martedì 4 gennaio 2011

Fuckin Anne, o sull'intransitività del duale


Stavo guardando un vecchio filmato su YouTube in cui Anne Sexton legge una sua poesia. E pensavo: bella. Non la poesia, intendo, che il mio grado di comprensione dell'inglese parlato afferrava solo per brevi e improvvise schegge sonore, come se una grande nuvola nera lasciasse filtrare i raggi del sole secondo l'estro del vento, i singhiozzi del caso. Ad essere bella era dunque lei, Anne Sexton. Di quella bellezza, però, di solito non attribuita agli artisti e ai poeti – non era la bellezza del vento, della nuvola – ma conficcata dentro la polpa viva e pulsante del sole; una bellezza che ti fa socchiudere gli occhi, se la fissi troppo a lungo.
Avevo già provato una simile sensazione con Ingeborg Bachmann, o con Sylvia Plath. Anche Alda Merini, che onestamente non era proprio bella, bella come lo è invece in modo flagrante e quasi teatrale la Sexton - gli occhi chiari e affilati fissano l'obiettivo che la riprende, prima di fare l'occhiolino allo spettatore - mi provocava a volte lo stesso leggero capogiro, mescolato a un inquieto senso di stupore e d'attesa. Io non sono un consumatore abituale di poesia, lo confesso. E a maggior ragione nella poesia femminile avverto una distanza che non sempre ho voglia di colmare con sforzo e intenzione. E' il corpo stesso delle poetesse, specie quelle vissute tra il dopoguerra e gli anni settanta, con biografie complesse e tormentate, a procurarmi questo turbamento dei sensi. Mi appaiono come la propaggine estrema di un continente perduto, sommerso dagli anni ottanta e poi dall'arguzia ermeneutica, quando non del tutto cialtrona, poco importa, del presente letterario.
Ancora più che negli scrittori maschi, nelle poetesse “perdute” si percepisce invece lo stigma di una risoluta serietà, riflesso di una totale e perfino scandalosa coerenza tra esito formale e proposito emotivo. Che non ha nulla, tra parentesi, di manieristico o sperimentale, ma quasi il tratto evangelico di chi dica sì il suo sì, e no il suo no. Così se Anne Sexton, con una voce dalla tonalità ruvida, quasi teppistica nell'intonarsi sornione e dilatato, pronuncia la parola love, tu avverti che sta parlando proprio d'amore, quella roba lì, la senti crescere tra la pancia e il plesso solare e poi salire ancora, a bagnarti gli occhi. Lo stesso per death, avverti la morte, il fiato sul collo della morte, che nel suo caso aveva la consistenza densa e opaca del monossido di carbonio, a saturare prima le pareti del piccolo garage e poi i polmoni ed il cuore. E infine fuck, lo capisci che vuole dire proprio scopare, fottere, cif ciaf di corpi che si incastrano senza il filtro di qualche romantica nuvoletta e viceversa la cosa in sé, che non è forse nemmeno una cosa ma la parola che ad essa rimanda, in un continuo richiamarsi con l'esperienza, mai concluso.
Ecco, questo assurdo cortocircuito tra parole e mondo io ormai riesco ad avvertirlo solo nelle poetesse, prima ancora che nei poeti; e poi nei matti, gli ammalati, gli ossessi ed i mistici. E naturalmente anche nel sesso, to fuck again. Scopare non vuole infatti dire fuggire il mondo e le parole dentro un altro corpo, protettivo e tiepido come la coperta di Linus – per quello basta un corso molto soft di meditazione New Age, o ancora meglio una domenica pomeriggio davanti alla televisione. Nel sesso si percepisce piuttosto l'assoluta divaricazione che, tanto tra una parola e il suo simulacro quanto tra un cazzo e una fica, si spalanca tra di noi senza possibilità di una vera e definitiva sintesi. Uno spazio che nemmeno il gesto riesce a ricolmare: si scopa per riscopare, almeno quando le forze lo consentono. Ed è un cerchio che non si chiude mai, se non al prezzo del cerchio stesso.
Scrivere poesie allora non significa forse altro che il medesimo gesto, sempre sconfitto sul nascere, di chi provi a prendere sul serio questa impossibilità, e con la corrucciata fede di un bambino che si traveste da indiano pronunci anch'egli il suo "facciamo come se": come se il mondo fosse ricomponibile in sillabe, sapendo perfettamente che non lo è. L'intransitività del duale, potremmo dire così, che per quanto impossibile va condotta fino alle estreme conseguenze di una lingua. O se preferiamo, ma che poi è lo stesso, di una vita. Perché vivere significa in fondo anche scoparsi Anne Sexton, con trentasette anni di ritardo in uno sgranato bianco e nero su YouTube.

4 commenti:

  1. Nemmeno dopo aver riletto una decina di volte svanisce l'incatesimo. Che sia lo stesso "capogiro" di cui parli?
    Grazie, grazie.
    Rileggo ancora.

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  2. grazie. anzi: grazie grazie, come scrivi tu. non ti firmi, ma qualcosa mi dice che sei una donna. doesn't it?

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  3. che sia forse "l'assoluta divaricazione" tra quello che scrivi e quello che leggo? forse. Ma se per te fa qualche differenza, sì, sono una donna. Di nuovo grazie.

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  4. ...se per me fa qualche differenza? beh, dopo aver scritto un intervento sulla differenza, immedicabile, quasi ontologica, di tutto quanto, sarebbe davvero buffo se non facessi "differenza" tra un uomo e una donna... non ti pare?

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