Mi ricordo dei
grattacieli milanesi all’ora del tramonto, specie in inverno quando il sole
cala presto e compare l’uomo delle caldarroste. Mi piaceva osservarli, andate
pure a bere l’aperitivo dicevo, io vi raggiungo dopo. E mi sedevo su una
panchina a fissare un grattacielo, uno a caso purché ospitasse solamente
uffici.
Intorno alle
diciassette, con il cielo che sta imbrunendo ma non è ancora nero nero,
iniziano a spegnersi le prime luci. Dalle pareti specchiate lo si vede bene.
Poi è tutto un incalzare di
interruttori: clic, clic, clic… La sagoma di vetro, acciaio e cemento armato si rabbuia, seguendo lo stesso destino di un albero di Natale arrivata l'Epifania.
Ci sono però tre o quattro luci che perseverano nel rimanere accese; sono già le otto
di sera, le nove perfino e qualcuno ancora abita quelle stanze. Alla fine il freddo ha sempre prevalso
e non so come vada a finire, ma nell’alzarmi mi chiedevo: chi sono?
Degli
stakanovisti, degli amanti clandestini, il direttore e la segretaria che
scopano sulla scrivania… Più facile che si tratti del personale delle pulizie.
Ma la logica non riesce sbarazzarsi dell’immagine, a farsi metafora di un tramonto più esteso.
Invecchiare deve essere la stessa cosa, penso, la medesima perseveranza.
Il mondo che conoscevi si spegne un po' alla volta. Prima è un'eccezione, il compagno di classe morto in un incidente stradale; è solo una lampadina rotta ti dici, basta sostituirla. Poi la corrente comincia ad arrivare in modo discontinuo, qualcuno riprende a fare uso di candele, l'oscurità diventa regola. L’orario di ufficio in fondo è terminato, che c’è di strano? Ma tu non vuoi pigiare quello stramaledetto interruttore e tornare a casa.
