Matteo Marchesini, un critico letterario intelligente e capace, lo penso davvero, non è una captatio benevolentiae che anticipa il pugnale da conficcare nella
schiena, Matteo Marchesini ha appena pubblicato su Facebook un post di cui mi
sono segnato alcuni passaggi:
“la miserabile truffa di Arminio”;
“collane un tempo prestigiose e oggi devastate
tipo la bianca Einaudi”;
“il kitsch gualtieriano”;
“poesiole adolescenziali di chi vorrebbe provocare
mettendo la cronaca nera in versicoli prosastici”.
Nella sostanza di alcune di queste affermazione
potrei anche trovarmi d’accordo, come sul giudizio, ugualmente severo, su molti
autori attuali e non che godono di un consenso automatico, da tifo calcistico
più che da meritato prestigio artistico. Un nome su tutti: Gadda, di cui
nemmeno io ho mai compreso la centralità all'interno del canone letterario
(possiamo trovare il pensiero di Marchesini su Gadda nel saggio Casa di carte, il Saggiatore, 2019).
Ciò che mi colpisce nelle sue parole non è dunque
lo strato di senso sommerso, ma le parole stesse che scintillano come baionette in superficie. Perché, ad esempio, quella
di Arminio sarebbe una truffa? Si sta riferendo alle poesie oppure
alla persona? In entrambi i casi: se sei un truffatore perché non vendere Rolex
falsi? Si guadagna di più che con le poesie.
E comunque, già il sostantivo truffa contiene un
elemento liquidatorio che esorbita la sfera del testo – non viene il dubbio al
critico che le poesie di Arminio, ad Arminio, semplicemente piacciano così, e
per questo le scriva senza volere truffare nessuno – ma è con l’aggiunta
dell'aggettivo che la mia lettura ha avuto un sobbalzo: miserabile, miserabile truffa.
Quando sopraggiunge un elemento incongruo i cani
alzano le orecchie e piegano di lato il muso, mentre le persone si precipitano
a fare una ricerca su Google. Che è quanto ho fatto io, e la prima definizione
trovata è la seguente:
Miserabile, aggettivo e sostantivo maschile e femminile
1.
aggettivo
Che provoca desolazione, avvilimento, compassione
materiale o spirituale; che denota miseria, povertà, squallore: che aspetto m.
ha quel poveretto!; condurre una vita m.; ridursi in uno stato m.; abita in una
m. stamberga.
2.
aggettivo
Epiteto di grave biasimo, diretto contro chi
riveli, nel comportamento, una repellente bassezza morale; ignobile, spregevole.
"è un m. traditore"
Lo spettro semantico è ambivalente, ma sempre
ruota attorno a elementi di commiserazione e disprezzo, addirittura
spregevolezza. Chi non scrive delle belle poesie sarebbe dunque spregevole: un
poveretto da sbertucciare su Facebook, o nella migliore delle ipotesi
compatire. Ma allora che parole dobbiamo utilizzare per chi uccide, stupra, prende le tartine dell'happy hour e poi ci sputa sopra, prima di rimetterle al
loro posto? Non rischiamo a questo modo di saturare le possibilità espressive,
come già avviene con i titoli strillati dei giornali?
Domande, ancora domande. A cui segue per coerenza
logica un'interrogazione più radicale: ma davvero la letteratura è oggi tanto
importante, importante nella vita delle persone intendo, decisiva alla maniera del collo per la giraffa o i tatuaggi per i calciatori, tanto da insultare chi
non è all'altezza di un idea formale di virtù? E’ questo che mi chiedo, non se
Marchesini abbia ragione o torto nei propri giudizi, per altro ampiamente
argomentati; almeno nei saggi, meno, come naturale, sul web.
Se la risposta all'ultimo interrogativo fosse sì,
e cioè le poesie di Arminio causano la deforestazione dell’Amazzonia, il buco
nell’ozono, la guerra in Ucraina, le polveri sottili, il Covid ecc., bene fa il
critico a utilizzare termini enfi di pathos drammatico. Diversamente, l’aggettivo
miserabile attribuito al gesto di un poeta mi sembra decisamente eccessivo.
La misura della letteratura rispetto alla vita e,
di riflesso, quella della critica letteraria, mi sembra così diventare il tema
autentico da osservare in filigrana. Un eccesso di prossimità non aiuta a
mettere a fuoco la reale consistenza dell'oggetto indagato, come chi si
avvicini troppo allo specchio per spremere un foruncolo. Ma c'è almeno uno
scrittore che ha piena coscienza del suo fare, e riesce a restituirne l’incidenza
in forma sintetica: "Non credo che oggi uno scrittore possa influire sulla
storia del mondo o sull’opinione pubblica. Questo accadeva in passato, quando
gli scrittori erano pochi e quello che scrivevano veniva letto.» (Antoine
Volodine.)
Provando a chiosare il grande scrittore russo,
potremmo ipotizzare che la perdita di importanza della parola letteraria e, più
in generale, dell'arte, sia in connessione dinamica (i famigerati vasi
comunicanti) con nuove forme di simbolizzazione, tra cui le canzoni e in
particolare l'incalzare rimato del rap, le serie TV, i social network. Tutto
ciò ha finito col confinare l'arte a una sorta limbo auto riferito, in cui il
critico che dà del miserabile allo scrittore ricorda il bambino che ha quale
orizzonte di senso il suo compagno di banco, ma si smarrisce tra i corridoi che
conducono alla direzione dell'istituto.
Solo in questa gigantizzazione del marginale
(parlo sempre in ottica sociologica) trova ragione l'astio contenuto nelle
frasi che ho riportato, potrei aggiungerne molte altre. Tecnicamente si
tratta di iperboli: attribuire a una collana letteraria il carattere,
addirittura, di devastazione; oppure
fare di molti fili d’erba un unico fascio kitsch,
in cui racchiudere le poesie di Mariangela Gualtieri; ma forse dovrei scrivere poesiole, come quelle, adolescenziali, di chi vorrebbe provocare mettendo la cronaca nera
in versicoli prosastici.
Un registro linguistico che a me ha ricordato un
vecchio monologo di Giorgio Gaber, in cui l’amore diventava plus-amore. “Il
plus-amore”, spiegava l’artista milanese sbracciandosi sulla scena, “sarebbe la differenza
fra quel sentimento normale che io produco e quello che invece espongo al
pubblico. Guardatemi! Sono tutto una roba d'amore. Tutta una roba d'amore che
mi esce da tutte le parti, BLOOH, BLOOH, BLOOH!”
Ecco, a me basterebbe una critica letteraria che
si attenesse al proprio mandato lessicale: critica, anche severa, dei testi
letti e poi commenti pubblicamente; non siamo al bar assieme a quattro amici
con cui possiamo dire che le donne sono tutte troie; tranne ovviamente la mamma
e, forse, le sorelle.
Si sta invece affermando in questo Paese una antinomia inquietante nel discorso critico. Il primo e più diffuso approccio possiamo chiamarlo minus-critica, ed è fondato su rapporti personali – amichettismo, secondo il fortunato conio di Fulvio Abbate – che vengono trasfusi agli inserti culturali dei quotidiani, dove scrittori recensiscono altri scrittori nella forma della complicità, che porta a una apologia spensierata dei testi sottoposti a benevolo pregiudizio. L'altro approccio è quello appunto della plus-critica, bene esemplificato dal caso qui descritto. Il modello è la canzone di Giorgio Gaber:
“Guardatemi guardatemi” dice il plus-critico, “sono tutta una roba di intelligenza e insofferenza. Tutta una roba di disgusto, biasimo, muco merda pipì che mi esce da ogni orifizio. E che poi riverso (BLOOH, BLOOH, BLOOH) sugli autori sottoposti al vaglio della mia intelligenza superiore.”
Intelligenza e acume che qui nessuno contesta a
Marchesini. Ma la commisurazione tra parole e loro significato
storico – si chiama principio di responsabilità, immagino – sarebbe gradita da
parte chi occupa un ruolo esposto in quello che un tempo veniva chiamato
sistema culturale, ora non so. Forse adesso si chiama plus-cultura.
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