
In quell’Italia gli insegnanti elementari avevano un
ruolo ben preciso, rappresentato e rappresentativo, perfino esemplare, erano
insomma classe dirigente. I miei genitori, per la soddisfazione dei loro, di
genitori, avevano guadagnato l’accesso alla classe dirigente del nostro Paese
dopo essersi conosciuti sui banchi dell’Istituto Magistrale Lena Perpenti, le
cui aule ospitano ora i corsi di musica del Comune. Anche due fratelli di mio
nonno – lo zio Enrico e lo zio Peppino -, la sorella di mio padre, mia zia
Marina, la cugina materna Alba e suo marito Pietro, quasi tutti, ora che
ci penso, nella mia famiglia sono stati maestri elementari. Anche la zia Gina,
che viene ricordata malvolentieri quando si enumerano le genealogie di fronte a
una tazza fumante di tè con i canestrelli.
Adesso quel condominio geometrile sbocciato da un
giorno con l’altro nel frutteto del signor Pizzala, dall’estremo orlo in cui si trovava si è ricollocato nel semicentro della città, in base al principio
di espansione e inclusione proprio dei grandi imperi come delle metastasi tumorali.
Molti dei maestri elementari che ci abitavano sono morti, gli appartamenti sono
stati ereditati, venduti, affittati. Quasi tutti i nuovi inquilini
probabilmente nemmeno conoscono il nome che fu dato al loro sogno di calce e
mattoni, con evidentemente slancio rinascimentale, da quel lontano manipolo di
maestri: condominio la Gioiosa, come la Ca' Zoiosa di Vittorino da Feltre.
Per qualche tempo hanno abitato nel codominio la
Gioiosa anche delle entreneuse rumene, rientravano tutte le notti alle quattro e si alzavano a mezzogiorno. Un’altra rumena che
abita qui, ma di professione fa la badante, fingeva, con loro, di essere italiana. Poteva così origliare i discorsi nell'androne di ingresso senza suscitarne la cautela, cercando in tal modo di carpire se covassero qualche malaffare. Questo minimo spionaggio condominiale veniva poi condiviso tra i vicini.
Nell’appartamento, a piano terra, delle entreneuse rumene, da qualche mese si sono trasferiti un gruppo di giovani africani, probabilmente appartengono a un’associazione di aiuti umanitari o qualcosa del genere, visto che i numerosi inquilini cambiano di frequente e si fa fatica a riconoscerli. A qualcuno, me l'aspettavo, ho sentito dire che "i negri sotto tutti uguali…” (purtroppo nel condominio non abbiamo nessun ghanese che possa travestirsi da italiano e fornirci ragguagli).
Nell’appartamento, a piano terra, delle entreneuse rumene, da qualche mese si sono trasferiti un gruppo di giovani africani, probabilmente appartengono a un’associazione di aiuti umanitari o qualcosa del genere, visto che i numerosi inquilini cambiano di frequente e si fa fatica a riconoscerli. A qualcuno, me l'aspettavo, ho sentito dire che "i negri sotto tutti uguali…” (purtroppo nel condominio non abbiamo nessun ghanese che possa travestirsi da italiano e fornirci ragguagli).
Quando i giovani africani sono arrivati erano ancora
in corso i lavori per il rifacimento dell’ascensore, che perciò non funzionava.
Ogni volta che mia madre rientrava con un sacchetto della spesa o degli altri ingombri, c’era sempre un ragazzo africano pronto ad agguantarlo per precipitarsi
al quarto piano, ma rifiutandosi di accettare la mancia che sempre gli offriva
mia madre, la quale si sdebitava con qualche manicaretto che gli portava ancora
fumante all’ora di cena. E non voglio dire che le persone di colore siano tutte brave,
sarebbe anche quello razzismo, razzismo all’incontrario, ma semplicemente che è
andata a questo modo. Un modo che mia madre ha gradito molto, e che ha fatto piacere
anche a me.
Durante l’ultima assemblea condominiale, mi sono
però accorto che la presenza africana viene vissuta diversamente dalla
maggioranza degli altri condomini. L’intervento che mi ha più colpito è quello
della giovane e bellissima figlia degli inquilini del primo piano. Secondo lei,
se non poniamo al più presto argine alla cosa – questi “negri” che sostano
davanti a casa in minacciosi capannelli, parcheggiando le numerose e scassate biciclette
in cortile, a disdoro dell’immagine del condominio –, la loro sgradita presenza
si rifletterà negativamente anche sul valore dell’immobile.
Il suo ragionamento temo che sia verosimile,
già che verosimilmente buona parte della popolazione la pensa allo stesso modo.
Se infatti un “negro” vale (ipotesi) meno di un bianco, anche un condominio con andirivieni di
persone di colore, in base al principio della metonimia, varrà di meno. Meno
soldi proprio, moneta sonante. Un ragionamento che in effetti non fa una
grinza.
Quel che forse sfugge alla mia bellissima vicina di
casa è che il valore, qualsiasi tipo di valore, economico o sociale poco
importa, è conseguenza di attribuzioni in buona parte discrezionali, non è un
dato di fatto per così dire ontologico. Si fa insomma valere qualche cosa, il valore è un’attribuzione, mai uno
status autonomo che definisce un oggetto o una condizione, ed è quindi frutto
più della consuetudine (gli occhiali che indossiamo nel guardare il mondo) che
della realtà oggettiva delle cose.
Possiede quindi ampi margini discrezionali anche la
nozione di utilità – ha valore ciò
che è utile, ciò che serve specialmente in regime di scarsità dell’offerta, ci
ricorda la teoria economica –, quando l’utilità e il danno sono molto meno
intuitivi di quel che appare agli economisti. Siamo ad esempio certi che una
polo Ralph Lauren sia davvero quattro volte più
utile di un’uguale maglietta della Robe di Kappa…? O non sarà che entrambe
possiedono la medesima utilità, ma una vale di più, quattro volte di più, perché
è stata come gonfiata da un elemento immateriale e psicologico, che potremmo
chiamare prestigio.
Il prestigio è dunque una narrazione subliminale che
associa un oggetto a una condizione auspicata, la quale può essere anche molto
lontana dall’oggetto stesso, quanto lo è l'auspicio da un tornaconto reale. L’elemento
che potrebbe aiutare a distinguere tra utilità e prestigio, quindi tra valore
e bene, ossia tra un codice simbolico e un vantaggio concreto e umano, è la
consapevolezza, qui intesa come coscienza delle strutture antropologiche che
portano sia al giudizio che al pregiudizio, da cui una possibile valorizzazione dell’inutile. Ma
questa preziosissima facoltà, preziosa oltre ogni valore, dovrebbe essere la
scuola a fornirla, l’insegnamento a farla circolare per il mondo. Sapere, in
altre parole, prima di avere e volere e giudicare.
Ecco, a me sembra allora che la minima vicenda qui accennata
sia una perfetta metafora di questo tempo, in cui dilaga il valore (economico,
sociale, razziale) ma implode il bene e la coscienza, nel più totale vuoto
pedagogico. E allora sì, tocca concludere che ha davvero ragione la bellissima
ragazza che non vuole "negri" in casa propria: perché quella casa ora vale meno,
molto meno da quando noi, con le nostre belle polo Ralph Lauren con il colletto
sollevato, abbiamo occupato le stanze che i suoi antichi maestri avevano
costruito con slancio e passione, dopo aver colto le mele gialle e rosse dall'albero del signor Pizzala.