giovedì 15 aprile 2010

Defilè, o sul defilarsi della vita dalle parole


Nei giorni scorsi ho pubblicato una collezione di magliette con la sigla di questo blog. Vecchie fotografie, perlopiù. Divi del cinema vampirizzati nell'ennesima attualizzazione a scopo di merchandising. Tutto vero, intendiamoci: le magliette sono state effettivamente realizzate. Ma anche tutto finto. Si trattava infatti e con evidenza di satira. La quale agisce per mezzo di un'adesione estrema all'oggetto che in tal modo si intende dubitare. Ecco, da qualche tempo io ho iniziato a maturare un dubbio sempre più insinuante: essere diventato qualcosa di assimilabile a un sarto, uno di quelli con le erre moscia e la cui massima aspirazione è farsi amico Simona Ventura.

Stiamo parlando di moda, insomma.

Il meccanismo della moda è semplice. Si prenda uno stile tradizionale dell'abbigliamento, uno qualsiasi, e lo si scorpori dal significato originario, il galateo sociale, lo schema antropologico o anche solo dalla funzione termica che aveva accompagnato la manifestazione di quella maniera dell'abbigliarsi. Quindi lo si ricomponga con altre citazioni estetiche, mescolanze ornamentali ed eccentriche, esercizi anche estremamente accurati della forma. O detta in altre parole, la moda trasforma un segno collegato a un codice umano precedente, cioè una testualità anche se solamente allusiva, ma riconosciuta, in un elemento di pura evidenza spettacolare, in competizione con altri segni ugualmente privi di una qualsiasi referenza all'esperienza vissuta.

Jean Baudrillard, uno tra i più acuti osservatori del sistema della moda, già aveva intuito come sulle passerelle si defili il segno da ogni significato residuo. Bene, la mia adesione satirica al medesimo meccanismo, per quanto nella pratica anch'essa seria e reale, contiene allora un sospetto ulteriore. Chiamiamola circolarità viziosa, tautologia. Come se il diffondersi del fenomeno contemporaneo dei blog celasse al fondo una contesa quasi primitiva, meglio animale, cani che orinano sopra allo schizzo altrui per affermare il proprio, depositando segni a casaccio in un universo testuale che tende all'irrilevanza comunicativa...

I blog rappresenterebbero in tal caso l'estensione del sistema della moda all'unico enclave che fino ad ora aveva provato a resistervi, l'antico gioco combinatorio dei Sumeri quale luogo che ancora rivendicava la presenza di un senso, di un rapporto vivo tra cose e simulacri; ma anche tra persone che quei segni si scambiano nel mercato dell'esperienza.

La scrittura che capitola, dunque, la scrittura che si arrende e corre in soccorso del nuovo sovrano della rappresentazione fine a se stessa...

E' solo un dubbio, ripeto. Una domanda. La quale paventa una sorta di grado zero della relazione umana. Dove la composizione di un testo, che pure si accorda a una tradizione e a una regola sintattica e grammaticale sempre più lasca, finisce con l'esaurirsi in un esercizio di arredamento delle proprie stanze; o al limite all'ammiccamento dentro i codici di un clan che approva in via preventiva, come le firme che in banca ti chiedono di scarabocchiare sopra a interminabili protocolli.

In questa prospettiva si spigherebbe anche la consistenza quantitativa dei contatti dentro i blog, compreso il mio, senza che ciò produca un effetto di realtà. Si tratterebbe infatti di numeri che non fanno mondo, ma fanno moda. E perciò percepiti come il ticchettio dell'orologio che di notte ci rassicura sull'ostinarsi del tempo, carillon musicale da un'infanzia soffusa e presente. Contatti che cessano di produrre relazione quanto cognizione: solo flusso, alternanza delle maree. Che si mescolano e confondono come la birra e il piscio tiepido e suadente, dentro l'infinito budello degli orinatoi dell'Oktoberfest.

O come gli strass, i pon pon, gli allure e i glamour e i tres jolie che bijou: abbigliamento linguistico del nulla che connota una blatera ormai definitivamente priva di relazione con la vita, ma anche o soprattutto con la morte.

Io di questa potente macchina di insignificanza globale ne faccio parte a tutti gli effetti. E così, con la mestizia scanzonata di un'orchestrina nella sala da ballo del Titanic, ho voluto trarne le conseguenze più esplicite. Realizzando la mia personale collezione primavera-estate, la mia pisciatina su un paracarro senza polvere né agguato di trifoglio. Ma tanto trendy.

4 commenti:

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  2. Il senso di appartenenza è qualcosa di naturale e anche un blog va ad esaudire questo bisogno. Se poi la crew che ti segue può avere il suo segno distintivo: ben venga. La prossima volta pins a gogo.

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  3. caro carlo, mi sto convincendo che qualsiasi gesto, per avere carattere di continuatività, deve essere imboccato da un'ossessione, da una compulsione del sangue prima ancora che della testa. ognuno ha la sua ossessione, non è questo il punto. io temo di avere l'ossessione della "parola che rivela". credo insomma che ci siano ancora delle cosa da dire, pensieri e parole di interesse generale, per quanto suggeriti da circostanze spesso private, che in un modo o nell'altro possano e forse debbano essere espressi. così questo spazio regalato dal caso e dal tempo storico, mi è subito apparso come adeguato alla mia ossessione: nominare le cose del mondo, partendo dal mio mondo. solo in seguito mi sono accorto dello strano vento che tira da queste parti, una brezza che tutto uniforma e confonde. tanto che anche quel che "non si ha da dire" - ben diverso da quel che va taciuto - finisce con l'essere detto. sì, proprio come mirabilmente sintetizzava john cage: "non ho nulla da dire, e lo dico".

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  4. Credo invece che la continuatività possa essere semplice abitudine oppure piacere nel fare una determinata cosa.
    Vivere è un concetto fortunatamente molto esteso e la scrittura fa parte di esso, leggere è l'altra faccia della medaglia che si spera sempre possa essere rovesciata. Citando Calvino "Scrivere è sempre nascondere qualche cosa in modo che poi venga scoperto".

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