati nella mia stessa carrozza, che stanno discutendo di un marchio di abbigliamento evidentemente piuttosto noto.

A dire il vero io non ho mai sentito nominare quella sigla, ma dal tono con cui ne parla il più convinto dei tre - capelli rasati, jeans a vita inguinale, un giubbino chiaro e attillato dall'aspetto non molto caldo, almeno in un primo aprile che nasconde l'ultima beffa dell'inverno - intuisco che quell'accrocchio straniero di consonanti riveste un ruolo decisivo, se non per il mondo all'interno dei rapporti di forza del gruppo. Il ragazzo ci tiene infatti a chiarire che i suoi abiti sono di quella marca lì, sono autentici insomma, mentre un loro comune amico si veste con delle imitazioni; e già solo questo fatto è sufficiente a indicarne l'assenza di prestigio, se non di valore a tutti gli effetti.

Il tema sarebbe dunque: verso o falso, che sia l'abito a fare il monaco?

Ed è naturale che la domanda, posta a questo modo, risulti piuttosto scontata, se non ridicola. Una persona dovrebbe essere ben più della somma delle pecette che la rivestono, come tanti post-it che ne scandiscono un'esistenza per conto terzi. Eppure mi verrebbe la voglia, qui, adesso, tra le matite rosse e affilate di tre raggazzetti lesti nel assegnare le loro implacabili sentenze estetiche, oltre a un gruppo di slavi che mi premono contro dentro pantaloni che sono solo pantaloni, giacche che sono semplici giacche, sì mi viene voglia di abbozzare un ragionamento controintuitivo.

Abbiamo ancora due fermate, dai, proviamoci. Partendo da un ricordo personale. Quando io avevo circa sette o otto anni mio padre collaborò con l'allora segretario del CONI valtellinese, a cui scriveva i discorsi pubblici che era chiamato a pronunciare. Che so, allo sfinito traguardo di una marcia longa dei piedi buoni, o per la soddisfazione di vedere una delegazione sondriese vincere i Giochi della gioventù di mini basket, celebre e mai più ripetuta annata d'oro del sessantuno.

Mio padre faceva insomma da ghost writer. E dal momento che questo impegno era particolarmente "ghost", fantasma nominale dentro la paludata retorica della lealtà sportiva, l'importante non è vincere ma partecipare o chissà quali altre parole saranno sgorgate dalla sua penna Parker (mi ricordo il marchio perché gliel'avevo regalata io a una qualche festa del papà) i suoi invisibili sforzi non venivano remunerati con denaro, ma con magliette da tennis di marca Lacoste.

Non chiedetemi il motivo, non ne ho la minima idea. Evidentemente questo segretario del CONI, un abruzzese corpulento e affabile dalle gote rubizze e vagamente simile al commissario Basettoni, ma che a differenza di quello usava intercalare con l'espressione "grazie al cacchio", avrà avuto qualche convenzione commerciale con un negozio di articoli sportivi o un rappresentante o la Lacoste stessa, mamma coccodrillo.

Facciamo dunque che non ci interessa da dove arrivassero quei gettoni di purissimo cotone a nido d'ape, come non mi interessava troppo nemmeno allora.

Tutto il mio interesse era invece rivolto a certi sacchetti opachi del Supermarket Scherini, ma senza la maionese Calvè o il formaggino Susanna, con cui mio padre rincasava ogni tanto in ritardo per la cena; fatto già di per sé strano, e che lasciava presagire l'emergere di una soffice epifania al termine del pasto. Con la minestra riscaldata nel piatto, io iniziavo così a fantasticare sullo spettro luminoso dei colori: rosso, verde, blu, amaranto - che era allora la mia tinta preferita -, azzurrino pastello, bianco, giallo, marrone - che era invece quella che mi piaceva meno, come per altro anche adesso.

Ecco, forse ci sono: la Lacoste accucciata dentro il sacchetto del Supermarket Scherini senza spesa, e in attesa di sbucare fuori al termine di una cena consumata con malcelata smania, era quella a righine!

Al mio compagno di banco Claudio l'avevano regalata per il compleanno, riusciva a fregarmi ogni volta sul tempo. Resa nota da un celebre tennista, una scritta nera, o forse blu, riprendeva la sigla del marchio stampata in un continuo grafico su di uno sfondo bianco - LacosteLacosteLacosteLacoste... - e andando così a formare un colpo d'occhio d'insieme che ricordava appunto tante minuscole righine, il cui effetto trovavo irresistibile.

Ma a dirla tutta, ogni singolo dettaglio di una Lacoste era irresistibile. Il tessuto, il colore, i due bottoncini, uno aperto e uno chiuso sotto al colletto, lo stesso colletto e il coccodrillino con le gengive finemente intessute di rosso; per non dire i polsini leggermente ristretti sui bicipiti affilati. Ma più di ogni altra cosa era bello che la mia famiglia si meritasse quei piccoli gioielli di sartoria, e ciò per via di una attività segreta, quasi clandestina, che mi appariva come il prezioso talento di mio padre. Ghost writer, come a dire un fantasma che alitava oltre i muri spessi del carcere solo intravisti dal nostro balcone: un talento che non era solo per noi, intendo. Ma da donare sottovoce al mondo.

E nella fattispecie il mondo, a cui consegnare la felice estensione di una lingua compiuta, aveva il volto rubizzo di un signore che diceva sempre e solo grazie al cacchio.

Più tardi, uno o due anni dopo, cioè a quell'età molto tempo dopo, qualcuno tra i miei parenti mi regalò una polo acquistata in un mercatino, che della Lacoste voleva essere una scadente imitazione. Era presente anche il coccodrillo disteso sopra al cuore, ma rispetto all'originale non c'entrava proprio nulla. Era grasso, un lucertolone scomposto e di un verde pesante, da acquitrino, senza nemmeno il richiamo di filo rosso all'interno della bocca. Insomma, era brutta. Ma più che altro era triste.

Già allora mi sembrò che la persona che aveva imitato il celebre marchio non si fosse sforzata nel suo compito, che ci fosse dell'indolenza, della sciatteria. Non si lavora in quel modo lì. Negligenza che si univa al tradimento per ciò che io percepivo come un legame di sangue, come Tex Willer quando si incide il palmo della mano e mescola il fiotto tiepido e scuro con quello della sua sposa indiana. Mentre io e la mia famiglia, nel velo di cotone che faceva da filtro tra noi e gli altri, c'eravamo sposati con la Lacoste. Quella vera.

Sì, eravamo una famiglia modesta, piccolo borghese, che si avventurava nelle frequenti gite domenicali con la Ford Escort color sabbia prestata dal nonno, con molte avvertenze, ma indossando Lacoste. Era quella la nostra gioiosa divisa, soldatini in libera uscita dentro al tardo boom economico: era quello il nostro araldo. E ciò perché nella gola di mio padre ci stavano molte più parole che nell'espressione grazie al cacchio.

Ne ero orgoglioso.

Ecco, io penso che un marchio, un "brand", rappresenti al suo meglio tutto ciò. La capacità di catturare le storie randagie e latenti dentro il baccano delle strade, il venticello di un tempo o la tempesta dei secoli. Che si incunea nelle masse in cammino come nelle leggende famigliari, le biografie private fino agli accidenti quotidiani, frullati e compressi dentro un'immagine o un suono riconoscibile da tutti. Lacoste, sì. Funziona. E già a sette anni io sapevo di essere un tipo da Lacoste.

Eppure io non ero, e non sono, che so: un tipo da Rolex o da Armani o da Hugo Boss o da Dolce & Gabbana, questo meno che mai. Al contrario, sono sigle che mi lasciano nella più completa indifferenza; se non in alcuni casi suscitano un certo fastidio, addirittura insofferenza fisica. Credo che dipenda dal fatto che questi marchi non abbiano saputo intercettare dolcemente la mia vicenda umana, e ne avverta così il tentativo di sovrapporsi ad essa indirizzandone il gusto, la personale cadenza del mio passo dirottata verso narrazioni che percepisco come estranee, ostili quando pretendono di farsi gli affari miei.

Quelle storie non sono la mia storia, semplicemente.

Mi sembra allora, in questi casi, che l'immaginario nascosto dentro ai marchi si sporga come una sottile e invasiva ombra su di me, il maldestro doppiaggio di un film giapponese. Il cui suono originario, la voce degli interpreti senza sottotitoli né musichetta, solo cacofonici impasti di consonanti, sì mi sembra che quel suono inclini pericolosamente verso quello di grazie al cacchio.

Per una ragione che potrei chiamare di "idiosincrasia narrativa", rispetto a molti marchi mi trovo dunque in sintonia con le imitazioni, simpatizzo con le copie. Tra un orologio Rolex e un clone non avrei dubbi: decisamente un clone. A patto però che sia presente e tangibile lo sforzo di replicare il modello originale in ogni dettaglio. Perché è questo l'elemento che genera in me ammirazione, e quindi identificazione. L'umiltà del lavoro fatto bene, senza smanie o vezzi creativi; pazienza laboriosa di chi compia un gesto non per la spavalda affermazione di sé, ma per onorare ciò che avverte come perfezione formale dell'altro.

Se ci pensiamo bene, è il meccanismo alla base dell'idea stessa di magistero: la convinzione che le arti e i saperi si possano offrire solo in una prospettiva gerarchica, inizialmente imitativa. Come il monaco amanuense, che prima di elaborare una sua idea teologica dei cieli e della terra deve ricopiare i testi di Aristotele. Anche le virgole, sì, anche quelle.

Abbiamo dunque due modelli "filosofici", se così possiamo dire, che si profilano contrapponendosi. Quello aristotelico-tomista, che vede nelle cose, negli abiti perfino, delle strutture replicabili, una meccanica che ha nel gesto la sua perfezione. A cui si oppone il modello Platonico dell'autenticità, in cui la riconoscibilità di un marchio starebbe a indicare addirittura un'essenza prima che cattura lo spirito, e attraverso la forma lo innalza alle squisitezze senza tempo né luogo dell'increato. Lacoste è stata per me un'iniziazione di tale genere: sintesi immaginifica e morbidissima dell'idea paterna di magistero, che come insegna il mito alla lunga può perfino divorare.

(Ecco da dove venivano, allora, le macchioline rosse tra le fauci del coccodrillo...)

Il convoglio frena con decisione nei pressi della banchina della stazione di Porta Garibaldi; uno degli slavi, intento a gesticolare, mi finisce addosso con il suo giaccone di pelle che è un giaccone di pelle è un giaccone di pelle, come la rosa di Gertrude Stein. Mi dice anche qualcosa, forse sono delle scuse nella sua lingua orgogliosa; scuse che somigliano a minacce. I tre ragazzi adesso stanno parlando di automobili, mentre uno di loro li saluta e si avvicina all'uscita. Quello con il giacchino chiaro e i jeans a vita bassa replica con un cenno del capo, continuando a parlare di un nuovo modello decapottabile di BMW, il cui tettuccio si apre in una manciata di secondi al premere di un tasto.

Piacerebbe anche a me disporre a questo punto di un tasto simile, per lasciare aperta anche la mia conclusione. Cabriolet.

Mi sembra infatti evidente che i marchi, soprattutto quelli d'abbigliamento, possiedono una subdola vocazione a colonizzare l'immaginario delle persone, iniettandovi il seme di narrazioni piccole piccole, spesso meschine. Ma proprio perché gli abiti sono cose, ma anche segni, "spirito" di un altrove desiderato o rimpianto, gli stemmi e le sigle hanno pure un potere magico, cioè analogico, di intercettare anche gli eventi reali e le vicende personali e spesso trascurabili, innalzandole a una dimensione mitica, opalescente.

Mio padre, per me, sarà sempre un eroe di questo genere, un Ulisse che si insinua segretamente sotto la coltre di parole di un ciclope monologante, per conferire alla sua lingua la misura preziosa dell'esattezza variabile, che è corrispondenza mutevole con le cose. Già, proprio come la sagoma verdolina di un coccodrillo in miniatura: che non deve essere troppo timida e piccina, ma nemmeno grande e presuntuosa. Deve essere giusta.

Massì, dai, finiamola allora a questo modo. Con uno spot. Bevete più latte, il latte fa bene. Ma soprattutto comprate Lacoste, vestite Lacoste, restituendo alla vostra minima storia il respiro grande e terribile di una storia che non è mai stata ma che sempre sarà, come ripeteva Sallustio.

Una storia che è fatta di padri di figli e di orchi loquaci ma senza parole, e grazie al cacchio se vi par poco!

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