martedì 12 agosto 2025

Sacra famiglia (mi ricordo 43)

 


Mi ricordo di Erminia, un’amica della nonna. È uno dei primi ricordi – avrò avuto quattro anni, forse meno –, la sensazione del mio corpo minuscolo tra i loro corpi giganteschi, umidi dopo essersi lavate per somme porzioni nel catino; e sì che nel bagno era presente la vasca, da riservare però ai giorni festivi. Si distinguevano dagli altri perché, oltre a lavarsi nella vasca, il nonno si radeva e metteva l'Acqua Velva, la nonna indossava il foulard e le scarpe con un accenno di tacco. Al termine dei preparativi io e lei andavano in una chiesetta dalla spigolosa architettura modernista (il nonno si era specializzato in funerali, varcava il portale della chiesa solamente se moriva qualcuno), dove, in ampio anticipo sull'happy hour, veniva offerto un dischetto di farina sfoglia mescolata ad acqua, niente sale, zucchero o spezie, quindi cotta per bene e posata sulla lingua, che nel frattempo veniva sporta come nelle linguacce dal lunotto posteriore dell'auto di papà, da alternare ai saluti riservati a chi aveva una faccia simpatica. Solamente il prete poteva toccare i dischetti con le mani, avevano la dimensione dei gettoni dell'autoscontro, agli altri non era concesso; pare che la farina fosse solo un travestimento, in realtà era anche quello un corpo: il prete non poteva toccare il corpo degli uomini e, soprattutto, delle donne, ma nel caso del corpo di Cristo si faceva un'eccezione. Mi sembra un compromesso ragionevole. Problema che io non avevo: venivo toccato, vestito, tirato a lucido alla maniera del Cicciobello di mia cugina, specie quando mi sporgevo nel trogolo per parlare con il maiale o mi arrampicavo sul fienile, e prima di dormire posato proprio nel mezzo del lettone in noce, mia nonna da una parte ed Erminia dall'altra. Sentivo le mani callose che mi rimboccavano le coperte, il tepore di pance tornite dalla polenta più che dagli addominali, a ogni minimo movimento era il frusciare dei sottanoni bianchi, da cui di tanto in tanto sfiatavano delle puzzette, non so se fosse la nonna oppure Erminia. O forse si trattava dell'odore che solo i bambini riconoscono, lo chiamano vecchiaia; immagino che se un bambino mi annusasse oggi avvertirebbe lo stesso odore. Poi l'esperienza si è ripetuta, e non posso dire con certezza a quale sera si riferisca il ricordo; probabilmente a tutte quante assemblate in un unico prodotto psichico, in fondo la memoria somiglia al montaggio nel cinema. Erminia passava a trovare la nonna non troppo spesso, le facevano male i piedi e ciò nonostante si rifiutava di prendere la corriera; ma neppure si trattava di un evento eccezionale, diciamo una via di mezzo. Il nonno le cedeva volentieri il suo posto nel letto, dove io venivo incorporato mentre i miei genitori potevano tornare alla vita che mi precede: si cenava comunque a casa per risparmiare sul modesto stipendio da maestri elementari, seguiva un film che è quanto passava il convento – escludendo la sala della parrocchia dove la programmazione era dedicata ai ragazzi (più che altro cartoni animati e film con Franco e Ciccio), rimaneva il Cinema Teatro Pedretti. Allo spegnersi dei grandi lampadari Art Déco il buio era davvero pesto, per trovare una poltroncina libera, a quel punto, bisognava essere accompagnati dalla maschera, aveva il ruolo di Caronte in un mondo di ombre. Ma l'eterna lotta tra luce e tenebra vedeva una rimonta della luce a partire dal foro della cabina di proiezione, piccola piccola all'inizio, ma dopo essersi fatta largo e cioè letteralmente slargata nella fitta nebbia di MS e Marlboro, si schiantava contro il telone per diventare Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospettoPiccolo grande uomoIl giardino dei Finzi Contini, tutti usciti nel 1970 come la Fiat 128. Poi, mamma e papà, di nuovo a casa per una scopatina. Intanto, mentre il nonno già ronfava nella cameretta e io mi sforzavo per non fare lo stesso, Erminia e la nonna parlavano, parlavano, non la smettevano più anche una volta spenta l'abat-jour. Ciò che non mi tornava era il senso delle frasi sempre uguali, seguivano ai pettegolezzi che, dopo un gesto compiuto da entrambe in sincronia, a collegare con la mano destra la fronte, il petto e le spalle in rigorosa sequenza, riprendevano. Retrospettivamente, scommetterei che ci fosse di nuovo lo zampino della religione... Ma per quel che ne sapevo avrebbero potuto essere invocazioni a qualche divinità precolombiana, Hun-Hunahpu ad esempio: mia nonna, Erminia, Hun-Hunahpu e io – perché no? Nel tempo in cui tutto era ancora possibile la nozione di assurdo non esiste. Erminia arrivava a passi lenti, ne riconoscevo la sagoma scura e leggermente ricurva già all’inizio della strada sterrata che portava a Busteggia. Lo stradino la pettinava una volta la settimana con un rastrello di metallo dalla dentatura fine, un lavoro che mi appariva più che altro un hobby; la vera attività, avrei giurato, era fumare il sigaro. Già ad accenderlo, un sigaro del tipo toscano, ci voleva dedizione e pazienza e fiammiferi di legno, ma dopo un paio di boccate lo stradino lo spegneva e infilava nella tasca del gilet, per ripescarlo, assestati pochi colpi di rastrello, avvicinare la fiamma alla punta annerita e così via. La nonna dava da mangiare ai conigli e chiudeva le galline nel pollaio, il nonno terminava di mungere le mucche, io non sapevo ancora leggere e così non avevo neppure quella rottura di coglioni, solo guardarmi in giro, guardare ogni cosa incomprensibile e ogni cosa era incomprensibile e giusta, senza bisogno di sfidarla con la fionda del concetto. Infine una scodella colma di riso e latte che anticipava quel calore, quelle puzzette, quei Pater Noster. Se penso a un’immagine che riassuma l'espressione Sacra Famiglia, che poi non è nient'altro che una famiglia allargata, è questa qui.

lunedì 11 agosto 2025

Sublimazioni (mi ricordo 42)

Mi ricordo che a Sondrio, intorno alla metà degli anni Settanta, i cuccioli di un boom ormai in disarmo si diedero in massa al pattinaggio; le ruote erano ancora affiancate come nel pianale delle automobili, non in linea al modo dei pattini attuali. Il merito andava a un uomo di nome Vannuccini. Aveva fondato l’associazione sportiva ASPAR (Associazione Sondriese Pattinaggio A Rotelle) con sede al Bar Linda, una ex prostituta che con i soldi dei camionisti si era rifatta una vita: invece del suo corpo smerciava ora Biancosarti e ghiaccioli rossi rossi, l'immagine degli astronauti impressa sulla busta. Gli allenamenti si tenevano nella nuova pista in conglomerato bituminoso del Centro Sportivo, proprio sotto casa mia. Sulle panchine di fronte all'ovale, oltre le transenne tubolari che lo circoscrivevano, le figlie degli immigrati meridionali di via Maffei osservavano i giovani atleti, avevano portato un piccolo registratore con cui ascoltavano Ma Baker dei Boney M. Iscrivermi all’ASPAR fu un atto quasi dovuto.

Di Vannuccini non si sapeva molto; di certo non era originario di queste parti, sulla guida del telefono il suo cognome risultava essere l’unico in provincia. Anche l’età era indefinita, per quanto a me paresse vecchio, ma avevo otto anni e un ventenne era già un uomo maturo. Poi però cominciò ad apparirmi un po’ meno vecchio, il riporto con cui celava la calvizie era diventato un’acconciatura come un’altra. Vannuccini ha detto questo, esordivo quando rientravo a casa dopo avere arrancato per due ore sui miei pattini Valsport – la cosa più difficile da imparare fu il passo incrociato da eseguire in curva –, Vannuccini ha detto quest’altro… Al punto che i miei genitori cominciarono a chiamarmi Vannuccinetto, me lo ripetevano per burla ogni volta che celebravo il mio mentore. Quanto mi facevano incazzare!

Uno psicanalista non ci avrebbe messo molto a capire che Vannuccini era diventato un surrogato eroico della figura paterna, e come in tutte le forme di innamoramento (non ricambiato) solo il tempo avrebbe fatto sedimentare la polverina magica, lasciando spazio ai nuovi travestimenti di Zeus e Afrodite. D'altronde lo dice pure la canzone: la stagione dell'amore viene e va. Ma prima deve raggiungere un climax.

L’occasione si presentò al termine di una gara. I miei risultati agonistici non erano certo memorabili, ma quella volta, eravamo in trasferta a Livigno, mi trovavo al primo posto. Uno o due passi spinta dietro mi tallonava un certo Mirco, l’anno precedente aveva guadagnato il titolo di campione italiano di categoria, le sue gambe parevano due prosciutti di cinghiale. Vai vai… che poi quando voglio ti passo, avrà pensato Mirco, lasciamolo divertire ancora un po’. Ma non ci fu bisogno perché feci tutto da solo: mi scomposi quando vidi sull'asfalto una vipera già morta, e ruzzolai a terra per lo spavento. Dai, riparti! mi gridava Vannuccini sbracciandosi dal traguardo, ma a me faceva male il polso sinistro.

Al ritorno non stavo come al solito sul pullmino, ero seduto sul sedile posteriore della Simca di Vannuccini; un privilegio, di norma, riservato a Mirco e pochi altri. Forse fu una compensazione per la brutta caduta, ora il polso si era gonfiato e cominciava a pulsare. A un certo punto il nostro presidente, preparatore atletico, allenatore, conducente, Vannucini faceva davvero tutto all'interno della sua ASPAR, a un certo punto accostò, scese e senza fornire spiegazioni cominciò a pisciare. Da dentro lo osservavamo concentrati, teneva le mani posate sui fianchi alla maniera di Mussolini nei discorsi dal balcone di Palazzo Venezia, immaginavamo il sollievo dipinto sul suo volto, ricambiato dai trifogli al bordo della strada che conduce al passo della Forcola. Ma soprattutto ne immaginavamo il cazzo, a giudicare dal poderoso getto di piscio doveva essere enorme, un idrante che irrora il mondo donandogli la sua benedizione.

Al termine Vannuccini si diede una bella scrollata, e dopo avere richiuso la cerniera dei pantaloni salì in macchina e ripartimmo verso Sondrio. Il giorno successivo il medico mi disse che era meglio fare delle lastre al polso, dalle quali risultò che l’ulna era integra ma il radio incrinato. Due giorni di ospedale e quaranta di gesso, su cui i miei compagni di classe depositarono la firma con un pennarello chiamato Super Pirat; qualche scemo che aggiunge delle porcherie si trova sempre, ma la seconda punta del Super Pirat consentiva di cancellare. Di notte attenuavo il prurito con un lungo ferro da maglia.

Quando il gesso fu rimosso con un forbicione simile a quello con cui viene sventrato il pollo allo spiedo, il giorno stesso mi iscrissi alla Sondrio Sportiva di pallacanestro. La voglia di pattinare era scomparsa così come era venuta. Certo, in quei quaranta giorni Vannuccini avrebbe potuto telefonarmi a casa  una cavolo di telefonata per sapere come stavo, cosa gli costava? Se il telefono fosse stato occupato dalla moglie poteva sempre chiamare dal Bar Linda. Ma si sa che gli innamorati sono fatti così: un po’ permalosi. E gli amati distratti.

sabato 9 agosto 2025

Smemoriale d'amore (mi ricordo 41)

Mi ricordo la prima volta che scopammo solo perché era la prima volta che scopavo, tu mi chiedesti all'improvviso: Cos'è questo?

Avevo dimenticato dentro al letto uno dei due grossi tomi del Devoto Oli.

Ci urtammo contro nel rotolare avvinghiati, incastrati come fanno i cani e i cristiani – il cuore batte forte, sudore, l'estate al suo culmine. Lo schizzo di sperma arrivò rapido e intenso, con l'impazienza degli esordi. Uno scarabocchio vischioso simile allo sbavo della penna stilografica. La tua pancia era la paginaCon un dito sistemasti la calligrafia, per poi infilarlo in bocca.

Sa di tappo, concludesti mimando l'espressione austera dei sommelier. Come mai dormi con il dizionario?

Non ti risposi. Chissà che parola avevo ricercato prima di abbordarti al bar della discoteca di un albergo – noi ci andavamo solo perché li soggiornavano le ginnaste , poteva essere apotropaico o ipallage o catafratto... Una di queste parole difficili che trascrivevo su un quadernetto viola.

In seguito dimenticasti tu qualche cosa nel mio letto. Una catenella d'argento, la tenevi legata alla caviglia sinistra. Mi suonasti al citofono dopo l'allenamento, non mi aspettavo di risentire la tua voce, hai mica trovato una catenella? Ma si sa come vanno certe cose... e diventò la seconda volta che scopavo.

Devo ricordarmi di prendere un dizionario.

Me lo dicesti, distrattamente, la terza volta, tra una Muratti Ambassador e l'altra. Io fumavo Chesterfield ma più che altro perché mi piaceva il pacchetto. Forse volevi stabilire un'alleanza provvisoria, un ponte di barche. Basta una piena del fiume per spazzarlo via.

Non potrei vivere senza dizionario, te lo confidai per telefono dopo più di sei mesi che non toccavo sigarette. Mi piaceva usare parole difficili, per descrivere la tua carnagione usavo l'aggettivo eburnea, oppure lattescente, nivea, sfoggiavo le parole del quadernetto viola parlando coi miei amici. Ma questo non te lo dissi.

Nemmeno che mi stavo innamorando di te.

Avevo smesso di fumare quando eri tornata ad Arezzo da un marito che c'era e non c'era, non ho mai capito bene ma meglio non indagare. Venisti ancora due o tre fine settimana e per le vacanze di Pasqua. Piovve tutto il tempo occupato a scopare, l'abbiamo fatto tantissime volte, ormai ho perso il conto. Se lo chiedevo a te rispondevi non ricordo.

Lontani ci spedivamo lettere, fotografie. In una Polaroid stavi in Svizzera, potevi avere quattordici anni, massimo quindici, i lunghi capelli neri strozzati dalla coda di cavallo. Con lo stesso dito che aveva toccato il mio seme sfioravi una rosa rossa – la tinta ora è un po' sbiadita – dentro a un giardino ugualmente sbiadito. 

Non avevo mai contemplato la possibilità che in Svizzera esistessero dei giardini, tantomeno rose rosse. 

Poi arrivò la piena del fiume, in fondo era prevedibile. Ti tagliasti i capelli da sola, alla Valentina di Crepax aggiungesti con tono vezzoso, mentre io lasciai crescere i baffi, mi facevano somigliare ad Alan Sorrenti. Smisi anche di scopare, con la mia nuova fidanzata lo chiamavamo fare all'amore. 

Oggi ho cercato il significato del termine ipallage che mi ero di nuovo scordato. Adesso si fa in fretta, al posto del Devoto Oli c'è l'intelligenza artificiale. Potrebbe dirmi, perfino, dove si trova la tua tomba, il Cimitero Urbano di Arezzo è grande. Ma dovrei fare come Pollicino per ritrovare la via del ritorno.

Avevamo una memoria disastrosa, e tu capelli bellissimi.

venerdì 8 agosto 2025

Un uomo buono (mi ricordo 40)

Mi ricordo di un R5 blu acquistata di seconda mano. Aveva solo un difetto, che mi ripromettevo sempre di sistemare: la portiera anteriore, lato passeggero, si apriva solamente dall’esterno. Quando viaggiavo con qualcuno a ogni sosta dovevo scendere, fare un mezzo giro dell’auto, quindi aprire per poter consentire l’uscita a chi mi accompagnava. Nemmeno troppo sforzo, e così continuavo a rimandare.

Una notte stavo tornando da Milano con un amico, eravamo partiti dopo avere assistito al concerto dei Calibro 35. Poco prima di Monza, nel piazzale di un distributore Esso deserto, intravediamo una ragazza di colore. Il volto è solo parzialmente illuminato dall'insegna al neon con i colori della Francia, mentre la schiena, rivestita da un giaccone fucsia, riflette le luci della pensilina che ricopre le pompe per il rifornimento. Il colpo d'occhio d'insieme ricorda la fotografia di un film di Nicolas Winding Refn. Non c’è bisogno di chiedersi cosa stia facendo lì, entriamo in argomento e il mio amico mi confida di non essere mai stato con una prostituta. A me non sembra vero di poter interpretare uno dei miei ruoli preferiti: quello di Lucignolo.

– Devi assolutamente provare!  gli dico. Ma no… ma sì… ma sono fidanzato… ma dai... E alla fine cede, devo dire senza nemmeno troppo sforzo di persuasione. Ci accordiamo a questo modo. Io l’avrei aspettato al distributore, mentre lui e la ragazza, con la mia auto, potevano andare in un luogo più appartato.

Scendo. Faccio il solito mezzo giro. Apro la portiera al mio amico che mi subentra alla guida. Vedo l’R5 ripartire da dietro, ma gli stop rossi si accendono dopo pochi metri. Al lato destro la giovane è rimasta immobile come la preda di una specie indifesa, che si mimetizza con l'ambiente. Il finestrino si abbassa, lei finalmente si china con un movimento di cui riconosco l'automatismo, i gesti ripetuti migliaia di volte possiedono una loro meccanica bellezza. Stanno pattuendo la cifra che non sento, ma comunque inferiore a una pizza e una birra; le slave e le rumene chiedono un poco di più. Dall'interno della vettura mi arriva solamente il suono di Notte in Bovisa, fa parte del CD che abbiamo acquistato al banchetto dopo il concerto.

L'inverno è agli sgoccioli ma la ragazza non indossa le calze, avrà freddo penso, la pelle nera delle gambe possiede un aspetto innaturale, quasi plastificato per un eccesso di tonicità. Probabilmente è nigeriana, questo tratto della statale 36 è monopolio delle nigeriane, anche se non ha una muscolatura accentuata come la maggioranza delle persone che provengono dall'Africa centrale, è snella e le sue natiche non sono prominenti – si chiama steatopigia ho scoperto facendo le parole crociate. Sembrerebbe piuttosto senegalese, o somala. Da dove provenga è comunque molto bella.

I due si allontanano in direzione di un vialetto alberato, si tratta quasi certamente di platani un po' avvizziti per lo smog. Io cerco di non rimanere troppo in vista, non vorrei essere fermato da una volante della Polizia, o indurre qualcuno a pensare che mi stia prostituendo. In regime di libero mercato sessuale la mia concorrenza sarebbe comunque poco fruttifera.

C’è un distributore automatico di merendine e bevande. Inserisco le monete e seleziono una lattina di chinotto, avrei preferito una Ceres ma non vendono alcolici, pazienza, prendo anche una crostata con marmellata di ciliegie. La situazione sarebbe perfetta per fumarsi una sigaretta. Peccato che abbia smesso da poco, e poi nei distributori di benzina è vietato, potrebbe prendere fuoco. Immagino l’incendio, le fiamme che salgono al cielo, si estendono ai platani del vialetto, invadono Monza vorticando furiose… Devo pure ingannare il tempo pensando a qualcosa.

Ma hanno vita breve i miei pensieri incendiari, non sono passati nemmeno quindici minuti e vedo comparire i fanali dell’R5. Non che ci avrei messo più tempo, in questo genere di cose si tende a essere spicci, mai come qui vale la massima il tempo è denaro.

– Allora, dai, racconta , dico al mio amico quando mi raggiunge. Ho già rimesso la divisa da Lucignolo. Ma lui appare frastornato, sulle prime non vuole parlare. Poi però me lo confessa: – Mi sento una merda.

– Una merda, e perché mai?

Mentre attendo la sua risposta, che non arriva subito, mi scorrono davanti agli occhi gli articoli sul Manifesto di Luciana Castellina e Rossana Rossanda, i cortei delle femministe che uniscono indice e pollice delle due mani a mimare la fica, l'utero è mio e lo gestisco io gridano, la tratta degli schiavi e soprattutto delle schiave, la favola della Piccola fiammiferaia, convenendo che in effetti sì, siamo proprio delle merde. Devo assolutamente smettere di andare con le prostitute. Ma lui interrompe il mio autodafé, e finalmente vuota il sacco.

– Sai la faccenda della portiera.

– Sì, certo, la portiera. Domani chiamo il meccanico e...

– No, aspetta. Fammi finire.

– Ok.

– Quando ho completato tutta la trafila, sì, insomma, dovevo pur farla uscire, lei ha sgranato gli occhi. Poi è scoppiata a piangere.

– A piangere?!

– Tu sei un uomo buono, mi ha detto. In quattro anni che faccio questo lavoro nessuno era mai stato così gentile. Solo tu sei sceso dall’auto per aprirmi la portiera, mi hai fatto sentire una principessa. Tu sei un uomo buono.


mercoledì 6 agosto 2025

In difesa di Liliana Segre, o sul contro-illuminismo di sinistra

Me le ricordo ancora le celebrazioni dell'incontro tra Liliana Segre e Chiara Ferragni, era il 27 giugno del 2022, il luogo la Fondazione memoriale della Shoah di Milano. I post gongolanti si sprecavano sui social. Chiara è una di NOI, sottotesto che non di rado si traduceva in testo, festa, girotondo gongolante. Quando Liliana, si sa, lo era da sempre: una compagna, e poco male se il marito si era candidato nelle file dell'MSI di Almirante, era tanto tempo fa.

Non furono da meno giornali e talk politici, tutti saldamente collocati a sinistra. La prima a essere stralciata dal presepe fu proprio la Ferragni, le mani ancora sporche dello zucchero a velo del pandoro: un bel calcetto in culo e la superiorità morale della Sinistra era di nuovo ristabilita. Adesso è venuto il turno di Liliana Segre, rea di non voler pronunciare, a differenza di David Grossman, il termine genocidio. Alla fine il metodo rimane invariato, non meno del bisogno di vitelli d'oro da venerare nell'eclisse del Dio unico (la rivoluzione proletaria) per continuare a sentirsi diversi e migliori. In fondo ci stanno ancora Saviano, Chiara Valerio, le infinite vedove di Michela Murgia etc.

E così, per puro spirito di contraddizione, a me viene da difenderla, Liliana Segre. Non che ne condivida il pensiero – io penso che uno schifoso genocidio a Gaza sia in atto –, ma trovo infantile questo desiderio di vedere riflesse le nostre convinzioni in una Sacra Famiglia, dove la Segre verosimilmente incarnava la nonna buona. Mi viene in mente il finale dei Ponti di Madison County, lì erano i figli di Merly Streep a scoprire che la madre era un essere umano come tutti, e gli esseri umani possono cedere alla tentazione di una relazione extraconiugale o, di tanto in tanto, scoreggiare in ascensore e dire qualche minchiata. Cose che non sono in contraddizione con l'essere stati in un campo di sterminio nazista.

Resta allora da decidere se assumere l'imperfezione come tratto distintivo dell'umano, oppure trovare una nuova nonnina per il presepe; le staffette partigiane sono già quasi tutte morte, va a finire che il ruolo verrà assegnato a Roberto Vecchioni con una parrucca da donna in testa, come si faceva nel teatro antico e in quello elisabettiano.

La prima scelta coincide con la condizione adulta, la quale comporta una molteplicità di interpretazioni del mondo, non sempre forgiabili in stampo. La diversità di giudizio, in tal caso, rimane diversità, non colpa, tantomeno stigma da esibire sui social. Se vogliamo un riferimento alto possiamo chiamare in causa Voltaire, e la sua difesa del diritto a esporre opinioni da lui non condivise. Ma io preferisco il riferimento basso a Stanlio e Ollio, che già a partire da corpi tanto dissimili  ma ogni aspetto era in loro antitetico, persino nella vita reale – avevano saputo trarre una forza pazzesca. Per inciso, si chiama complementarietà.

Detta in sintesi, ciò che i fatti recenti mostrano è una Sinistra vandeiana e contro-illuminista, ma pure priva di ironia, di capacità di sorridere dei limiti propri e altrui alla maniera di una vecchia comica in bianco e nero, senza con ciò fondersi in grigio. Una Sinistra che non si limita a dire ciò che pensa, come fa discutibilmente Liliana Segre, ma stabilisce il dicibile.

domenica 3 agosto 2025

Corpi a perdere (mi ricordo 39)

 

Mi ricordo di una famosa attrice brillante ai funerali del marito altrettanto brillante e famoso, ne furono trasmessi degli stralci in quasi tutti i programmi televisivi, specie quelli di fascia pomeridiana che sottoscrivono contratti pubblicitari in forza di emozioni intense sottolineate dagli applausi del pubblico in studio. La cerimonia si tenne nella chiesa di Dio Padre a Milano 2, dove la coppia risiedeva, il 17 maggio del 2010, quando la donna non aveva ancora compiuto settantanove anni. Ma la sua età appariva indefinita; non è vero che le afflizioni invecchino, oltre una certa misura astraggono. Seduta su una sedia a rotelle con dei grandi occhiali da vista e l'occhio sinistro ricoperto da una garza (forse l’esito di un intervento chirurgico), dava l’impressione di essere finalmente riuscita a trascendere i numerosi accidenti che, nell'ultimo periodo, ne avevano minato la salute: il dolore aveva compiuto un salto di scala, immettendola a una dimensione metafisica del patire.

Non ho mai più incontrato una disperazione altrettanto compiuta, nelle coppie senza figli chi sopravvive precipita nel lutto senza il paracadute di una discendenza, tratti somatici o nella voce che gli ricordino la persona venuta a mancare. Ma qui lei non soffriva soltanto, si era fatta spazio concavo per ospitare quel figlio mai arrivato in quarantotto anni di matrimonio, a cui aveva dato la sagoma di Sofferenza; nei tempi antichi pare fosse esperienza diffusa: la psiche umana, nella resa alle passioni, diventa il teatro per l’ingresso in scena di un dio. Il funerale di Raimondo Vianello, di lui naturalmente stiamo parlando, più ancora di quello di Lady Diana o di John Fitzgerald Kennedy, si è così rivelato una tardiva manifestazione del mito, e Sandra Mondaini l’emblema incarnato della perdita. Ma c’è anche un aspetto personale. Da quel giorno ho cominciato a guardare alla vita degli altri con occhi diversi, come se fossero azioni di borsa e ne detenessi una minima quota, da monitorare sui grafici. Nelle fasi toro rimango indifferente ai guadagni, però quando i titoli precipitano sento che la direzione mi tocca, di più, mi riguarda. Provo a confrontare la memoria con le immagini registrate, su YouTube si trova tutto.

Quasi subito si impone il volto tramortito della vedova, mostra la confusione della bambina con il costume a pois che vaga per i bagni 123 di Rivazzurra, i genitori vengono ricercati con l'altoparlante; lo strazio è nei gesti e nelle poche parole in risposta alle condoglianze, il resto sono lacrime. Per un personaggio pubblico il nome di battesimo (Totò, Annarè, Albertone) è la certifica di essere entrati nel cuore degli spettatori. Sandra, tutti anche qui la chiamano Sandra  Sandra e basta. Da dietro si avvicina il nipote e le carezza dolcemente le guance inumidite, poi gli subentra Silvio Berlusconi, la sua personalità lo porta a volere essere lo sposo a un matrimonio e il morto a un funerale, ma sembra autentico il bacio che le deposita sulla fronte. Dapprima non lo si vede ma si riconosce la voce: è Pippo Baudo. Salito sul presbiterio invita i presenti – che idea cretina! – a intonare in coro il nome del collega scomparso: Raimondo, Raimondo, Raimondo… nemmeno si trovassero a un addio al celibato femminile, e si spronasse il muscoloso spogliarellista a calarsi gli slip.

Dettagli che avevo scordato, in fondo non aggiungono molto a ciò che ricordavo, ed è rimasto intatto e sopito negli anni; i traumi funzionano allo stesso modo suggerisce la psicologia. In quel volto al culmine del dolore era già tutto presente, perfino il passato e il futuro, a fare da specchio a ogni successivo magone. Il più frequente è la percezione di essere vivo dentro a un corpo corruttibile, un corpo che si affeziona alla corruzione di altri corpi. Ciascuno a perdere e dunque, più che amare, il mio rimpianto prende via preventiva.

sabato 2 agosto 2025

Mele, pele e pompelmi, o sul genocidio a Gaza



Un'amica molto vicina al popolo di Israele, non ai suoi governanti, per quanto in una democrazia la distinzione sia sempre sfumata (se Giorgia Meloni decidesse di invadere la Polonia, come italiano mi sentirei chiamato in causa), questa amica scrive che le numerose proteste filo palestinesi replicano la politica dello struzzo, e sono un modo per non guardare alle persecuzioni subite dal popolo ebraico nella storia, oppure a ciò che avviene in Africa – in questo caso però vorrei maggiore precisione nelle accuse –, o ancora all'attacco di Hamas dell'sette ottobre, la condizione delle donne nei paesi islamici etc. Perché tutti a criticare Israele e non i suddetti problemi, saranno mica antisemiti...

Io non sono tanto d'accordo con la mia amica, che resta amica per quanto il suo ragionamento mi ricorda chi, pescato a rubare una mela, risponda: Sì, ma Pierino ieri ha rubato due pere. Intanto, come dice il proverbio, stiamo mescolando mele con pere, e poi ieri non è oggi, e non so quanto sia pertinente ricordare la persecuzione dei marrani in Spagna, avvenuta oltre sei secoli fa. Ma l'argomento davvero dirimente a me appare il parallelo con le manifestazioni di protesta avvenute negli Stati Uniti durante la guerra in Vietnam, o più precisamente nel periodo del diretto coinvolgimento militare americano, e cioè tra il 1964 e il 1975. Anni in cui nel mondo contemporaneamente si verificano:

1) guerra civile in Laos; 2) guerra civile in Cambogia; 3) guerra indo-pakistana; 4) guerra di liberazione del Bangladesh; 5) guerra civile in Nigeria; 6) genocidio in Burundi; 7) guerra di indipendenza delle colonie portoghesi; 8) guerra dei sei giorni e del Kippur; 9) settembre nero in Giordania; 10) colpo di stato di Pinochet; 11) strategia della tensione e stragi in Italia.

Non poco per un solo decennio, e probabilmente ho scordato qualcosa. Eppure le manifestazioni americane si concentravano sul Vietnam – anche loro facevano gli struzzi?

Sì e no. Semplicemente quella guerra li coinvolgeva, si sentivano a un tempo vittime e responsabili. Così l'Italia: è coinvolta dal sistematico genocidio messo in opera dall'IDF nella striscia di Gaza, già che con Israele manteniamo solidi rapporti diplomatici e militari, e come tutto il blocco dei paesi Nato lo consideriamo un presidio di democrazia, civiltà e stabilità politica in Medio Oriente.

Un momento, rileggiamo l'ultima frase: presidio di democrazia, civiltà e stabilità politica in Medio Oriente...

No, decisamente non ci siamo, e con buona pace della mia amica io mi auguro che le manifestazioni contro il genocidio, ripeto questo termine ora finalmente utilizzato anche dall'ebreo, israeliano e sionista David Grossman, mi auguro che le manifestazioni aumentino, non diminuiscano o si spostino verso altri obiettivi, pur meritevoli di attenzione.

Inoltre, sarebbe opportuno che lo Stato italiano si adoperasse per contrastare il suo alleato mediorientale, ad esempio sospendendo questo vincolo e istituendo delle sanzioni economiche – come boicottiamo le mostre di felini russi e i convegni su Dostoevskij, possiamo rinunciare a qualche bel pompelmo israeliano –, iniziative da condividere con tutta l'eurozona. Altrimenti saremo anche noi corresponsabili. Ci sarà tempo per scendere in piazza contro le due pere rubate da Pierino, ma adesso occupiamoci dell'enorme mela scagliata da Israele contro il popolo palestinese, con il nostro tacito ma non meno grave contributo.

venerdì 1 agosto 2025

Un corpo e un'anima


Mi ricordo che Roma faceva da discrimine spaziale, oltre era veramente Sud e, al Sud, quando in autostrada si superava un altro veicolo targato Sondrio, o più spesso si veniva superati – nonostante l’auto di papà fosse una 128 nella versione Rally, la roulotte al seguito ne limitava la velocità di marcia –, il primo dei due conducenti ad accorgersi della coincidenza cominciava a suonare il clacson, e anche io e mamma eravamo pervasi da una contagiosa eccitazione, ci sporgevamo dal finestrino, CIAO, CIAO! gridavamo accompagnando i saluti con movimenti ampi delle braccia, lo stesso facevano i nostri conterranei valtellinesi in un sentimento primordiale di appartenenza mai più provato in seguito, mentre le colline arse delle Murge, trapuntate dalle rotoballe di fieno, scorrevano in una lontananza sfocata dall'arsura, negli Autogrill Pavesi le caciotte pendevano dal soffitto come candidi pipistrelli, alla cassa i fumetti di Lando erano appannaggio dei camionisti, ci si doveva accontentare di quelli di Nonna Abelarda e un bicchiere d'acqua con lo sciroppo di tamarindo, intanto l'auto targata Sondrio era già un puntino scuro all'orizzonte, prima di scomparire una radiolina a transistor appesa allo specchietto retrovisore diffondeva la voce di Wess e Dori Ghezzi, e non ci lasceremo mai cantavano sovrapponendosi nel refrain, anche stasera noi siamo più che mai, un corpo e un'anima, un corpo e un’anima, un corpo e un’anima…

mercoledì 30 luglio 2025

Granoturco (mi ricordo 38)


Mi ricordo che quando l'estate raggiungeva il suo culmine si andava nel granoturco per giocare a nascondino. La nonna non voleva – si rovina il fogliame diceva, ma più che altro temeva che le fronde affilate ci graffiassero gli occhi – mentre il nonno rideva e lasciava fare. Un gioco insensato a ben vedere: bastava allontanarsi di qualche passo dal campo e, dal movimento delle cime, era possibile individuare la posizione dell'altro. Anche perché eravamo solamente in due, io e Stefano, il figlio dei vicini di fattoria. Ma il numero per noi non rappresentava un problema, ci lanciavamo a capofitto tra i fusti e, a quel punto, non era più chiaro chi fosse il cacciatore e chi la preda, vagavamo in un labirinto verde con l'eccitazione e il timore di essere scoperti. Quando accadeva, al sussulto iniziale accompagnato dalle grida ECCOTI VISTO TANA!, sopravveniva un po' di delusione, e in fila indiana prendevamo la direzione del sole, unico riferimento nella fitta omogeneità del ventre vegetale che altrimenti ci avrebbe digerito; l'unica variabile cromatica era costituita dagli stimmi delle pannocchie, infilati in tasca sarebbero serviti per farci baffi e pizzetto da Buffalo Bill. Va aggiunto che Stefano arrivava solo a pomeriggio inoltrato, si presentava a bordo di una Graziella piena di adesivi all'ora in cui il nonno afferrava i secchielli di latta per andare a mungere le mucche, e così il sole ci indicava il ponente dove si trovava il letamaio, poi veniva una roggia e quindi il prato già falciato un paio di volte, dove ci accucciavamo a pensare quale avrebbe potuto essere il nuovo sfogo di energie, stare seduti ci era già venuto a noia. Di solito si trattava della ricerca dei giornaletti porno abbandonati nella boschina, altrimenti detta camporella, a poche centinaia di metri di distanza. In fondo una nuova quest: corpi che si incorporano, ma inanimati, spalmati sulla carta impastata da pioggia, terra e umori organici sconosciuti, e corpi vivi – i nostri – che non sanno cosa fare uno dell'altro. È chiaro che mancava una donna. Una bambina meglio, poi ragazza, signorina, mamma e così via. Questa è la vita ti dicono, ma lo realizzi solamente in seguito. All'inizio lo capisci soltanto. Quando al sapere si accompagna il sentire, è perché è già stato mietuto il granoturco, e il gioco perde un po' di interesse. Così si aspetta in silenzio la sera per coricarsi, mentre con polpastrelli duri e avvizziti la nonna carezza le sfere ambra del rosario.

domenica 27 luglio 2025

Waiting for the Miracle (mi ricordo 37)

Mi ricordo di un pappagallo a cui si doveva fare pronunciare la parola Portobello. Chi ci fosse riuscito avrebbe vinto un mucchio di soldi, c'era da scommetterci, lo assicurava un presentatore televisivo dall'aspetto un po' dimesso, ma che trasmetteva fiducia. Non si capisce perché ci misero tanto tempo per credergli, si trattava di una brutta storia – sul fatto che Portobello, così si chiamava il pappagallo, potesse dire il suo nome come un cristiano, sì; sul fatto che il presentatore non spacciasse cocaina, no... Mah.

Era infatti la prima eventualità a essere incredibile, da non credere proprio e cambiare canale sul nuovo televisore Grundig, finalmente a colori. Aspettarsi da un pappagallo e nemmeno di specie cinerina, la più loquace, che a comando articolasse un termine di quattro sillabe con la tremenda accoppiata di erre con ti, come mirto, carte, Bertè, nel senso di Loredana con le sue minigonne mozzafiato. Tutto ciò nel tempo di un minuto e sotto i riflettori di uno studio televisivo e, se ancora non bastasse, incalzati da uno sconosciuto: ma dai... qualsiasi ornitologo avrebbe potuto spiegare che si trattava di velleità.

Eppure, dopo cinque anni di tentativi miseramente falliti ci riuscì l'attrice Paola Borboni, era il 1 gennaio del 1982. Non ci avevo mai creduto fino in fondo nemmeno quando facevo il chierichetto – tutti quegli effetti speciali di Gesù, Lazzaro che si alza dalla tomba alla maniera del peggiore film splatter – ma con Portobello che a Portobello dice Portobello, non esistevano più dubbi: i miracoli esistono.

Da qui l'abitudine di guardare il cielo al risveglio, a cui sussurro Portobello. Finora non mi ha ancora risposto, ma sono convinto che, prima o poi, udirò una voce profonda, da anziano con all'attivo un po' troppe Nazionali senza filtro. La voce ci mette un po' a precisarsi, è il confuso balbettio del paziente che sta uscendo dall'anestesia; ma in seguito comincia ad articolare: Po... po... porbelo. Ho capito bene?! Questa volta lo scandisce chiaro e forte: Por-to-bel-lo, e poi ancora dopo una pausa, Portobello, Portobello, Portobello... a quel punto ci avrà preso gusto e sarà difficile fermarla, come avvenne con Paola Borboni. E io e la voce saremo una bellissima unica cosa.

(Dopo avere letto il testo, si consiglia l'ascolto di questa canzone.)

giovedì 24 luglio 2025

Oplà (mi ricordo 36)

 


Mi ricordo che bisognava risalire una scaletta ripidissima, e prima di imboccare una seconda scala più ampia e meno scoscesa e con i gradini ricoperti da moquette, a un livello intermedio, dunque, tra il ventre del traghetto dove avevamo lasciato la 125 Rally di papà – Avanti, avanti ancora un po’… ferma! strillava un uomo con una balena azzurra stampata sulla t-shirt – e il salone passeggeri con le poltroncine amaranto e un piccolo bar (quando il mare era mosso però restava chiuso), a quel punto si apriva un vano della dimensione di due cabine del telefono, con all’interno una panca di legno e sbarre di metallo a sigillarne lo spazio. Lì venivano fatti sedere i detenuti diretti a Porto Azzurro.

Io e mia cugina Alessandra, durante la navigazione da Piombino a Portoferraio, fingevamo di andare in bagno per scendere a guardare quei volti temuti, fuori dalla gabbia sostavano due carabinieri sempre in piedi. Ma subito scappavamo spaventati, come se avessimo visto il diavolo. Non ci era del tutto chiara la differenza tra un carcere normale e un penitenziario, ma avevamo inteso che c'entrava in qualche modo la morte: quegli uomini avevano certamente intrallazzato con la morte (sparando, strozzando, accoltellando), e ciò bastava per trasformare il nostro viaggio con in valigia le biglie da far rotolare sulla spiaggia, ogni biglia di plastica conteneva la foto di un famoso ciclista, tutti volevano Gimondi ma Eddy Merckx era nettamente più forte, lo trasformava in un film del terrore.

Quando si iniziavano a intravedere le rocce di Capo Vita e l’Isola dei Topi, il traghetto rallentava fino a fermarsi – Dove sono i freni delle barche? chiedevo allo zio, che non mi ricordo cosa rispondesse – e un’altra imbarcazione ma più piccola, molto più piccola, era simile ai barconi dei pescatori, accostava. Da una porticina laterale i carcerati venivano fatti montare su quella, ad attenderli nuove guardie con una divisa grigia che sembrava da postino.

Incollati alle battagliole del ponte di coperta osservavamo frementi l’operazione, di solito i carcerati erano al massimo due. I carabinieri li tenevano per mano come faceva il nonno Pinin quando ci portava alle giostre, mentre con l’altra mano si protendevano verso i postini, prima uno e poi il complice, pensavamo, di qualche malefatta. Eppure quel
 gesto possedeva un'intimità che strideva con tutte le cose brutte che la tivù diceva sui banditi: più che diavoli, sembravano ora dei poveri diavoli.

Ma a un certo punto, oplà, con un saltello ecco il primo detenuto superare il pericoloso corridoio aperto tra le due imbarcazioni, e così il carabiniere che gli teneva la mano lo lasciava andare, facendo sospettare che la separazione gli dispiacesse almeno un po'. Quando anche il secondo aveva completato il trasbordo, i pistoni del motore diesel aumentavano il loro ritmo, e il barcone si avviava borbottando in direzione della fortezza di Porto Azzurro. Il traghetto aspettava che fosse a sufficiente distanza, poi ripartivamo anche noi.

Non ne ho mai riparlato con Alessandra, ma vorrei chiederle se anche lei ogni tanto ci ripensa. A me è venuto un dubbio. E se ciò che spiavamo con morbosa apprensione c'entrasse davvero qualcosa con la morte, una morte senza diavoli e carabinieri e postini... Semplicemente, morire è lasciare un’imbarcazione grande per salire su una piccola, tanto piccola da apparire invisibile nel vasto mare, lasciare una mano e afferrare una mano che ci attende amichevole, per condurci a una nuova prigione. Ma poi non farà lo scherzetto di ritrarla, facendoci cascare nell’acqua gelida?

domenica 20 luglio 2025

Milano, o sulla differenza tra progressismo e sviluppismo

Non so se Sala abbia responsabilità penali nell'inchiesta milanese sul mattone, ma se mi dovessi affidare al naso direi di no. La responsabilità politica era però manifesta da anni, e coincide con l'equivoco inaugurato in Italia da Berlusconi: quello che la politica, appunto, sia un equivalente dei processi produttivi, e dunque l'abilità nel gestire un'azienda possa essere traslata alla cosa pubblica.

Non è così per molte ragioni, tra le quali una che venne introdotta da Pasolini in un articolo del 1973; ma il Corriere della Sera non pubblicò quel testo, che trovò spazio sugli Scritti corsari solo due anni dopo. Progresso e sviluppo, scriveva il poeta di Casarsa, sono termini alternativi e potenzialmente antitetici. Il progresso non è un concetto indipendente come lo sviluppo – data una condizione di partenza, senza variarne la natura può essere sviluppata fino ai suoi limiti fisiologici – ma presuppone una cornice di senso discrezionale, un mutare qualitativo oltre che quantitativo. In parole semplici: ci si deve prima accordare su quale sia il verso in cui progredire, non esiste progresso in sé, la tautologia non si applica a questa nozione.

La politica ha dunque quale suo specifico oggetto il progresso, non lo sviluppo, e prevede due momenti da porre in rigorosa sequenza: la determinazione collettiva di tale verso, quindi la sua applicazione. Essere efficienti concerne il solo secondo punto, ed è certamente un merito. Ma a patto che vi sia stato accordo e trasparenza nella prima fase, ossia e di nuovo la selezione politica degli obiettivi. Viceversa il progresso può tradursi in regresso.

A volte la dialettica democratica rappresenta una zavorra per l'efficienza: si vorrebbe fare di più, rimboccarsi le maniche e darci dentro per realizzare ciò che ci appare scontato (case sempre più alte e rilucenti di specchi, ad esempio), ma che a ben vedere scontato non è. Bisogna negoziare le scelte, chiarire la ricaduta sociale e ambientale, precisare i valori della comunità di riferimento ancora prima di corrispondervi, infine dare spazio ai dubbi di un'inevitabile frangia di scettici o comuni guastafeste, altrimenti detti minoranza. E così un buon politico deve sapere anche premere sul freno, non solo sull'acceleratore.

Quale sarà l'esito dell'inchiesta – ovviamente, auguriamo a Sala di uscirne indenne –, non possiamo evitare di registrare che il suo piede era pesante, come viene detto dei piloti automobilistici che molto pigiano sull'acceleratore. Una disposizione affrettata alla guida sufficiente a ridimensionarne la figura: da politico progressista, ad amministratore sviluppista.

Se avesse avuto maggiore consuetudine con il freno avrebbe con probabilità fatto di meno, quando in quel fare sono incluse anche opere di obiettivo interesse pubblico; e ciò glielo riconosciamo volentieri, come si dice: chi non fa, non sbaglia. Ma se non altro adesso conosceremo la direzione verso cui stava correndo Milano, che somiglia sempre più a un vecchio film di Andrej Končalovskij, A trenta secondi dalla fine. Dove un treno senza più guida procede a tutta forza in un nulla alaskano di conifere e neve.

sabato 19 luglio 2025

Beatrice

 


Beatrice. Non so chi fosse, nemmeno in una città piccola come questa l'avevo mai incontrata; ma poi ho guardato meglio e ho visto che viveva a Ponte, un paese a una decina di chilometri da Sondrio noto per le sue belle mele rosse. Portando il cane a fare pipì ai giardinetti di via Parolo, ho dato la solita scorsa al tabellone di metallo su cui vengono affissi i manifesti funebri. Da ragazzo li ignoravo sentendomi a mia volta ignorato. Morire, mi dicevo, è una cosa da vecchi, ci penserò quando avrò un orologio a cipolla e centrini all'uncinetto sul comò.

Nessun cognome, adesso è una cosa che si usa, il solo nome di battesimo produce maggiore intimità, specie se ti chiami Beatrice, come Beatrice Portinari. I commentari danteschi riportano che è morta a Firenze l'8 giugno del 1290, l'unico dubbio è se allora fosse nel ventiquattresimo o venticinquesimo anno della sua breve vita.

La ragazza della foto sembra avere più o meno la stessa età, almeno al tempo dello scatto. Sorride, un filo di trucco o forse niente, quello che si dice un viso acqua e sapone. È leggermente incongruo con il minimo tatuaggio amatoriale sull'avambraccio destro, una stella a cinque punte. Il cagnetto bianco che abbraccia dovrebbe essere di razza maltese. Reclina il capo fino a toccarne il pelo, l'animale le si affida fiducioso, una struttura a piramide dell'immagine che ricalca i dipinti rinascimentali della Madonna con bambino. E poi la frase virgolettata, "Il tuo sorriso era luce per chi ti amava, e ora illumina il cielo che ti custodisce."

Ho fatto una ricerca su internet, ma non viene riferita a nessuno in particolare: è semplicemente una frase di circostanza, probabilmente un'idea dell'agente delle pompe funebri. Sono rimasto colpito più da quello che sta sotto: "Con infinito amore, il tuo papà."

Sul fatto che non siano menzionati fratelli, beh, potrebbe essere figlia unica, ma perché l'infinito amore è solo quello del tuo papà, e non anche della tua mamma?

Forse è morta a sua volta, l'uomo è vedovo, cosa che rende il commiato ancora più straziante. O magari sono separati, e in un rapporto così logoro da non volere accostare il proprio nome alla madre della figlia; nemmeno in un momento in cui il cratere della scomparsa, di norma, rende le beghe di superficie tanto piccole. Ma in tal caso sarebbe una vicenda ancora più dolorosa, ci sto pensando da tutto il giorno.

Da qualche anno va così, mi commuovono i manifesti funebri degli sconosciuti. Da buon ipocondriaco, formulo ipotesi sulla causa del decesso, che si allargano e trasformano in narrazioni ipotetiche di un'intera esistenza 
 in fondo, è il principio della fiction biografica. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul perché la letteratura di pura finzione sta perdendo colpi, si guardi bene la foto di Beatrice, ci costruisca attorno una storia.

Una storia che includa la maglietta grigia, i lunghi capelli castani, il cagnetto maltese  adesso chi lo terrà? Lo immagino fermo davanti alla porta di casa ad aspettare la padroncina, come in quel film con Richard Gere  e soprattutto il suo papà. Possiede la stessa funzione narrativa di Dante nella Commedia: colui a cui viene consegnato il ricordo di una gioia solo sfiorata, è troppo grande per una vita, e così, nella morte, diventa il dolore e la richiesta di senso di tutti. Eh già, perché anch'io da oggi mi sento privato di un bene, e non attenua ma scava nella ferita il fatto che non sapessi di possederlo. Beatrice.

venerdì 18 luglio 2025

Tanti like, poco io

Pensavo a questa cosa: al bambino, al cane, a chiunque venga detto bravo fa sempre piacere, e chi frequenta i social non fa eccezione: i like sono un premio come il biscottino al cane di cui sopra, mai sputare nel piatto in cui ci si sbrana.

Però, pensavo sempre, c'è un'altra variabile da tenere in conto, che introduce Lacan con la consueta tortuosa lucidità. Ciò che ci fa davvero piacere, semplifico, è l'approvazione di chi anche noi approviamo, la stima di chi stimiamo.

Mescolando gli orientamenti psicoanalitici potremmo dire che questa approvazione ci definisce, ci individualizza  la medaglia è al valore di ciò che si precisa nel mio gesto, e quel qualcosa sono proprio io, l'altro mi fa da specchio. E così diventa un bravo Guido, brava Cinzia, bravo Ermenegildo!

Mi chiedo dunque quale possa essere il piacere nell'ottenere centinaia di like attraverso l'immagine di un gattino, o, nel caso di una giovane donna, nel mostrarsi con la camicetta un po' più sbottonata del solito  tu sei il tuo gattino, oppure coincidi con il seno che si intravede con finta sbadataggine? Oh cacchio, mi è scappato un bottone...

Io penso di sì. Penso che i social, per molte persone, arriverei ad azzardare la maggioranza, si siano trasformati in una diluizione dell'identità personale, al punto da evocare un tutto indistinto e così solo quantificabile. Titolava un suo libro con grande preveggenza Guénon: Il regno della quantità e i segni dei tempi.

mercoledì 16 luglio 2025

Esame orale sì, esame orale no, proviamo a fare un po’ di chiarezza

Sugli studenti che si rifiutano di sostenere l’orale all’esame di maturità perché, a loro dire, non sono stati ascoltati a sufficienza dai professori – ascoltati come esseri umani e non come semplici computatori di dati, abomasi da cui la notte rifluiscono le conoscenze brucate di giorno –, sulla questione ho più dubbi che certezze. Mi sembra cioè un problema complesso e sfumato.

Ma dovendo trovare una soluzione, io la vedo così: se parliamo di scuola dell’obbligo e, in parte, anche di liceo, trovo che gli studenti recalcitranti abbiano dalla loro molte ragioni, se non una medaglia d'oro nella corsa alla Verità che mi sembra impossibile assegnare. L’educazione primaria serve infatti a trasmettere un’appartenenza, prima ancora che a ingozzare gli studenti di nozioni. E l’appartenenza è per sua natura dialettica: le generazioni precedenti trasferiscono alle successive il testimone di ciò che hanno selezionato come valido (nel senso proprio del valore, che si pone a garante dello scambio: l'Iliade, la Divina Commedia, la tavola periodica degli elementi etc.), e quest’ultime replicano con le loro richieste di senso, l’idea di mondo che si vanno facendo.

Non è un pensiero utopistico o fricchettone, prevengo le obiezioni. Molto concretamente un giovane potrebbe chiedere al professore: Ok, Lei mi parla di Omero, Dante, Mendeleev, ma poi io le racconto dei miei problemi con le ragazze o con i ragazzi o con entrambi, e vediamo assieme se i suoi amici possono aiutarmi, e nel caso in che modo – Alain de Botton andava in questa direzione quando ha scritto Come Proust può cambiarvi la vita, oppure Robin Williams nell’Attimo fuggente.

Ma quando l'insegnamento sia volto a tradursi in pratiche professionali, allo scambio vitale tra esseri umani – è il principio stesso di ogni civiltà – deve subentrare una diversa concezione dell’insegnamento basata sul merito; un concetto 
controverso non a caso attribuito alla cultura conservatrice, già che presuppone un’asimmetria costitutiva tra soggetti e fondazione stabile dei saperi, al punto da essere quantificata in voto. Da una prospettiva filosofica sono io il primo a riconoscere che questa pedagogia corrisponda a una colata di cemento sulla mobilità del pensiero, in cui la domanda, socraticamente, deve prevalere sulla risposta. Peccato che non sempre si possa fare filosofia, e con un esempio sarà forse più chiaro.


Se per disgrazia doveste finire al pronto soccorso: preferireste trovare un medico sensibile, lambiccato, desideroso di confrontarsi sui propri problemi esistenziali – ma che non sa dove si trovi il fegato –, o un medico che ha superato l’esame di anatomia con un voto possibilmente alto?

PS - l'ottimo sarebbero ovviamente le due qualità, e sono io il primo ad auspicare, a Medicina, degli insegnamenti su come relazionarsi con i pazienti: in modo non autoritario e infondendo loro fiducia, che sono parte integrante della cura. Ma rimane il fatto che il fegato sta a destra, e la milza a sinistra.

venerdì 11 luglio 2025

Wanda, un'iniziazione mancata (mi ricordo 35)

Mi ricordo la sensazione dell'aria quasi fresca dei primi giorni di settembre. Entrava dai finestrini completamente aperti della BMW 318 bianca – allora è vero che Topolone possedeva una BMW, non era una delle sue solite sparate –, ma prima di raggiungerci faceva dei piccoli mulinelli, si mescolava alla voce di Baglioni che fuoriusciva dalle casse incastonate nelle portiere, e solo alla fine sbatteva sulle facce abbronzate, molto abbronzate.

D'altronde avevamo passato più di tre mesi sulla spiaggia di Lacona: lui, Stefano, detto Topolone, come insegnante di wind surf, io come aiuto bagnino; per essere onesti, il mio ruolo si limitava ad affittare i pedalò e a pulire con una spugna i piattelli degli ombrelloni. Va da sé che le ragazze più belle fossero tutte per Topolone (a ogni nuova conquista veniva a raccontarci di avere guzzato con una topolona, da qui il soprannome), anche se devo dire che io ero nettamente più carino. Ma, oltre allo status inferiore, avevo una brutta grana: ero ancora vergine.

"Sei ancora vergine... Dio bon, chè a gh'è da fèr!" aveva sbottato Topolone quando glielo avevo confessato, per quanto a sedici anni a me non sembrava tanto strano. I miei amici, almeno, erano nella mia stessa condizione, tranne uno che si era messo con una ragazza più grande; avevano affittato una cantina, per  arredarla era bastato un materasso a terra su cui facevano le cose. Noi ci arrangiavamo con i giornaletti di Ilona Staller.

Tutti argomenti che Topolone non voleva nemmeno stare a sentire, chè a gh'è da fèr continuava a ripetere, chè a gh'è da fèr. Quindi aveva concluso con tono perentorio: "A-gh pèins mé."

Ma facciamo un passo indietro. Avevamo lasciato l'Isola d'Elba la mattina con un traghetto della Navarma, il viaggio in autostrada a bordo della Cinquecento color pomodoro di Topolone; il tettuccio era rotto e quando, a Barberino del Mugello, ha cominciato a piovischiare, dovevo tenerlo chiuso con una mano. La BMW l’aveva lasciata a Cento, dove viveva assieme ai genitori. Il programma prevedeva che avrei dormito a casa loro e la mattina successiva sarei ripartito in treno verso Sondrio, con una breve digressione milanese per il concerto della PFM.

L’estate appena trascorsa verrà ricordata per le prodezze di Paolo Rossi, ma, nella stessa squadra che allo stadio Bernabéu vinse il campionato mondiale di calcio, c’era anche un giocatore diciottenne con dei grandi baffi neri, forse per l’aspetto precocemente adulto veniva chiamato Zio. Topolone era l’esatto opposto di quel giocatore, eterno nipote in tutto aveva l'espressione di Gatto Silvestro nell'avvicinarsi alla gabbietta di Titti. Chè a gh'è da fèr, e terminati i tortellini preparati dalla madre eravamo montati sulla BMW alla volta di Bologna.

Ma perché proprio Bologna?

Fu la prima cosa che gli chiesi. La risposta non mi fu del tutto chiara, con il dialetto emiliano vado un po' a intuito, e tra le cose intuite la presenza di una di quelle anziane prostitute definite nave scuola, batteva per strada nella periferia di Bologna. “Tótt ché a-gh sàn pasè” aveva aggiunto Topolone con un mezzo ghigno, come se già pregustasse il piumaggio biondo di Titti.

Ma perché proprio lei? lo incalzavo. In fondo stiamo parlando del lavoro più vecchio del mondo, oltre che tra i più diffusi. Un po' riluttante, voleva farmi una sorpresa, mi rivelò così la ragione della sua fama, per cui arrivavano fin dal Veneto. Dopo essere salita in auto, Wanda, non ricordo il nome ma chiamiamola a questo modo, Wanda si toglieva la dentiera e la poggiava sul cruscotto. Reso il cavo orale più accogliente e meno minaccioso, lo utilizzava per fare ciò che si fa in queste circostanze.

Non so se fosse compresa anche la presenza di Topolone quale pubblico, ero già talmente spaventato che non ho osato chiedere, ma è improbabile che avrebbe ceduto l'auto a un sedicenne, perdipiù vergine. Senza aggiungere altro cominciammo a cercare Wanda.

Per quasi due ore girammo per i luoghi che lui conosceva bene. Rotonde, slarghi, cavalcavia di cemento armato, nei viali semideserti gatti randagi facevano shopping tra i bidoni dell'immondizia, mentre cani a guardia dei magazzini abbaiavano in lontananza. Le insegne illuminate dei distributori di benzina sembravano uscite da un dipinto di Edward Hopper. Di tanto in tanto qualche nero (a Sondrio erano ancora una rarità) traversava la strada dinoccolato, e sparuti gruppi di ragazzi si saldavano attorno a un grumo pulsante di nulla, o forse stavano solo smazzando il fumo. Ma di Wanda nessuna traccia.

Iniziava a farsi sentire la stanchezza del viaggio dall’Isola d’Elba, io avevo il braccio anchilosato per via del tettuccio. Ci fermammo a un chiosco e ordinammo due piadine e tre lattine di Peroni. Perché tre? “Sà mo mai ch'a la catén la fémma”, aveva risposto Topolone non ancora rassegnato. "Vôt brîsa dèrgh da bèver?" Ma poi eravamo montati sulla BMW e tornati a Cento. Avrai, avrai, avrai, le parole di Baglioni suonavano ora come una burla.

Ogni tanto mi capita ancora di pensarci, tipo quei film in cui vengono messi in scena dei futuri ipotetici. Intendo: nel cono di luce di un lampione, ecco, all'improvviso compare Wanda. È proprio come me l’ero immaginata, non troppo alta, rotondetta, seno tra il grande e l’enorme. Nei capelli vaporosi tinti di rosso si intravede la ricrescita bianca, il ginocchio destro è sbucciato come accade ai bambini quando cascano dalla bicicletta. Fingiamo di non accorgerci di niente e la facciamo montare sui sedili posteriori, dove la raggiungo.

Non servono tanti convenevoli, sa benissimo perché Topolone le ha portato il suo giovane amico, e così si leva in slow motion la dentiera e mi sorride dischiudendo un cratere di mucose. Poi però sembra indugiare, deve avere intuito il mio terrore. “Dâi, putlèn” mi sussurra all'orecchio, “làset andèr…” quasi quasi le do retta. Ma con uno scatto inatteso cala in picchiata, e come una lumaca mi ritiro nel guscio, la natura reagisce al pericolo sempre nello stesso modo: fuga o attacco. Nelle condizioni attuali non passerei il casting per uno di quei giornaletti con Ilona Staller, non ho nemmeno la scusa che fa freddo.

Mi scuoto dalla fantasticheria, ma non so se rallegrarmi oppure essere dispiaciuto per il diverso corso delle cose; la prima vera volta è stata con una ragazza di cui ero innamorato perso, non con una prostituta sdentata di quaranta, facciamo pure cinquanta anni più vecchia di me. Il mulino bianco ha trionfato.

Da dove allora questo sentimento di malinconia? È come se un dio dispettoso avesse infranto il neon del lampione di Wanda, un colpo di fionda ben assestato a cui è seguito il buio, l'ombra ha risucchiato un pezzo di mondo che è rimasto potenziale. Non importa se sarebbe stata festa o, è più verosimile, squallore. Era la mia vita, che cavolo! E per averla indietro la posso solo raccontare.