venerdì 5 aprile 2013

Ovetti, o su amore, sesso e vocabolari

Del  ciclo femminile, ho letto da qualche parte tipo Focus, quindi prendetela con le pinze, non si capisce nulla se continuiamo a usare termini come creazione – il muratore che mescola la sabbia con il cemento, si accende un'Ms e infine stende piano il calcestruzzo –, quando la parolina magica è piuttosto sviluppo. E stiamo parlando dell'ovulazione, ovviamente. Ma sempre e in qualche modo di una casa da innalzare. Prima di quella pietra angolare della vita costituita dall'ovulo, abbiamo però l'ovocita, anzi centinaia di ovociti, uno al mese per circa quarant'anni di età fertile (all'incirca cinquecento, dunque), che dalla preadolescenza in poi si trovano già conficcati dentro il ventre di una donna, uno accanto all'altro come le palline dei vecchi calcio balilla, in attesa di essere scagliate nella ressa. Quindi parte il conto alla rovescia: fuori uno, fuori due, fuori tre... La nostra casa da cui ogni mese casca un mattone, vedetela, se preferite, a questo modo. Ma se le cose vanno come la natura vorrebbe, basta che un singolo mattone incontri il suo architetto per edificare un nuovo ed enorme castello. Ed è così che nel corpo di Silvia, dodici anni, gambe lunghe e occhiali Dolce & Gabbana dalla montatura fucsia, sono allineate e scalpitanti le provviste di ovociti che le serviranno nei decenni successivi, da lei dilazionate con cura: a ogni rivoluzione lunare, una cellula uovo che si attiva a turno nelle ovaie e viene immessa nella corrispettiva tuba di Falloppio, si trasforma in gamete e poi declina e si corrompe; a meno che non venga fecondata da Gabriel, riccioli neri che spiccano dall'ultimo banco, corpo tonico e una vera passione per le arti marziali, trasformandosi in zigote; se ciò non avviene l’ovulo si rompe e viene espulso, ecco come funziona, a spanne, il meccanismo riproduttivo. Pura ritmica, con una nota di armonia nel solo (rapidissimo) momento della copula. Che è un’immagine buffa e inquietante, a pensarci bene. Come se al suo esordio nella vita una donna disponesse di un tesoro – il mondo, la forma integra e palpitante del divenire, in un’indistinta e germinante totalità di ovetti –, senza che però lo stesso tesoro le appartenga fino in fondo: è a termine quel giacimento, è un leasing. Oppure una casa, abbiamo detto. Ma nella corsa alla metafore che è il pensiero quando prova a imitare la generazione, anche un  juke-box, un juke-box che funziona curiosamente all’incontrario. A ogni canzone una monetina viene sputata fuori, fino a che, raggiunta la menopausa, una donna non è più confusa nel generico inno universale che intona il coro della specie umana, ma diventa finalmente e solo il suo canto, quella donna lì, Silvia Bacigalupo. Credo che sia questo il motivo per cui le ragazze, depositarie di qualcosa tanto più grande di loro, ma soprattutto altro come è altro lo spartito dell'orchestrale, sono così desiderabili per gli uomini che iniziano ad avvertire la corsa dei calendari, alla maniera di quei vecchi film in cui il vento fa volare la targhetta dei giorni: perché i maschi non le mettono a fuoco, non le riconoscono dentro la foto di classe, a malapena sanno balbettarne il nome, figurati il cognome: “Era la nipote di Mubarak? Boh, sì, forse, chi lo sa…” E però gli uomini anziani, compreso i semi-stagionati come me, odono distintamente il tintinnare delle monetine chiuse nella pancia delle giovani femmine, e vorrebbero, anzi vorremmo rompere il salvadanaio e tuffarci insieme a Paperon de Paperoni, per nuotare tra gli zecchini d’oro come ai tempi belli della nostra gioventù, in cui anche noi avevano tutti i nomi tra le dita. Essere giovani, tra gli altri innegabili vantaggi, significa infatti non avere ancora la certezza di un nome, essere colmi di vocali e consonanti, mescolate in un sacchetto simile a quello dei gettoni della tombola. Ma a ben vedere, la differenza tra sesso e amore bisbigliata languidamente da Julio Iglesias (“Sono un pirata e un signore \ non confondo il sesso con l’amore”) è sempre e ancora questa: puoi possedere un corpo, il corpo giovane e tonico di una studentessa attraverso cui ti sembra di riconnetterti con una generica potenza, con il Tutto, il tempo e il ribollire del brodo primordiale – ed è piacere allo stato brado, c'è poco da aggiungere – ma la natura in cui si incarna ogni cosa quando esce dal limbo del possibile puoi amarla solo nel momento in cui si infrange, quando acquista un nome e uno specifico profilo, una storia e un destino – le uova sono tutte uguali, diversa è la sorpresa… Io non lo so quindi se Silvia amerà mai Gabriel e Gabriel Silvia: a quell’età, possono essere fortunatamente anche solo un ragazzo e una ragazza, due anonimi giocatori che rimestano nel sacchettino che contiene tutte le lettere del mondo, ma nessuna parola ancora. Prendendo poi strade diverse come i gatti, stirando le zampette agili e solo un po' impigrite, dopo il grattino e le fusa. Ma alla nostra di età, siamo vagamente patetici, ecco, pensavo, se ancora non abbiamo imparato a sillabare il nostro nome, né quello della donna che ci sta di fronte. E chi se ne frega di quanti ovetti mancano dalla scatola, quando sappiamo che finirà comunque tutto in frittata...

3 commenti:

  1. Hai detto bene: patetici. Ciao, mg

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  2. ciao...perché patetici, forse sognatori...poi questa interpretazione delle "uova" la trovo maschilista, come donna, ex ragazzina, non vivo allo stesso modo il "meraviglioso" mondo del ciclo..scusa la sincerità.

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