mercoledì 24 ottobre 2012

Facebook 2.0, prove d’orchestra per un nuovo Messia

Facebook, sto lentamente ma profondamente rivedendo il mio pensiero. Fino a poco tempo fa il giudizio non poteva essere più netto: un contenitore idiota per idioti allo stato gassoso, in cui l’assenza di pareti certe e documentabili – i famosi saperi costituiti – consente al peggio di dilagare. Beh, sui contenuti la mia opinione non è mutata di molto; che in Facebook si producano dinamiche comunicative tendenti alla più becera semplificazione, mi sembra evidente. E però, contemporaneamente, mi sembra di avvertire anche altre e opposte tensioni, meglio tentativi. Quelli di riorganizzare il dialogo che fin qui è davvero stato aperto e orizzontale nella forma, oltre che, nella sostanza, paritario per via dell’assenza di qualsiasi tara ideologia o strumentale nel mezzo, che pesa le opinioni (il “messaggio”) sulla medesima bilancia. Nonostante tale premessa egualitaria, da qualche tempo si sta assistendo allo scollinare delle diverse personalità in gioco, in uno sbilanciamento prospettico che possiamo senz'altro far coincidere con il successo: sproporzione nel numero dei contatti, aumento dell'incidenza pubblica di alcuni, riconoscimento sotto forma di plauso e commenti ai post.
Per intendersi, al suo manifestarsi FB somigliava a quel vecchio capolavoro cinematografico di Federico Fellini (Prova d’orchestra), in cui un gruppo di orchestrali, dopo essersi sbarazzati del loro tirannico direttore, si concedono alle più sfrenate e caotiche libertà, conducendo la minima comunità umana qui rappresentata a un’inevitabile implosione. La metafora, certamente estrema e grottesca, rimandava ai processi spontanei di emancipazione da ogni forma di dominio, su cui era facile intuire il pessimismo dell'autore. Se rileggiamo le sequenze in chiave psicanalitica, riconosciamo però anche il principio vincolante della lex publica – estensione dell'autorità paterna – che viene annichilito dal parricidio simbolico del Capo, lasciando spazio a una pletora di "figli" che rivendicano unicamente il piacere sensibile del momento. Ossia non ciò che Lacan chiamava “jouissance” (vocazione intima ad affermare quel tratto discreto della personalità: il proprio insindacabile godimento), ma qualcosa come un diletto effimero e mimeticamente contagioso, che dallo stesso Lacan viene descritto nel Discorsodel capitalista. Ed è esattamente e solo in questo che nel film si realizza il mito rivoluzionario dell'egalitè: nell'equivalenza narcisistica di un piacere pervertito da ogni limite, con ciò cancellando quelle differenze biografiche che rendono possibile la cooperazione musicale.
Bene, se le cose stanno come temo a questo modo, è proprio della patologia sociale connaturata al tardo capitalismo – il desiderio che dilaga senza più una soggettività portante a identificarlo – che il principale social network si fa emblema collettivo. Spazzato via ogni residuo argine di appartenenza storica o territoriale, ogni contrafforte legale o anche solo di semplice galateo, la parola, l'opinione e perfino la sintassi si fanno misura di un piacere espressivo che diviene alla portata di tutti, quindi di nessuno. Potremmo vederla come un coro tragico inclusivo di ogni singola voce, ma di conseguenza ciò che viene meno è il profilo dell'eroe, la dissidenza d'Antigone che è premessa della soggettività moderna. Eppure, eppure… come dicevo mi sembra di avvertire anche delle controspinte, qualcosa che mi ricorda gli attrattori strani di cui parlano gli studiosi dei fenomeni caotici, in cui i sistemi non lineari si auto-riorganizzano alla soglia della disgregazione. Ed è, nel caso di Facebook, ciò che potremmo chiamare fenomeno dei capoclasse. 
Provo a spiegarmi. Cos’è, un capoclasse, nella memoria dei più? Un reggente, nella migliore delle ipotesi un bonario simulacro. Ossia un bimbetto come gli altri, ma provvisorio detentore di un’autorità che lo rende al contempo uguale e diverso, come si diceva un tempo del PCI. E dunque, anche nel caso di Facebook, i capoclasse sono identificabili con persone che non necessariamente esprimono un prestigio sociale o un’acclarata eccellenza (anche se, spesso, tali dux in fabula ereditano lo scettro da sistemi di valore esterni al microcosmo comunicativo – attori, cantanti, scrittori, giornalisti etc.). Persone che per propria vocazione o addirittura per una sorta di mandato assegnato da un ristretto gruppo di conoscenti, iniziano a salire in cattedra, a tenere banco con quotidiana ostinazione, nel tentativo di arginare e quindi governare i flussi verbali della rete. Ed è così che i capoclasse dispensano consigli, elargiscono pillole di saggezza, riorganizzando la profusione informativa in pacchetti semantici che recuperano il principio inizialmente estromesso della gerarchia; che è poi ciò che ne legittima e favorisce la funzione, e per quanto lo scalino sia a questo primo livello davvero minimo.
Mi torna alla mente un certo Tomasoni, anno 1982, collegio religioso di Celana, conficcato sulle pendici delle prealpi bergamasche. L’anno in cui fui spedito in clausura per palesi demeriti scolastici, e in cui durante le ore di studio pomeridiano mi ritrovai tale Tomasoni, a presidiare ringhiosamente la cattedra come un mastino con il suo osso già spolpato. Un mio coetaneo di bassa statura, con un nasone adunco e il sorrisetto sornione di certi personaggi minori dei cartoni animati; e la minorità, davvero era il suo tratto distintivo –  un tizio con cui, se ti andava bene, riuscivi a scambiare due parole stiracchiate sull’andamento del campionato calcistico, o sulla Formula 1. Ma raggiunto il trono lasciato provvisoriamente vacante dagli istitutori, Tomasoni si trasformava: iniziava a parlare, ad ammonire e sentenziare, punire soprattutto, dispensando le temute delazioni per Don Gino. Sorprendentemente e con rarissime eccezioni – io, ad esempio – la classe sembrava però confortata dalla reggenza di Tomasoni, evidentemente preferendo la miseria (umana, culturale) al caos che si sarebbe prodotto in assenza di quel gerarcuccio in formato bonsai.
Ecco, ciò che sta avvenendo nell’inevitabile parabola vitale di un sistema complesso (e Facebook certamente lo è: complesso, ma anche potente e vitale), mi sembra riflettersi nella polverosa fotografia che è sgusciata fuori dal mio albo dei ricordi. Uno sparuto gruppo di persone, perlopiù modestissime, che a incalzanti colpetti di tosse verbale stanno guadagnando posizioni di prestigio comunicativo, come tanti piccoli capetti di una classe svogliata e chiassosa. Un effetto che produce la sua causa, in pratica, una circolarità forsennata che porta a sfornare tutt'al più dei diligenti compitini, simili per acume ai commenti calcistici di un ragazzino di quindic'anni. Ma tutto ciò – ed è questa mi pare la vera notizia – si consuma in un clima che ricorda l'attesa del rientro del professore di filosofia, che con le sue puntigliose disamine della Fenomenologia dello spirito di Hegel si riprende lo scranno intiepidito dagli smilzi glutei del Tomasoni di turno.
O detta in altre parole ancora, Facebook è appena entrato in una seconda e differente fase: da rivoluzionaria a proto-legale, da anarco-trotzkista a burocratico-brezneviana, da Jerry Lee Lewis a Paul McCartney; o se preferite le fragranze incensate di sacrestia, io lo definirei un clima “messianico”, in cui un gruppuscolo di profeti sgarrupati conciona le masse nell’attesa dell’avvento del Vero Messia. Ed è alla luce di questa intuizione che mi pare di poter rileggere un fenomeno sociale che troverei altrimenti incomprensibile. Penso ad esempio a uno dei miei più intraprendenti contatti, una giovane e bella donna che ogni giorno vomita sulla propria bacheca un catalogo gnomico frasi altisonanti, buone per l'annuario delle Giovani Marmotte. Pensierini assunti in forma di ready-made dal catalogo bacio-peruginesco dei saperi,  e che hanno il seguente tenore: “Il posto giusto è quello dove smetti di chiederti che ora è.” 
Ora, il punto a me non appare nemmeno più l’inconsistenza intellettuale o morale di questo modo di intendere la comunicazione, ma, rivoltando il guanto, l’urgenza di una comunicazione “a senso”: qualunque esso sia, quantunque l’evidente incompetenza di chi lo elargisce. E tutto ciò, alla fine, è perfino confortante. Perché ci lascia intravedere come al termine del tunnel di banalità seriali e sfrenamenti pulsionali, Facebook già postuli la reintegrazione mistica del principio paterno dell’autorità, che potremmo vedere come rientro dalla finestra di quel direttore d’orchestra appena cacciato dalla porta, e con esso la percezione di un limite che in psicanalisi è rappresentato dal fantasma della castrazione. E dunque un uomo o una donna, un dotto o un saputo, un santo o un nuovo e più potente demone. Qualcuno che, in ogni caso, farà riaccomodare al proprio banco di formica verdina i vari capoclasse, ripristinando un sistema interpretativo del reale (dunque di potere) di cui già iniziamo ad avvertire il pungolo soffocante e claustrofobico.
Ma anche di questo tocca farsene una ragione, già che, come noto, ogni farmaco è anche veleno, e senza piccoli sorsi quotidiani di bile qualsiasi orchestra si trasforma in cacofonico clangore. O in alternativa bisogna attendere la riduzione del presente in macerie, come nella scena conclusiva del film di Fellini, con la grande sfera di cemento che si abbatte sulla sala autogestita dagli orchestrali, prima che si levi una nuova e più sottile melodia…





1 commento:

  1. I tuoi intraprendenti contatti sono spesso belle e giovani donne, ma ci sono altre donne che su fb non scrivono frasi senza senso... ciao simpatico guido, mg

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