mercoledì 27 gennaio 2010

Senza famiglia, o della scrittura e la comunità


Una riflessione veloce sul rapporto tra scrittura e comunità. Quando ero bambino, come credo quasi tutti i bambini della mia generazione, a Natale componevo una piccola poesia, che poi leggevo di fronte alla famiglia riunita. Essendo figlio unico la mia era ed è rimasta una piccola comunità. Allora composta dai quattro nonni più i miei due genitori, a quel tempo non ancora separati. Quindi tre cugini di primo grado e una selva di parenti di secondo e terzo grado; che però festeggiavano il Natale dentro altri presepi. Il pubblico naturale della mia poesia era dunque circoscritto dal cerchio di sangue di una ristretta genealogia, con ciò assicurando il successo alle mie performance poetiche.
Quanti anni avrò avuto allora: sette, otto, nove …? A dieci anni già ci si sente troppo vecchi, per questo genere di cose.
Adesso ho quarantatre anni. Quando qualcuno mi chiede cosa faccio nella vita, a volte, quasi distrattamente, rispondo: lo scrittore.
In effetti non è vero per nulla. L’ultima mia pubblicazione ufficiale risale a più di dieci anni fa, dopo di che mi sono perso dentro la vischiosa zanzariera dei giorni. Eppure, come insegnava Josip Brodskij, non si dovrebbe temere questi termini: scrittore, poeta. Perché non corrispondono necessariamente a una pratica effettiva, ma a qualcosa che potremmo provvisoriamente definire una disposizione, la postura civile di un'anima.
Provando a precisare meglio la suggestione da cui sono partito. Quando a sette, otto o nove anni componevo le poesie natalizie per la mia famiglia, non mi sarebbe mai venuto in mente di definirmi un poeta. E non tanto, o non solo, perché non conoscevo il significato puntuale o allargato del termine, ma perché i miei componimenti avevano un’unica finalità: essere amato e compreso da chi amavo e provavo a comprendere. I miei familiari. Anzi, meglio: prima compreso e quindi amato, perché l’amore autentico nasce dal gesto paziente e irrisolto dell’interpretazione.
Oggi, mercoledì 27 gennaio 2010, mi sono però accorto di una cosa interessante. Nessuno tra i mie familiari legge più le cose che scrivo. E non solo i miei genitori, intendo. Ma i parenti tutti, zii, cugini, nipoti, fino ai gradi più estremi.
Ora per molti questa constatazione potrebbe apparire come frustrante. Nemmeno la mamma, il papà. Nessuno. Per me invece è l’occasione per addentrarmi nel mistero semantico di un termine tra i più ambigui: scrittore.
Io penso, continuando a seguire il sottilissimo filo dei pensieri di Brodskij, che uno scrittore sia esattamente questo. Una persona che crede – né ha fiducia, forza e convinzione – che la parola sia una forma e un'energia che può, e in alcuni casi deve, uscire dal cerchio di sangue degli affetti familiari, per porsi infine dentro a una relazione civile col mondo.
Ma cosa significa, nuovamente, relazione civile?
A metà degli anni settanta Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli pubblicarono un’antologia poetica intitolata Il pubblico della poesia. Il loro intento, ironicamente polemico, era quello di insinuare il dubbio che la poesia contemporanea fosse letta ormai dagli stessi e soli poeti, nemmeno da tutti. Insomma, la mamma di Montale ora non leggerebbe più Ossi di seppia.
In questa malinconica constatazione è presente anche un elemento che potremmo però valutare come progressivo. Il fatto che una minuscola componente dell’umano ancora perseveri dentro un’attività a bassissimo grado di remuneratività sociale, diciamo così, è forse il segno più evidente che non tutto è perduto. Essere poeti per Brodskij, Berardinelli e Cordelli (la nostra piccola comunità nominale si sta infoltendo), consiste forse proprio in tale gesto: sottrarsi al facile consenso familiare, balzare fuori dal cerchio di sangue e dagli angusti confini di un presepe.
Il principio civile potremmo allora immaginarlo, come facevano gli antichi, nell’arduo sforzo di arrampicarsi sulle spalle di giganti, per guardare un poco più in là. Così nel momento in cui gli occhi e la voce del poeta guardano oltre l’orizzonte di una tradizione, prima domestica e poi più allargata, fatalmente devono anche rinunciare all’immediato riconoscimento della prima e più naturale comunità. La famiglia.
Il processo di civilizzazione di cui la parola si fa portatrice – e questa è una delle poche acquisizioni antropologiche certe, insieme alla “commensalità”, la condivisione di cibo, come scaturigine del principio di comunità - consiste dunque proprio nell’uscita dal banchetto familiare. Segnando a questo modo un discrimine con le comunità su base etnica, la tribù. Dove bambini già avvizziti ancora recitano la loro filastrocca dentro a un eterno pasteggiare assieme, assolti dal sorriso compiacente e implacabile di un nonno.
Da qui una nuova domanda. Come allora distinguere, in base a quale criterio formale o qualitativo, uno scrittore da una persona che, semplicemente, scrive?
Io credo che il discrimine, prima ancora che di merito o stilistico, stia proprio nella relazione comunicativa, che nella scrittura è sempre intenzionale - mentre parliamo sappiamo chi abbiamo di fronte, nella scrittura no. Quindi nel teatro mentale in cui si colloca l’autore; o se vogliamo, più pedantemente, nella scelta del suo “lettore implicito”, come viene definito dalla teoria narratologica. Se lo scrivente ha come riferimento la mamma, l’amico o la fidanzata che l’ha appena lasciato per lo stesso migliore amico, siamo insomma certi che questi non è uno scrittore. Ma uno che aspetti la fine del pranzo per avventarsi sul panettone.
Eppure anche la parola privata, la parola familiare, rappresenta uno sforzo e un’attività che non va sminuita né sottovalutata. Semplicemente va riconsegnata a un giudizio intimo e privato, ossia a un'ermeneutica degli affetti.
Per concludere, io ho una cugina molto simpatica e anche intelligente. Di lavoro disegna vestiti; o come si dice da qualche decennio: fa la stilista. Nei giorni scorsi mi è arrivato un invito alla presentazione della nuova collezione della mia cugina stilista. Non ci andrò, naturalmente. E non tanto perché personalmente trovo incomprensibili e aliene quelle fogge, ma perché mia cugina è una sarta vera; cioè appunto come mi correggerebbe lei: una stilista. Quella è la sua professione, il suo talento personale e dunque il suo posto dentro al mondo. Non credo che abbia bisogno della mia claque familiare, il cuginetto commosso all’orlo del suo festoso presepe di strasse.
Allo stesso modo mi sono accorto che non è tanto importante nemmeno che mia cugina stilista sia ancora sottoposta, in un indeterminato tempo supplementare dell'infanzia, al supplizio delle mie poesie natalizie. Tessendo i fili e le trame dentro alla sua sartoria mentale, cucendo aggettivi e interpunzioni in quel lavoraccio che scarichiamo sul lettore: interpretare e ancora interpretare. Perché noi ora siamo grandi, siamo adulti. E siamo soprattutto una sarta, o meglio una stilista, e uno scrittore. Abbiamo così il diritto e il dovere di reclamare quel poco di attenzione e di amore - di interpretazione - che ci spetta come donne e uomini che inseguono lo scodinzolio di una cometa, anche e in primo luogo lontani dal branco, dal clan, e dalla soffocante puzzetta di DNA.
Sì, siano benedetti ma anche maledetti i tempi in cui mi arrampicavo sulla poltrona broccata del soggiorno, prima di attaccare con: Cara mamma, care nonne …

2 commenti:

  1. caro hauser, non è vero che nessuno dei tuoi familiari ti legge piu'. io, per esempio, che sono tuo cugino di primo grado, non mi perdo una sillaba. E sono dieci anni che aspetto con ansia che pubblichi qualcosa.

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  2. caro anonimo, come vedi anche io qui sono sotto falso nome. o meglio mi sono dato un battesimo diverso da quello del "sangue", alla maniera di kaspar hauser. che può uscire da una cantina, una caverna, un cavolo di luogo angusto e buio dove aveva vissuto fino quasi alla maturità biologica, solo grazie al tardivo apprendistato ad una lingua. l'alfabeto come determinazione non solo degli oggetti, dunque, ma anche e soprattutto di sé. tu che mi hai conosciuto e frequentato quando ancora mi arrampicavo sulle poltrone broccate, per sventolare le mie banalità poetiche alla minuta platea dei nonni (il nonno cechin di solito già dormiva, dopo le prime sillabe), sai però che a queste considerazioni sono arrivato molto tardi, e per le vie abbreviate del cinema. troppo pigro e troppo invischiato negli anni ottanta per leggere feuerbach, me la sono cavata con un paio di orette di herzog. e così tutta la mia vita: scorciatoie, suggestioni. anche in questo ultimo testo quasi familiare. chi è che dice io: guido hauser, guido bussoli…? o forse a parlare è “il poeta”, come diceva pessoa. il poeta che è per definizione è un fingitore. il fatto che tu abbia commentato il mio intervento dopo nemmeno 10 minuti dal momento della sua pubblicazione (e considerando almeno 5 minuti per la lettura) è infatti la più sonora smentita della sue premesse. eppure, nella sua misura ormai chiaramente e solo di "fiction biografica", mi pare che non tutto sia da buttare. che la falsificazione della mia vicenda personale sia stata uno stratagemma per accostarmi a qualcosa come un timido principio di verità, se così posso dire. ringraziandoti per il tuo affetto e per la tua attenzione, caro anonimo familiare, concedimi dunque le attenuanti di una sorta di galateo teatrale. cosa non si fa per strappare un applauso al vasto mondo, esaurito il tempo troppo breve dei nonni … (con affetto, guido. guido bussoli questa volta)

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