mercoledì 26 gennaio 2011

Bellezza & Bizzarria


E' solo un dettaglio, una lieve increspatura sulla superficie mobile e frusciante del reale. Ma forse, invece, già un sintomo. Mi riferisco al diffondersi di suonerie elettroniche sempre più bizzarre e stravaganti, non necessariamente belle ma tanto tanto originali, con cui carichiamo il colpo in canna ai nostri telefonini: certi dell'effetto ilare e seducente del suo BUM, quando qualcuno ci chiami in mezzo a una folla affaccendata o distratta.

Addirittura, da qualche tempo, ai ritornelli televisivi nostalgici come Heidi, Goldrake od Orzowei, si stanno affiancando veri e propri dialoghi espunti da film famosi; tanto da non essere poi in grado di distinguere la telefonata dal chiacchierio circostante, confondendola con l'ordinazione di un cappuccino – “con molta schiuma, mi raccomando” - della nostra vicina trafelata di bancone.

Eppure, nonostante la funzione di richiamo si renda così sempre più incerta, la bizzarria di queste brevi clip sonore deve procurarci una qualche forma di piacere, non se ne spiegherebbe diversamente la diffusione. E' come se ogni volta che parte la vocina di Topo Gigio dal nostro Nokia, pensassimo tra noi: adesso li stendo, li stupisco, mostrando a tutti quando è ganza la mia suoneria, quanto è singolare.

Il termine chiave di questo meccanismo psicologico mi sembra dunque proprio quello di singolarità. A significare quell'elemento discreto e particolare – la qualità che ci distingue dagli altri, che ci rende riconoscibili e unici – con cui scontorniamo il profilo della nostra sagoma dalla folla, la nostra esclusività di persona. Ma ancora i conti non tornano completamente: in che modo riusciamo a individualizzarci in Provolino, o sovrapponendo la nostra irripetibile impronta sulla sabbia a quella di Furia cavallo del West, che beve troppo caffè e poi fa il pieno di fieno...?

Ecco, il cortocircuito davvero inquietante è che l'identità è tale – cioè appunto singolare, distinta dal brusio di fondo dell'umano – se quel tratto di diversità che esibiamo comunica un aspetto davvero decisivo di noi; altrimenti è una forma di conformismo che ci rende ancora più simili agli altri, uniformati all'andazzo generale. Se io penso di denotarmi per il semplice fatto che mi appello a un'idea astratta e generica di diversità, quando anche il mio vicino si riferisse a categorie come bizzarro, eccentrico, caratteristico e appunto singolare - o come dicono gli anglosassoni: cool -, saremmo perfettamente omologhi nella nostra presunzione di distinguerci. Per quanto dal suo telefonino squillassero le note di Raffaella Carrà che canta il Tuca Tuca e dal mio il dialogo grottesco di un film di Quentin Tarantino, l'esibizione congiunta della nostra volontà di distinguerci, che è ben diversa dalla distinzione, ci renderebbe infatti perfettamente identici, speculari.

Questi stessi caratteri, che sono ovviamente estendibili - e anzi vanno estesi - a qualsiasi campo dell'esperienza e non solo alla telefonia, dovevano già covare dentro un'epoca di poco trascorsa, o forse sono addirittura un tratto distintivo e costante nel nostro paese. Si ritrovano così anche tra le righe di una breve e bellissima poesia di Sandro Penna, descrittiva quanto profetica:

Beato chi è diverso

essendo egli diverso,
ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.

Ne ricaviamo che un'autentica diversità, per Sandro Penna, non si manifesta nell'esibizione formale di una variazione di superficie, ma in qualcosa come un'essenza, l'intima comunione con se stessi. Intuizione che ha saputo poi precisare dentro altre poesie e riassumibile quale condizione vagamente febbrile, in cui si venga come trasportati in una dimensione dai confini incerti e non più definiti dal perimetro dell'identità, che senza esitazione io mi sentirei di chiamare “bellezza”.

Cos'è infatti la bellezza se non l'essere agganciati da una forza superiore, l'orbita di un pianeta invisibile a cui non siamo in grado di resistere, ne diventiamo satelliti, fino al progressivo sgretolarsi dei bastioni delle nostre minime certezze che si traduce in piacere vago, sperdimento dentro qualcosa che avvertiamo come altro, ma allo stesso tempo anche proprio. Per una sorta di paradosso questa sensazione, simile a un'epifania, alla manifestazione di una novità radicale in un orizzonte quotidiano, ci rende infatti anche intimi (gli psicologi lo chiamerebbero forse un “insight”) a quel nucleo emozionale che avvertiamo come realmente e definitivamente personale: non bizzarro o caratteristico ma semplicemente diverso, nostro.

Bellezza e bizzarria non solo non sono termini equivalenti, ma, allora, polarità antitetiche entro cui oscilla il pendolo estetico della modernità, che dalla bellezza e verso la bizzarria sembra dirigersi anche nei piccoli comportamenti senza apparente significato, come rispondere a una chiamata sul telefonino. La bizzarria come contrario della bellezza, è questo che ci raccontano dunque i nostri gesti. E i nostri gesti sono il tableau vivant della nostra storia.

Per libere associazioni potremmo perfino arrivare a sospettare che è proprio la bellezza, con il suo più immediato correlativo che è l'amore, la qualità che consente di perdersi affinché ci si possa ritrovare, come suggeriscono numerosi passaggi delle Scritture. O se preferiamo, perdersi nel mondo per ritrovarsi in Dio non significa forse altro che abbandonare l'ostinata e rassicurante sensazione di veder riflesso il volto in una canzoncina eccentrica e vezzosa, per incontrarsi finalmente dentro un'immagine dai contorni ancora inauditi e lontani, che non è me ma allo stesso tempo parla sempre e solo di me. Tanto che perfino Nietzsche, il filosofo probabilmente più frainteso, anche da se stesso, aveva intuito che si deve diventare e non già essere quel che si è.

Ma fino a quando rimarremo aggrappati allo scoglio roccioso dei nostri minuscoli piaceri singolari - “una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte, salva restando la salute” - non incontreremo mail la bellezza, non diventeremo mai quel che siamo, compiacendoci unicamente di come gli altri si girano incuriositi al trillo di vecchie e buffe canzoncine della nostra infanzia. Beandoci di essere diversi, sì, quando siamo invece soli e così disperatamente comuni...

3 commenti:

  1. Allora lode a Luigi che ha lo squillo del telefono tradizionale

    RispondiElimina
  2. io, invece, che sono un perfetto conformista della "diversità", squillo dentro le note di volare di mimmo modugno, ma nella preziosa versione di dean martin, che sbaglia tutte le parole in italiano. una suoneria bizzarra, dunque. eccentrica e singolare e vagamente cialtrona. ma anche tanto tanto bella...

    RispondiElimina
  3. io, da buon tamarro, The Trammps - Disco Inferno...

    RispondiElimina