Facebook, sto lentamente
ma profondamente rivedendo il mio pensiero. Fino a poco tempo fa il giudizio
non poteva essere più netto: un contenitore idiota per idioti allo stato gassoso,
in cui l’assenza di pareti certe e documentabili – i famosi saperi
costituiti – consente al peggio di dilagare. Beh, sui contenuti la mia
opinione non è mutata di molto; che in Facebook si producano dinamiche
comunicative tendenti alla più becera semplificazione, mi sembra evidente. E
però, contemporaneamente, mi sembra di avvertire anche altre e opposte
tensioni, meglio tentativi. Quelli di riorganizzare il dialogo che fin qui è
davvero stato aperto e orizzontale nella forma, oltre che, nella sostanza,
paritario per via dell’assenza di qualsiasi tara ideologia o strumentale nel
mezzo, che pesa le opinioni (il “messaggio”) sulla medesima bilancia.
Nonostante tale premessa egualitaria, da qualche tempo si sta assistendo allo
scollinare delle diverse personalità in gioco, in uno sbilanciamento
prospettico che possiamo senz'altro far coincidere con il successo: sproporzione
nel numero dei contatti, aumento dell'incidenza pubblica di alcuni,
riconoscimento sotto forma di plauso e commenti ai post.
Per
intendersi, al suo manifestarsi FB somigliava a quel vecchio capolavoro
cinematografico di Federico Fellini (Prova d’orchestra),
in cui un gruppo di orchestrali, dopo essersi sbarazzati del loro tirannico
direttore, si concedono alle più sfrenate e caotiche libertà, conducendo la
minima comunità umana qui rappresentata a un’inevitabile implosione. La
metafora, certamente estrema e grottesca, rimandava ai processi spontanei di
emancipazione da ogni forma di dominio, su cui era facile intuire il pessimismo
dell'autore. Se rileggiamo le sequenze in chiave psicanalitica, riconosciamo
però anche il principio vincolante della lex publica – estensione
dell'autorità paterna – che viene annichilito dal parricidio simbolico del
Capo, lasciando spazio a una pletora di "figli" che rivendicano
unicamente il piacere sensibile del momento. Ossia non ciò che Lacan chiamava
“jouissance” (vocazione intima ad affermare quel tratto discreto della
personalità: il proprio insindacabile godimento), ma qualcosa come un
diletto effimero e mimeticamente contagioso, che dallo stesso Lacan viene
descritto nel Discorsodel
capitalista. Ed è esattamente e solo in questo che nel film si realizza
il mito rivoluzionario dell'egalitè: nell'equivalenza narcisistica di un
piacere pervertito da ogni limite, con ciò cancellando quelle differenze
biografiche che rendono possibile la cooperazione musicale.
Bene, se
le cose stanno come temo a questo modo, è proprio della patologia sociale
connaturata al tardo capitalismo – il desiderio che dilaga senza più una
soggettività portante a identificarlo – che il principale social network si fa
emblema collettivo. Spazzato via ogni residuo argine di appartenenza storica o
territoriale, ogni contrafforte legale o anche solo di semplice galateo, la
parola, l'opinione e perfino la sintassi si fanno misura di un piacere
espressivo che diviene alla portata di tutti, quindi di nessuno. Potremmo
vederla come un coro tragico inclusivo di ogni singola voce, ma di conseguenza
ciò che viene meno è il profilo dell'eroe, la dissidenza d'Antigone che è
premessa della soggettività moderna. Eppure, eppure… come dicevo mi sembra di
avvertire anche delle controspinte, qualcosa che mi ricorda gli attrattori
strani di cui parlano gli studiosi dei fenomeni caotici, in cui i sistemi
non lineari si auto-riorganizzano alla soglia della disgregazione. Ed è, nel
caso di Facebook, ciò che potremmo chiamare fenomeno dei capoclasse.
Provo
a spiegarmi. Cos’è, un capoclasse, nella memoria dei più? Un reggente, nella
migliore delle ipotesi un bonario simulacro. Ossia un bimbetto come gli altri,
ma provvisorio detentore di un’autorità che lo rende al contempo uguale e
diverso, come si diceva un tempo del PCI. E dunque, anche nel caso di
Facebook, i capoclasse sono identificabili con persone che non necessariamente
esprimono un prestigio sociale o un’acclarata eccellenza (anche se, spesso,
tali dux in fabula ereditano lo scettro da sistemi di valore esterni al
microcosmo comunicativo – attori, cantanti, scrittori, giornalisti etc.).
Persone che per propria vocazione o addirittura per una sorta di mandato
assegnato da un ristretto gruppo di conoscenti, iniziano a salire in
cattedra, a tenere banco con quotidiana ostinazione, nel tentativo di arginare
e quindi governare i flussi verbali della rete. Ed è così che i capoclasse
dispensano consigli, elargiscono pillole di saggezza, riorganizzando la
profusione informativa in pacchetti semantici che recuperano il
principio inizialmente estromesso della gerarchia; che è poi ciò che ne
legittima e favorisce la funzione, e per quanto lo scalino sia a questo primo
livello davvero minimo.
Mi
torna alla mente un certo Tomasoni, anno 1982, collegio religioso di Celana,
conficcato sulle pendici delle prealpi bergamasche. L’anno in cui fui spedito
in clausura per palesi demeriti scolastici, e in cui durante le ore di studio
pomeridiano mi ritrovai tale Tomasoni, a presidiare ringhiosamente la cattedra
come un mastino con il suo osso già spolpato. Un mio coetaneo di bassa statura,
con un nasone adunco e il sorrisetto sornione di certi personaggi minori dei
cartoni animati; e la minorità, davvero era il suo tratto distintivo – un
tizio con cui, se ti andava bene, riuscivi a scambiare due parole stiracchiate
sull’andamento del campionato calcistico, o sulla Formula 1. Ma raggiunto il
trono lasciato provvisoriamente vacante dagli istitutori, Tomasoni si
trasformava: iniziava a parlare, ad ammonire e sentenziare, punire soprattutto,
dispensando le temute delazioni per Don Gino. Sorprendentemente e con rarissime
eccezioni – io, ad esempio – la classe sembrava però confortata dalla reggenza
di Tomasoni, evidentemente preferendo la miseria (umana, culturale) al caos che
si sarebbe prodotto in assenza di quel gerarcuccio in formato bonsai.
Ecco,
ciò che sta avvenendo nell’inevitabile parabola vitale di un sistema complesso
(e Facebook certamente lo è: complesso, ma anche potente e vitale), mi sembra
riflettersi nella polverosa fotografia che è sgusciata fuori dal mio albo dei
ricordi. Uno sparuto gruppo di persone, perlopiù modestissime, che a incalzanti
colpetti di tosse verbale stanno guadagnando posizioni di prestigio
comunicativo, come tanti piccoli capetti di una classe svogliata e chiassosa.
Un effetto che produce la sua causa, in pratica, una circolarità forsennata che
porta a sfornare tutt'al più dei diligenti compitini, simili per acume ai
commenti calcistici di un ragazzino di quindic'anni. Ma tutto ciò – ed è questa
mi pare la vera notizia – si consuma in un clima che ricorda l'attesa del
rientro del professore di filosofia, che con le sue puntigliose disamine della Fenomenologia
dello spirito di Hegel si riprende lo scranno intiepidito dagli smilzi
glutei del Tomasoni di turno.
O
detta in altre parole ancora, Facebook è appena entrato in una seconda e
differente fase: da rivoluzionaria a proto-legale, da anarco-trotzkista a
burocratico-brezneviana, da Jerry Lee Lewis a Paul McCartney; o se preferite le
fragranze incensate di sacrestia, io lo definirei un clima “messianico”, in cui
un gruppuscolo di profeti sgarrupati conciona le masse nell’attesa dell’avvento
del Vero Messia. Ed è alla luce di questa intuizione che mi pare di
poter rileggere un fenomeno sociale che troverei altrimenti incomprensibile.
Penso ad esempio a uno dei miei più intraprendenti contatti, una giovane e
bella donna che ogni giorno vomita sulla propria bacheca un catalogo gnomico
frasi altisonanti, buone per l'annuario delle Giovani Marmotte. Pensierini
assunti in forma di ready-made dal catalogo bacio-peruginesco dei saperi,
e che hanno il seguente tenore: “Il posto giusto è quello dove smetti di
chiederti che ora è.”
Ora,
il punto a me non appare nemmeno più l’inconsistenza intellettuale o morale di
questo modo di intendere la comunicazione, ma, rivoltando il guanto, l’urgenza
di una comunicazione “a senso”: qualunque esso sia, quantunque l’evidente
incompetenza di chi lo elargisce. E tutto ciò, alla fine, è perfino
confortante. Perché ci lascia intravedere come al termine del tunnel di
banalità seriali e sfrenamenti pulsionali, Facebook già postuli la
reintegrazione mistica del principio paterno dell’autorità, che potremmo vedere
come rientro dalla finestra di quel direttore d’orchestra appena cacciato dalla
porta, e con esso la percezione di un limite che in psicanalisi è rappresentato
dal fantasma della castrazione. E dunque un uomo o una donna, un dotto o un
saputo, un santo o un nuovo e più potente demone. Qualcuno che, in ogni caso,
farà riaccomodare al proprio banco di formica verdina i vari capoclasse,
ripristinando un sistema interpretativo del reale (dunque di potere) di
cui già iniziamo ad avvertire il pungolo soffocante e claustrofobico.
Ma
anche di questo tocca farsene una ragione, già che, come noto, ogni farmaco è
anche veleno, e senza piccoli sorsi quotidiani di bile qualsiasi orchestra si
trasforma in cacofonico clangore. O in alternativa bisogna attendere la
riduzione del presente in macerie, come nella scena conclusiva del film
di Fellini, con la grande sfera di cemento che si abbatte sulla sala
autogestita dagli orchestrali, prima che si levi una nuova e più sottile
melodia…
I tuoi intraprendenti contatti sono spesso belle e giovani donne, ma ci sono altre donne che su fb non scrivono frasi senza senso... ciao simpatico guido, mg
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