giovedì 13 gennaio 2011

Generazione paròl


Ma quanto sono ganzo, quanto sono bravo! A volte ci frulla dentro la testa questa idea, perlopiù sconfitta da bancomat che non riusciamo a far funzionare, distributori automatici, videoregistratori e macchinette del caffè da cui non otteniamo nulla, nemmeno una goccetta nera nera e bollente, come la scrollatina di una divinità imperscrutabile e dispettosa. Ma quanto sono stronzo, pensiamo allora in questi altri e numerosi casi.

Oggi però tocca festeggiare: l'ottimismo, l'autostima hanno provvisoriamente sconfitto il malumore. Quanto sono ganzo, sì. Sono riuscito a individuare quella che a me appare come la definitiva tara della mia generazione, che ho appena deciso di battezzare “generazione paròl”.

Avete presente il gioco del poker? Dopo aver distribuito le carte e lanciato il cip nel piatto, quindi aperto con una manciata di fiches, cambiato le carte loffie dal mazziere, esistono diverse opzioni. E' possibile proseguire nella partita rilanciando, oppure vedere il gioco degli avversari o semplicemente mollare il colpo, ritirarsi per la consapevolezza dei propri limiti, rifiutandosi di mettere la posta richiesta per continuare la sfida.

In alternativa, si può chiamare paròl.

Che significa che tutto quanto maturato fino a quel momento, se c'è un accordo tra i giocatori, viene tenuto lì come sospeso, ibernato, affidando alla mano successiva il compito di decretare un vincitore. Le carte vengono allora deposte come i guantoni alla fine del round, se ne riparla al giro successivo.

Generazione paròl significa dunque che c'è una generazione – la mia generazione – che ha rinunciato alla partita, preservando il proprio soldo di bellezza e verità da quel pericoloso azzardo che è la vita, dove sempre tocca rilanciare in moneta di sogno sulle generazioni che ci hanno preceduto.

O meglio: abbiamo differito il momento presente, delegato al futuro tanto gli inciampi che le possibilità.

Con ciò abbiamo naturalmente anche risparmiato in errori, velleità mal risposte, smottamenti al culmine della piramide dei gettoni colorati, che come sono arrivati possono sempre scappare via. Non c'è insomma il rischio di incappare nel Marsigliese con gli occhi di ghiaccio che ti spenna fino all'ultimo quattrino, con l'aiuto magari di un asse di troppo nel risvolto della giacca. No, non è una minaccia che corriamo noi, che ha corso la mia generazione ormai già lontana cento mutui e assicurazioni sulla vita dal tavolo da gioco, con le sue nebbie dense di Marlboro.

Noi abbiamo smesso di giocare e siamo rientrati a casa prima del gong finale, dove ci aspettavano mogli e figli ancora alzati davanti un vecchio film di John Wayne: lui che avanza nell'ombra opprimente di una casa, si gira un'ultima volta a osservare gli altri dalla cornice pittorica della soglia, la sua famiglia finalmente riunita, felice...

Ma infine si rigira e incammina verso la luce abbagliante della prateria. Titoli di coda.

Saranno dunque Loro a proseguire nel gioco, i nostri figli, di cui siamo entusiasti al limite della nevrosi, euforici e orgogliosi come nessun'altra generazione mai. E sì che fare un figlio è per un maschio così semplice: basta scopare, una rapida sveltina. Ma è quel che serve perché compaiano finalmente Loro, come il Settimo cavalleria, Loro che giustamente fanno rima con oro: a riprendere le carte in mano o rimontare a cavallo, il cappellaccio di tre quarti.

E' dunque alle generazioni future, contraltare radioso di ogni negligenza presente, che la mia ha demandato l'azzardo di una qualche idea di mondo, la scommessa della forma; perfino la vertigine inebriante del male o il ratto delle squaw. A noi è apparso sensato credere che per essere padri è sufficiente generare dei figli, da accudire poi come madri premurose e care.

Quindi abbiamo chiamato paròl.

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