Lo stesso dispositivo che, secondo una moda filosofica recente, potremmo
definire situante, agisce sul punto
di vista interno alla narrazione costituito dai personaggi, anch'essi portatori
di una sorta di marchio di fabbrica; può essere più o meno preciso (il giovane, ad esempio, in luogo delle
sue specifiche anagrafiche), ma comunque da inserire in uno spazio virtuale
manifesto, in cui nel corso della narrazione il prima si fa poi. Kundera arriva
così a concludere che uno degli scopi del romanzo è proprio interrogarsi su
cosa significhi avere una certa età, oltre a essere nati in un determinato
posto, con quegli amici, genitori, strade, palazzi, lingua, suoni.
Se le cose stanno a questo modo, mi sembrano del tutto inconsistenti le
critiche alla nuova serie di Zerocalcare, Strappare lungo i bordi, che la vogliono troppo romana,
oppure adolescenziale o, ancora, intrisa di sottocultura da centro sociale.
Semplicemente, quello è il mondo – la smagliatura nello spazio-tempo – che
all’autore preme raccontare: la vita di un adolescente che gli rassomiglia
cresciuto nella periferia romana dei primi anni novanta; e nella periferia
romana, allora come adesso, si parla romano, non vedo quale sia il problema.
Cercherei piuttosto di capire se questa sua deliberata scelta del
particolare – “se vuoi essere universale parla del tuo villaggio”, già ammoniva
Tolstoj – riesca a intercettare un interesse diffuso, e cioè quell’universalità
di cui dice il grande scrittore russo. I temi non mancano: la marginalità
sociale; il desiderio di riconoscimento; l’amore ricercato e a un tempo temuto, mancato, quindi rimpianto; l’amicizia;
il lavoro e la sua assenza; la generazione di una coscienza critica nella forma
reificata di un armadillo, con cui avviare dei buffi dialoghi interiori; la morte; la
degradazione dei vincoli comunitari e una diffusa bizzarria sociale, forse
specchio deformante di rabbia, frustrazione ecc.
Insomma, c’è un’abbondanza di materiali che vanificano le critiche di una
prospettiva autoriferita, in cui il particolare invece di spiccare il salto
verso l’alto o, meglio, verso l’altro costituito dallo spettatore, si
tradurrebbe in particulare,
orgoglioso e idiosincratico compiacimento della propria differenza. No, non è
così. C'è molto mondo in Zerocalcare, anche e soprattutto quando tiene le
palpebre semisocchiuse.
Una visione interposta che si ottiene attraverso il principale strumento di
cui un artista si avvale: lo stile, ossia la capacità, quando c’è, di plasmare
quei materiali in forma di racconto, digressioni, ritmo. E anche qui, mi pare
che Zerocalcare ne esca con più meriti che magagne; sa insomma padroneggiare le
storie che racconta, strappandoci, ogni volta, un pensiero o un sorriso.
La nota stonata mi sembra piuttosto da ricercare in quella corrispondenza,
non importa se vera o presunta, che l’autore persegue fin dalle origini con i
suoi personaggi; nella serie su Netflix il sostituto biografico è costituito da
Zero. Nelle prime tavole disegnate da Zerocalcare il rispecchiamento
funzionava, secondo una strategia narrativa che si stava affermando nel periodo
e che con prestito francofono (qui americanizzato nella pronuncia) viene
chiamata autofiction. Poi però il
gioco si è inceppato.
Vediamo dunque cos'è successo nel frattempo. Si crogiola
nell’incomprensione, quanto tutti lo celebrano; parla di marginalità sociale ma
è al centro dei riflettori; dice di non essere amato con i fan che lo aspettano
sotto casa per sfiorarne il lembo della felpa, come si fa con il mantello dei
santi; ha problemi di soldi nonostante Netflix lo strapaghi; dà voce a un
eterno sedicenne, quando di anni ne ha trentasette.
E però, attenzione: il soggetto delle prime affermazioni è il personaggio,
Zero, mentre delle seconde Zerocalcare, o meglio ancora Michele Rech, questo il
nome di battesimo dell’artista romano nato a Cortona il 12 dicembre del 1983 da
madre francese. Posto dunque che l’autofiction è più finzione che “auto”, nel
nostro caso l’ambiguità biografica non giova più al suo oggetto espressivo, il doppelt, negli anni, si è reso
completamente indipendente dal demiurgo, e nessuna pozione è più in grado di
consentire la conversione tra il Dr. Jekyll e Mr. Hyde.
Un’impasse, quella tra autore e suo sostituto simbolico, che abbiamo già
incontrato altre volte, ad esempio nelle ultime canzoni di Bruce Springsteen:
come possiamo accordargli di nuovo la nostra fiducia (la famigerata sospensione dell’incredulità) quando
continua a cantare di scorribande notturne tra i neon di vecchi distributori di
benzina e sdentati drop out, mentre ora lo sappiamo giocare a golf con Barack
Obama, condividerne gli yacht?
Meglio sarebbe allora se Springsteen avesse istituito una distanza più
netta tra autore e personaggi, e lo stesso Zerocalcare; bastava assegnare al
protagonista della serie un nome diverso, e ciò anche se è una storia
romanzata e non il presente del suo autore, che dalla traccia mnestica del
fanciullino che è stato continua a spremere idee feconde. In fondo, anche la
fantascienza più spericolata non potrebbe prodursi senza il trampolino
dell'esperienza di chi scrive.
Peccati veniali, certo, a fronte di una serie che ho trovato più carina che
geniale – alla fine nulla è davvero inaudito in questa recherche adolescenziale
compiuta con garbo e ironia. Non merita la liquidazione superciliosa dei
commentatori più cinici e distratti, ma nemmeno l’acclamazione di nuovo genio
dell’underground.
Nessun commento:
Posta un commento