domenica 31 gennaio 2010

Paròl


Rileggevo questa mattina la parabola evangelica dei talenti, nella versione offerta da Matteo.
Per quasi tutti i teologi l'interpretazione di Matteo 25, 14-30 rappresenta uno dei passaggi più scabrosi. Frasi come "mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso", rimandano alla severa distanza di una divinità ancora veterotestamentaria. Perfino più problematica è l'invocazione a togliere a chi già poco possiede (un talento) per dare a chi dalla sorte ha ricevuto in abbondanza. Anche la benevolenza verso l'interesse bancario - "dovevi dunque portare il mio denaro dai banchieri; al mio ritorno avrei ritirato il mio con l'interesse" - potrebbe apparire in contrasto con altre parole pure presenti nei vangeli. Come quelle sulla difficoltà di un ricco ad entrare nel regno dei cieli - una probabilità pari a quella del passaggio di un cammello attraverso la cruna di un ago, come vuole un'errata traduzione. Il testo greco prevedrebbe infatti uno spesso cordame (kamilos), ma per assonanza si è giunti alla suggestiva immagine del cammello (kamelos).
Scorrendo dunque i versetti con le molte inevitabili incertezze, mi è però venuta in mente una circostanza che trovo indicativa. Nel tempo in cui Matteo incideva con pazienza le sue frasi su una pergamena non esisteva ancora il gioco poker!
Ok, sembra una boutade, una provocazione. Provo allora a spiegarmi meglio.
Nel poker è prevista una particolare regola che si chiama "paròl". Dal francese parole, significa semplicemente che si passa la parola agli avversari. Non si rilancia, non si vede. Piuttosto si propone di rinviare tutto alla mano successiva. Nella quale, dettaglio tecnico, per aprire è necessario versare un importo corrispondente a quello del piatto di paròl.
Bene, dal punto di vista da cui siamo partiti, cioè quello di una seppur eccentrica teologia, cosa potrebbe implicare tutto ciò?
La mano di paròl rappresenta un caso differente dal semplice seppellimento dei propri talenti, illustrato nella parabola. In tale eventualità l'omissione non avviene per mancanza di partecipazione al gioco, come appunto colui che si rifugi nella terra morbida della rinuncia, ma perché l'azzardo viene continuamente rimandato, differito fino al punto in cui la misura economica dell'impegno finisce coll'esorbitare la propria disponibilità.
Se ci riflettiamo un momento, è la scena di moderna e inattuata tragicità descritta da Beckett nel suo Aspettando Godot. L'illusione confortante di un eterno dopo, in cui redimere le miserie del presente, ricolmare per grazia le mancanze. In fondo una malintesa eredità proprio della promessa messianica, già frutto maturo dell'escatologia ebraica.
Oppure, nel quotidiano, la condizione di molti trenta e quarantenni, quando al matrimonio segue il presepe di una nuova famiglia, che gli brilla negli occhi come la cometa sopra ai muschi. Miei coetanei, uomini con cui fino al giorno prima ho scommesso la fiche di un sogno, acceso i lampioni del mondo e le luminarie della fantasia. Tutto spento, ora. Solo il fioco riverberare del presepe. Si sposano e smettono di andare a cinema, di leggere libri e giornali.
Ogni tanto qualcuno passa a trovarti perché, su internet, ha trovato un nuovo sito in cui viene esibita la carne della femmine, e ti propone ciò che chiamano una rimpatriata. Ma di quale "patria" stai parlando, scusa? Non hai capito che il tuo passaporto è già scaduto da un pezzo.
No, non stanno seppellendo i loro talenti, attenzione! Per questo facciamo fatica a interpretare lo spigoloso passaggio di Matteo. Stanno semplicemente chiamando paròl. Consegnando ai loro figli, agli eredi, alle future generazione, l'azzardo di una minima scommessa dentro a questo mondo.

sabato 30 gennaio 2010

Corona come Creonte, ma quale Antigone a rimboccarci il lenzuolo?


Matrix, Canale 5. Ieri sera era presente in studio Fabrizio Corona. O forse il suo intervento era registrato, non mi è del tutto chiaro, ho acceso il televisore a trasmissione già inoltrata. Nemmeno so chi sia l’attuale conduttore che ha sostituito Mentana alla guida del programma. L’orizzonte critico del mio intervento vuole dunque collocarsi a questo livello. Di pura manifestazione sensibile, evidenza palpabile.
Abbiamo così un giovane uomo piuttosto piacente, curato, elegante. Un’eleganza trasandata e quasi involontaria, quale è oggi diventata l’eleganza. Stava accovacciato su uno sgabello alto simile a quello di una vecchia falciatrice, il giovane uomo che cerca nervosamente di rendere conto a un intervistatore - assai ben disposto nei suoi confronti - delle azioni ma soprattutto dei retroscena di ciò per cui è stato incriminato. E per cui ha già scontato quasi cento giorni di carcere preventivo, dettaglio non privo di importanza.
Il fatto nudo e crudo è dunque questo. Fabrizio Corona offriva a personaggi pubblici, immortalati in momenti di varia e privata intimità, l’esclusiva di quegli scatti (ora non esistono più i negativi) a fronte di un consistente conguaglio economico. E fin qui i fatti sono fatti, e anche noti. I quali fatti si configurerebbero come reato d'estorsione, previsto dal codice penale, solo se fossero presenti i due elementi congiunti della minaccia, che si accompagni a una richiesta, e della sproporzione economica con l’oggetto, parametro quanto mai ambiguo.
La difesa di Fabrizio Corona è sempre stata nei seguenti termini: non vi è mai stata una minaccia nei confronti delle “vittime”, riprese a loro insaputa dai fotografi a cui si affidava. E con ciò viene liquidato il primo pilastro che tiene in piedi il castello teorico dell'estorsione. Relativamente al secondo punto, Corona assicura che la richiesta economica era commisurata al valore di mercato di quelle immagini, se le stesse fossero state offerte a riviste specializzate in gossip. Egli insomma rivendeva le immagini ai loro soggetti, come fanno sul lungo mare a Rimini o al Circo Americano, schiaffandoti un leoncino in braccio, le rivendeva ad un prezzo "congruo".
Io, Guido Hauser, lo affermo dunque senza tanti giri di parole. Credo nella versione di Fabrizio Corona. Non solo per quanto riguarda la ricostruzione esplicita dell'intera vicenda, ma anche in riferimento al contesto economico e sociale entro cui è necessario collocarla per poter essere giudicata con merito. Per tale ragione reputo i cento giorni di carcere preventivo una grave negligenza giudiziaria.
Detto ciò, non potrei essere più distante dal personaggio Corona. E non mi sto riferendo alla sua consueta tracotanza da bulletto di periferia. Questi sono aspetti secondari, che in una certa misura perfino riesco ad apprezzare - anche solo per formazione reattiva allo stomachevole conformismo, Corona non mi risulta per nulla ostile. La questione sta piuttosto nella legittimità pubblica di comportamenti che, dentro ciò che potremmo chiamare un tacito galateo dell’umano, non possono non apparire disgustosi. Per intenderci: Antigone non ha mai contestato la legge pubblica di Creonte, per quanto intimamente le fosse perfettamente estranea.
Allo stesso modo io trovo che il contesto giuridico in cui i fatti si sono svolti, senz’altro vede Fabrizio Corona nella parte della vittima; da un punto di vista tecnico legale i suoi non erano oggettivamente ricatti. Piuttosto delle offerte “commerciali” a interlocutori eccentrici alle consuetudini del mercato, diciamo così.
L’elemento di ripugnanza non va dunque ricercato all’interno dei confini di una legalità codificata - né tanto meno codificabile, temo - quanto in quella distanza incolmabile tra ordinamento pubblico e codici morali. O se preferiamo legge del libro e legge cardiaca, declinando nuovamente nella prospettiva di Antigone.
In un’ottica emozionale noi corrispondiamo infatti con la nostra immagine manifesta. Per alcune popolazioni la stessa ripresa cine-fotografica rappresenta un’intrusione all’interno dei sacri confini della soggettività, e con vigore provano ad opporsi agli scatti dei turisti, o agli insinuanti stratagemmi dei reporter. In determinati contesti antropologici si parla addirittura di “furto d’anima”. Senza addentrarci nella questione teologica su dove sia riposta l’anima, né se questa sia realmente sostanza, Fontana con soldino ha deciso di schierarsi al fianco di una posizione decisamente tradizionale: fotografare è rompere i coglioni, sempre e comunque.
Essere immortalati da una fotografia, come dice anche l’etimo del termine, significa infatti vedere una parte di noi sottratta alla morte, al fiume provvisorio e labile dell’apparire. Tanto che io come uomo, e cioè come “cadavere potenziale”, rivendico il diritto alla mortalità di ogni mia parte. A meno che sia io stesso l’artefice di una salvazione immaginale, cioè di una strategia della prosecuzione. Attraverso i miei testi, ad esempio. O affidando la mia re-esistenza alla memoria di quanto di buono e degno io cerchi di fare in questa vita.
Non sto dicendo, attenzione, che così è. Ma che molti uomini per bene avvertono questa stessa sensazione attraverso il loro cuore. Un senso di impotente spoliazione, che si accompagna alla spettacolarizzazione proditoria della propria immagine.
La mente ci dice però che Fabrizio Corona è innocente. E di questo non c’è dubbio, se le cose stanno come ora tutto sembra far credere. Ma ciò non l’assolve da un’onta umana persino più grave, che consiste appunto nell'aver sottratto alle persone il diritto alla peribilità dei loro più infimi gesti. Per vedersi poi offerto quello stesso diritto – “naturale” - per un pugno di denari. Al di là di una stracca recita dentro una prossemica da guappo, ecco dunque cosa ci fa probabilmente incazzare. La richiesta di qualcosa che nel profondo avvertiamo come dovuta.
Provando ad articolare meglio concettualmente, ciò comprende anche il diritto sull'ostensibilità del nostro corpo - quando si parla di diritto alla privacy si parla infatti di questo: sottrarre il corpo ad un'esibizione arbitraria. Quindi alla titolarità di una visione su noi stessi, alla formulazione di una memoria testamentale di quel che siamo stati, compreso il diritto all'oblio. Questioni e diritti decisivi, come ben si vede.
Eppure esiste una situazione analoga, ma ben più grave, che non suscita nessun clamore e nessuna indignazione. Probabilmente per via dell’assuefazione con cui l’osserviamo. Mi riferisco al sentimento altrettanto naturale di pietas, che all’interno della nostra tradizione culturale ci appare doveroso nei confronti di chi soffre. Pensiamo allora a una persona che si rechi in un ospedale pubblico per un sospetto e serio problema di salute. Deve probabilmente attendere alcuni mesi prima di essere visitata. Ma se decide di sottoporsi a una visita privata dallo stesso medico che avrebbe ritrovato mesi dopo, può essere ricevuta entro una manciata di ore. Tutto in regola, tutto conforme a leggi e postille del nostro diritto civile e penale.
Però Antigone ugualmente scalpita, e muove il suo indice contro il petto di Creonte. Perché in fin dei conti Fabrizio Corona si limitava a richiedere soldi a persone che, innanzitutto, ne disponevano, soldi ed agio in gran quantità. Quindi lo sfondo delle sue azioni era tutt’al più grottesco, un patetico teatrino tra mezze calzette che sgomitano per avere un posto in prima fila sul Titanic. Egli spettacolarizzava la salma di chi già si era immolato sopra alla pira dell’evidenza più corriva. Una commedia delle parti, insomma. Mentre nella sanità negata siamo di fronte a una scena tragica, drammatica non solo nella forme, nella delicatezza morale dei rapporti.
Ma perché, allora, i magistrati non decidono di arrestare preventivamente anche i primari delle cliniche convenzionate, i medici che richiedono oltre trecento euro per una visita privata. Anche qui siamo al cospetto di una discordanza tra legge del cuore e legge della città. Il professor Cesare Maffei, ad esempio. Primario di Psicologia clinica all’ospedale San Raffaele di Milano. Anni fa mi richiese oltre 250 euro per una chiacchierata di una cinquantina di minuti.
E’ giusto, è sbagliato?
Io non pretendo che il professor Maffei venga perseguito per questo, non è davvero il caso. Ma ciò che tengo a ribadire è che, da un punto di vista squisitamente giuridico, siamo di fronte a un caso perfettamente assimilabile a quello che vede coinvolto Fabrizio Corona. Entrambi richiedono alle persone un compenso spropositato per qualcosa che, intimamente, nelle corde più fonde del nostro sentire, ci appare come naturalmente legittimo: il diritto a vivere oppure a morire.
Ma forse questa disparità di giudizio è da mettere in relazione al fatto che il professor Maffei non ha il corpo cosparso dai tatuaggi, non impreca e spintona ma soprattutto non sta con Belen, sbaciucchiandola sulla prua di una Yacht che separa in due le onde come noci di cocco, una schiumina bianca e soffice a poppavia del jack. E’ una persona molto a modo, cordiale ed educata. Il professor Maffei. Educata e cordiale come lo era di certo anche Creonte. Un altro che pensava che il giusto corrisponde con la giustizia.
Noi abbiamo però deciso di stare dalla parte avversa a Creonte: contro Creonte, contro Corona ma pure contro Maffei. E contro tutti quelli che non solo non si prendono cura di noi, come pietà vorrebbe, ma nemmeno ci lasciano morire in santa pace. Con l’unica consolazione di Antigone, a rimboccarci il lenzuolo.

Parco I


E’ una delle torri di De Chirico, solamente rinnovata, aperta a pub sull’impianto dei campi da tennis. Torre forata, spalancata alla calura del pomeriggio, che lascia intravedere un interno di banchi-magneti e giovani littorine in gonnella di raso che si muovono in preparativi febbrili. Sul lastricato, senz’ombra, ne passa un’altra coi capelli annodati in un boccolo: la sua diagonale è la mossa dell’alfiere sulla scacchiera deserta.


Francesco Osti - da Itinerari, Stampa 2009 (in pubblicazione)

Francesco Osti


Fontana con soldino comincia oggi una collaborazione con il poeta valtellinese Francesco Osti. Nato a Morbegno nel 1976, da queste parti ancora bazzica impegnato in attività che qui rubricheremo alla voce "cazzi suoi". In una sezione specifica a lui dedicata verranno pubblicati estratti dal suo prossimo libro, in uscita con l'editore Stampa 2009 con il titolo Itinerari. Mentre per Lieto Colle, nel 2005, la precedente raccolta Errore di sintassi. Nel 2007 alcuni suoi testi sono stati inclusi nell'almanacco poetico mondadoriano dello Specchio. Svariate infine le collaborazioni con riviste di settore e non, tra cui il web magazine TellusFolio e il settimanale Specchio della Stampa. Siamo dunque felici di ospitare qui un poeta vero e potente, ma soprattutto un amico. Benvenuto anche al tuo soldino, Francesco!

mercoledì 27 gennaio 2010

Senza famiglia, o della scrittura e la comunità


Una riflessione veloce sul rapporto tra scrittura e comunità. Quando ero bambino, come credo quasi tutti i bambini della mia generazione, a Natale componevo una piccola poesia, che poi leggevo di fronte alla famiglia riunita. Essendo figlio unico la mia era ed è rimasta una piccola comunità. Allora composta dai quattro nonni più i miei due genitori, a quel tempo non ancora separati. Quindi tre cugini di primo grado e una selva di parenti di secondo e terzo grado; che però festeggiavano il Natale dentro altri presepi. Il pubblico naturale della mia poesia era dunque circoscritto dal cerchio di sangue di una ristretta genealogia, con ciò assicurando il successo alle mie performance poetiche.
Quanti anni avrò avuto allora: sette, otto, nove …? A dieci anni già ci si sente troppo vecchi, per questo genere di cose.
Adesso ho quarantatre anni. Quando qualcuno mi chiede cosa faccio nella vita, a volte, quasi distrattamente, rispondo: lo scrittore.
In effetti non è vero per nulla. L’ultima mia pubblicazione ufficiale risale a più di dieci anni fa, dopo di che mi sono perso dentro la vischiosa zanzariera dei giorni. Eppure, come insegnava Josip Brodskij, non si dovrebbe temere questi termini: scrittore, poeta. Perché non corrispondono necessariamente a una pratica effettiva, ma a qualcosa che potremmo provvisoriamente definire una disposizione, la postura civile di un'anima.
Provando a precisare meglio la suggestione da cui sono partito. Quando a sette, otto o nove anni componevo le poesie natalizie per la mia famiglia, non mi sarebbe mai venuto in mente di definirmi un poeta. E non tanto, o non solo, perché non conoscevo il significato puntuale o allargato del termine, ma perché i miei componimenti avevano un’unica finalità: essere amato e compreso da chi amavo e provavo a comprendere. I miei familiari. Anzi, meglio: prima compreso e quindi amato, perché l’amore autentico nasce dal gesto paziente e irrisolto dell’interpretazione.
Oggi, mercoledì 27 gennaio 2010, mi sono però accorto di una cosa interessante. Nessuno tra i mie familiari legge più le cose che scrivo. E non solo i miei genitori, intendo. Ma i parenti tutti, zii, cugini, nipoti, fino ai gradi più estremi.
Ora per molti questa constatazione potrebbe apparire come frustrante. Nemmeno la mamma, il papà. Nessuno. Per me invece è l’occasione per addentrarmi nel mistero semantico di un termine tra i più ambigui: scrittore.
Io penso, continuando a seguire il sottilissimo filo dei pensieri di Brodskij, che uno scrittore sia esattamente questo. Una persona che crede – né ha fiducia, forza e convinzione – che la parola sia una forma e un'energia che può, e in alcuni casi deve, uscire dal cerchio di sangue degli affetti familiari, per porsi infine dentro a una relazione civile col mondo.
Ma cosa significa, nuovamente, relazione civile?
A metà degli anni settanta Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli pubblicarono un’antologia poetica intitolata Il pubblico della poesia. Il loro intento, ironicamente polemico, era quello di insinuare il dubbio che la poesia contemporanea fosse letta ormai dagli stessi e soli poeti, nemmeno da tutti. Insomma, la mamma di Montale ora non leggerebbe più Ossi di seppia.
In questa malinconica constatazione è presente anche un elemento che potremmo però valutare come progressivo. Il fatto che una minuscola componente dell’umano ancora perseveri dentro un’attività a bassissimo grado di remuneratività sociale, diciamo così, è forse il segno più evidente che non tutto è perduto. Essere poeti per Brodskij, Berardinelli e Cordelli (la nostra piccola comunità nominale si sta infoltendo), consiste forse proprio in tale gesto: sottrarsi al facile consenso familiare, balzare fuori dal cerchio di sangue e dagli angusti confini di un presepe.
Il principio civile potremmo allora immaginarlo, come facevano gli antichi, nell’arduo sforzo di arrampicarsi sulle spalle di giganti, per guardare un poco più in là. Così nel momento in cui gli occhi e la voce del poeta guardano oltre l’orizzonte di una tradizione, prima domestica e poi più allargata, fatalmente devono anche rinunciare all’immediato riconoscimento della prima e più naturale comunità. La famiglia.
Il processo di civilizzazione di cui la parola si fa portatrice – e questa è una delle poche acquisizioni antropologiche certe, insieme alla “commensalità”, la condivisione di cibo, come scaturigine del principio di comunità - consiste dunque proprio nell’uscita dal banchetto familiare. Segnando a questo modo un discrimine con le comunità su base etnica, la tribù. Dove bambini già avvizziti ancora recitano la loro filastrocca dentro a un eterno pasteggiare assieme, assolti dal sorriso compiacente e implacabile di un nonno.
Da qui una nuova domanda. Come allora distinguere, in base a quale criterio formale o qualitativo, uno scrittore da una persona che, semplicemente, scrive?
Io credo che il discrimine, prima ancora che di merito o stilistico, stia proprio nella relazione comunicativa, che nella scrittura è sempre intenzionale - mentre parliamo sappiamo chi abbiamo di fronte, nella scrittura no. Quindi nel teatro mentale in cui si colloca l’autore; o se vogliamo, più pedantemente, nella scelta del suo “lettore implicito”, come viene definito dalla teoria narratologica. Se lo scrivente ha come riferimento la mamma, l’amico o la fidanzata che l’ha appena lasciato per lo stesso migliore amico, siamo insomma certi che questi non è uno scrittore. Ma uno che aspetti la fine del pranzo per avventarsi sul panettone.
Eppure anche la parola privata, la parola familiare, rappresenta uno sforzo e un’attività che non va sminuita né sottovalutata. Semplicemente va riconsegnata a un giudizio intimo e privato, ossia a un'ermeneutica degli affetti.
Per concludere, io ho una cugina molto simpatica e anche intelligente. Di lavoro disegna vestiti; o come si dice da qualche decennio: fa la stilista. Nei giorni scorsi mi è arrivato un invito alla presentazione della nuova collezione della mia cugina stilista. Non ci andrò, naturalmente. E non tanto perché personalmente trovo incomprensibili e aliene quelle fogge, ma perché mia cugina è una sarta vera; cioè appunto come mi correggerebbe lei: una stilista. Quella è la sua professione, il suo talento personale e dunque il suo posto dentro al mondo. Non credo che abbia bisogno della mia claque familiare, il cuginetto commosso all’orlo del suo festoso presepe di strasse.
Allo stesso modo mi sono accorto che non è tanto importante nemmeno che mia cugina stilista sia ancora sottoposta, in un indeterminato tempo supplementare dell'infanzia, al supplizio delle mie poesie natalizie. Tessendo i fili e le trame dentro alla sua sartoria mentale, cucendo aggettivi e interpunzioni in quel lavoraccio che scarichiamo sul lettore: interpretare e ancora interpretare. Perché noi ora siamo grandi, siamo adulti. E siamo soprattutto una sarta, o meglio una stilista, e uno scrittore. Abbiamo così il diritto e il dovere di reclamare quel poco di attenzione e di amore - di interpretazione - che ci spetta come donne e uomini che inseguono lo scodinzolio di una cometa, anche e in primo luogo lontani dal branco, dal clan, e dalla soffocante puzzetta di DNA.
Sì, siano benedetti ma anche maledetti i tempi in cui mi arrampicavo sulla poltrona broccata del soggiorno, prima di attaccare con: Cara mamma, care nonne …

giovedì 21 gennaio 2010

Un pò bastarda dentro e molto fuori

"odio ipocrisia e falsità, sono sincera e diretta, un pò bastarda dentro e molto fuori, disarmante ma dolce e sensibile, che dire...uno spettacolo della natura...il mio uomo ideale deve darmi l'emozione in un sorriso, quindi chi è senza denti vada pure prima dal dentista.
sono appassionata di sport ( W MILAN ), moto ( la mia DUCATI MONSTER 696) e auto, ricamo e uncinetto non fanno per me.
sono molto alta, astenersi i piccoletti i fumatori e gli psicanalisti fai da te che vogliono insegnarti come si vive la vita...sorry.
disarmante_67 - 42 anni - Treviso - Veneto"

martedì 19 gennaio 2010

Bettino Craxi, o della verità che ha sempre due facce


Nella trasmissione di Gad Lerner L’infedele, lunedì diciotto gennaio si rifletteva intorno al decennale della morte di Bettino Craxi. In studio, tra gli altri, Michele Serra. Che sul finale della puntata ha buttato lì una cosa a mio avviso decisiva. Craxi aveva storicamente ragione, dice Michele Serra. Il suo errore è stato nell’uso politico di questa ragione storica. In particolare nel rapporto con gli altri partiti che rappresentavano l’elettorato di sinistra dentro le istituzioni. Prima di tutti il Partito comunista italiano, almeno per peso elettorale.
Peccato che in studio nessuno abbia colto la portata eversiva di questo pensiero. E non tanto perché Serra, a suo modo, cioè per traiettorie defilate e autonome, si è trovato nel passato vicino alle posizioni del PCI; cioè a chi per sua ammissione flirtava con "l’errore”. L’interesse della sua affermazione riguarda piuttosto il terreno vago tra astrazione e comportamenti reali, più spesso indagato dalla filosofia. Infatti se esiste un modo sbagliato di stare dentro al vero, dobbiamo anche ipotizzare che la verità non si offra solamente come condizione statica– è vero ciò che è vero – ma anche come processo, come edificio precario e sempre in costruzione.
Provando a definire ancora meglio questo passaggio delicato, potremmo figurarci qualcosa come una verità sdoppiata: ontologica e processuale. Due facce di un'unica moneta che non sempre, non necessariamente, convergono dentro la manifestazione sensibile. O detta diversamente, ciò che chiamiamo verità mondana o civile è l'effetto dell'incontro tra un'idea e una pratica di attuazione, la quale non è affatto neutra. Da ciò si ricava che il fine da solo NON giustifica i mezzi, ma sono gli stessi mezzi a dover giustificare il loro fine.
Torniamo allora a Bettino Craxi. Seguendo l’intuizione di Serra egli si è trovato a incarnare, per eredità storica ma anche vocazione, proprio quello che qui abbiamo chiamato una verità di stato. La cultura riformista che si definisce nella scissione di Livorno è cioè quel pensiero politico che intuisce nel massimalismo rivoluzionario, nei fatti come anche in nuce, una vocazione totalitaria, con ciò antiumana. La verità stabile a cui si riferisce Serra è dunque l’umanesimo, a cui è tenuta la politica come sua missione veritativa: inaugurare la pienezza dell’umano dentro l'esperienza di libertà, giustizia, uguaglianza e aggiungiamo anche piacere. Mentre la fraternità, come declinazione laica dell'amore, rimane una categoria teologica, non politica. Cioè dogma di fede o tutt'al più precetto morale.
Ma se la prospettiva umanistica viene spesa dentro la contesa elettorale per rafforzare posizioni di parte, privilegi personali e addirittura ricchezze private, questa verità ideale si converte quasi paradossalmente nel suo opposto, trasformandosi in errore.
Una verità sbagliata, come è possibile?!
Come effetto appunto del processo concreto di realizzazione, che è invischiato nell’opacità sempre imperfetta del fare, gli umori instabili degli uomini, con le loro passioni come oscillanti barchette alla deriva. Anche la verità cade in errore, sì, quando esce dal porto calmo delle idee. E sono le risposte sbagliate alle domande giuste.
Da questa premessa, per opposizione al PSI di Bettino Craxi, possiamo allora ricavare che il PCI di Berlinguer peccava di un errore speculare. Offrendo una risposta giusta, l'etica della prassi, a una domanda sbagliata: la collettivizzazione dei mezzi di produzione e di scambio, almeno tacitamente mai smentita quale orizzonte finale.
Fontana con soldino si sente dunque in piena sintonia con il fulminante giudizio di Michele Serra. Come bilancio sull’alterna vicenda craxiana, intanto. E sarà compito degli storici pesare la misura di verità e di errore, di luci e di ombre della sua segreteria a cavallo degli anni ottanta. Ma anche come sguardo complessivo sulle cose del mondo. Convinti che esistono pochi elementi stabili di verità, molto da costruire e che facendo si può sbagliare.
Eppure l’agire che abbia la verità almeno come sua intenzione, anche quando fallisce possiede una sorta di primato sulla pigrizia lagnosa, l’inedia polemica e il conformismo distratto.Una sorta di dominio trinitario e complice della vanità.
Non siamo certi che sia il caso di Bettino Craxi, ma per la simpatia istintiva che ci suggerisce la sua parabola umana – ogni totem gettato nella polvere contiene almeno una scheggia di autentico, che oscura il tintinnio scrosciante delle monete dei lapidatori, monete a una sola faccia ... - ci viene da concludere con un celebre verso di Ezra Pound: “Ma aver fatto in luogo di non avere fatto \ questa non è vanità”.

venerdì 15 gennaio 2010

Lei è un cretino, si informi!


Un'intuizione. Questa mattina, al risveglio. Di più: un'illuminazione! Che come tutti i momenti di autentica ispirazione spirituale ha un nume. Totò. "E' la somma che fa il totale", recitava Totò. E' l'accumularsi delle infinite omissioni cognitive che fa un cretino. Che ci costituisce come cretini, meglio. Il cretino non è meno dotato dell'intelligente. Anzi, più spesso lo esorbita in efficienza, che è pigrizia a un altissimo grado di redditività sociale. E il cretino è essenzialmente questo: pigro. Frequenta scale mobili, ascensori, perfino ovovie che gli ricordano la mamma. Cioè la chioccia, la pappa. Cucchiaiate di omogenizzati predigeriti dai succhi gastrici del consenso. Questo suggeriva la mia illuminazione mattutina. Forzare il pensiero dentro la misura precaria di una forma. Inutile, costoso. Almeno per il cretino che accumula scorciatoie. Quelli che scrivono "xché" invece di perché. E' un sintomo, attenzione! Da qualche parte sta capitalizzando un cretino. Xché è la somma a fare il totale. No, è la somma che fa la differenza. Il risultato tende allo zero.