Una
donna, superati i cinquant’anni di età, vive il suo corpo come un uomo che avrebbe voluto
nascere in un altro sessso, e si consola con un'altra sessualità. Entrambi somigliano a quei personaggi che si risvegliano in un letto diverso dal proprio – socchiudono gli occhi con fatica, la luce gli dà fastidio, poi li spalancano in un soprassalto di consapevolezza – dopo una sbornia particolarmente pesante e lacunosa, con la bottiglia del gin ancora mezza vuota sul comodino. Ed è d'obbligo, nei film, l'ignoranza non solo delle ragioni e i sentieri che li hanno condotti lì, ma anche della misteriosa sagoma che ronfa acciambellata al loro fianco. La quale si rivela, neanche a dirlo, una creatura bellissima, che in alcune varianti raggiunge solo in seguito il nostro smemorato eroe tra le lenzuola sfatte, portando un'abbondante colazione. Qui invece si risvegliano soli, e per quanti sforzi facciano per tornare a casa, non trovano le chiavi del portone.
E’
una frase che mi ha detto un giorno una ragazza di nome Stefania. Mi sembra un paragone bizzarro e arguto, che io ho rielaborato solo un poco. Magari, con maggiore indulgenza, potremmo alzare l'asticella a sessanta, perfino settant'anni come si dice "ben portati", estendendo ai maschi, sempre più narcisi, il memento senectute. L'ospizio è in ogni caso già dentro di noi, non fuori. E viviamo sempre sotto sfratto.
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