mercoledì 27 marzo 2013

Uomini & donne, o sul Taoismo al tempo di Lupo de Lupis



C’è una cosa, pensavo, nelle donne come negli uomini contemporanei, che almeno in questo siamo uguali
e un po’ sgangherati ma finalmente alla stessa stregua: una foto di classe in cui qualcuno fa le corna, un altro le boccacce e però, nell'insieme, ciò che emerge è incredibilmente omogeneo, ricordando curiosamente lo stemma grafico del Tao. Il Tao, sì. Quella immagine circolare che negli anni settanta si incorniciava dentro pendaglietti di bigiotteria, venduti poi tra gli ombrelloni assieme a incensi orientali dalle fragranze dolciastre, maschere africane intagliate pazientemente nell'ebano, la stessa mano ossuta che dava forma a elefanti disposti in progressione di grandezza e da non dimenticare i cilum in terracotta, subito collaudati con stordita euforia dietro le dune, prima di fiorire sulla copertina dei libri New Age: il Tao, un puntino nero dentro la metà bianca e un puntino bianco dentro la metà nera, che si compenetrano morbidamente.

Credo che, nell’intenzione di chi per la prima volta l’ha disegnato, stesse a significare la presenza di un elemento paradossale che pervade ogni cosa – lo Yin, principio femminile che si dischiude al cuore dello Yang, principio maschile, e viceversa – insinuando un interrogativo sugli opposti che dovrebbero contrapporsi per definizione. Oggi è diventato perfino ovvio affermare che c’è qualcosa di femminile in ciascun uomo e un po’ di camionista bulgaro anche in un’etoile della Scala, ma rimane immutato il piacere di mostrare di saperne una più del diavolo, e di essere più sgamati e scettici di un televenditore di materassi.

Due puntini dunque, diverso il colore, medesima e sovrapposta la disposizione sull'asse verticale, in una simmetria che non contempla esclusioni, danzando il ritmo di una perpetua ma a ben vedere fasulla dialettica. L’incontro infatti non si risolve in sintesi, già che zolfo e pietra devono rimanere separati per poter scoccare una nuova scintilla, il lampo che avvia la locomotiva dell'accadere ("il fulmine governa ogni cosa", scriveva già Eraclito in Occidente). Quel che a me incuriosisce è però che, dopo aver preso confidenza con l’immagine del Tao osservata da vicino, sempre più vicino, abbiamo finito col concentrarci sulle sue minime pupille, dimenticando le ampie distese da cui occhieggiano smarrite: due enclavi recalcitranti in terra differente e ostile, tifosi che hanno sbagliato curva al derby e appallottolano le sciarpe per non farsi notare nella ressa. Ma noi, invece, ci accorgiamo solo di quelle sciarpe seminascoste, non degli enormi striscioni che ondeggiano tra i cori della squadra di casa. Noi ora vediamo (saggiamente) lo zolfo nella pietra e la pietra nello zolfo, ma ci siamo scordati degli elementi originari in cui fanno tana gli opposti, che come le spalle di Atlante sostengono l’universo.

Ma facciamo un esempio. Fino al tardo dopoguerra, i maschi, ossia lo Yang in diluizione antropica come certi vecchi dopobarba alla lavanda, subivano il richiamo di quel particolare Yin rappresentato da donne semplici, fascinose e procaci come Silvana Mangano, o Marisa Allasio in Poveri ma belli. E il modo in cui lo Yin femminile replicava ai prego signorina che giungevano dall’opposta polarità – parlo sempre per semplificazioni un poco rozze –  era mirando allo Yang in una sua variante simbolica: la potenza, certo, ma meglio se quantificabile sull'abaco sociale di un capitalismo ancora vagamente ingenuo. Il riflettore che illuminava l'ideale maschile si fissava dunque su uomini per così dire consistenti, con posizioni di potere e di agiatezza economica invitanti. Gli attributi erano erano quelli soliti: veloci e rombanti autovetture, orologi preziosi, ville, abiti su misura e occupazioni di prestigio. Uomini vincenti, insomma. Dove il successo aveva nei tempi cupi della guerra, un temporale di cui si sentiva l’odore acre di pioggia sull’asfalto, per usare la bella metafora di una canzone di Paolo Conte, e nella fame subita di recente i suoi termini materiali di confronto. Da cui la figura bozzettistica del "cumenda" milanese, tramandato da infinite commedie di costume.

Continuando a sbirciare in quell’attuale prontuario di sociologia che è il web, mi accorgo, però, che le donne ora gradiscono un elemento di “fragilità” e modesta discrezione (understatement lo chiamano gli anglosassoni, con implicita sfumatura elogiativa), che molto ha del femminile e sembra contrapporsi all'immagine smargiassa dei play boy, così come ci arriva dagli anni cinquanta. Eppure, se ci facciamo caso, queste qualità vengono ricercate dentro il medesimo status: uomini ancora e sempre facoltosi, con una collocazione pubblica di rilievo ma che sanno commuoversi alla vista di un gattino fradicio, mentre al lavoro ci vanno con una vecchia bicicletta –  e comunque, da qualche parte, non importa dove, deve esserci anche una Land Rover... Bello poi è vederli salutare anche il più umile dei dipendenti, invitandolo a dargli del tu con un pacca sulle spalle. E quanto è affascinante un uomo così: ricco, sì, ma soprattutto dentro!

Lo stesso potremmo però dirlo dei maschi. Anche tra i miei conoscenti, se faccio un giro di telefonate, sono certo che faticherei a trovarne uno che ammetta di desiderare gli stereotipi femminili di sempre: innanzitutto giovinezza, ragazze insomma, e però belle, anzi fighe, come si dice a Milano, mentre da Roma in giù è preferibile il termine fiche. No, più nessuno che mostri di volere per sé una figa, o una fica, a vostro geografico piacere, e sempre e solo donne intelligenti e argute, simpatiche, sensibili e generose e colte. Anche un po' "cazzute", perché no... Io non faccio differenza, ovviamente. Nemmeno sotto tortura ammetterei che il mio modello femminile è Ruby Rubacuori, e ciò per il semplice fatto che non sarebbe vero: Ruby, non mi piace.

E' come se esistesse uno sfondo acquisito e dunque non interrogato – la campitura del Tao, potremmo dire, l’elemento opaco da cui emerge il puntino in cui ci riconosciamo nella fotografia – in cui quelle molteplici virtù dello spirito si reificano nelle caratteristiche fisiche della stessa Ruby. Diamo in altre parole per scontato che la botte deve essere piena mentre la moglie ubriaca. E così il culo delle nostre compagne ­– intelligentissime e colte, ca va sans dire – lo pretendiamo tonico e scattante, mentre sotto la camicetta intuiamo lo sbocciare malizioso di seni accoglienti e sodi. Salvo poi tradirle con una ben più giovane replica del clichè, quando scavallano gli "anta".

Possiamo allora ipotizzare che, dagli anni in cui Gregory Peck scorrazzava in Vespa insieme a Audrey Hepburn, sia cambiata solamente la minuscola biglia che si fa breccia nell’indistinto delle cose, mentre i tracciati che la ospitano silenziosi sono rimasti uguali. Per questo a parole, solo a parole, perfino a noi stessi raccontiamo di auspicare a una copia stilizzata di Madre Teresa di Calcutta, la cui unica variante sarà nella molteplicità di scala, come gli elefantini di ebano che seguono in placida e ordinata processione. Ma nelle praterie taoiste dove galoppano i bisonti della fantasia continuiamo a rivolgerci a Marisa Allasio e Silvana Mangano, e le donne a fare cassa nella varietà simbolica in cui si flettono gli archetipi – in fondo, dentro la prospettiva mitologica propria dei desideri inconsci, tra Mario Balotelli e Silvio Berlusconi e Jovanotti non esiste grande differenza: sono tre che “scendono in campo” e fanno gol, ognuno a suo modo (e ognuna a suo modo coniugherà il medesimo modello dentro la propria biografia, scartando – e addirittura snobbando – le versioni che le sono più lontane).

Vediamo insomma solo il puntino manifesto del Tao, lo Ying che macchia lo Yang dei suoi colori e lo Yang che mette in dubbio il perimetro sinuoso del femminile, così dimenticato di essere rimasti la solita semplificata macchina umana: che ricerca potere e ricchezza, salute ed efficienza fisica, bellezza, gioventù, lasciando a terra gli esemplari stanchi e malati, i vecchi e i perdenti. E però in un piccolo ma luminosissimo cantuccio, ci commuoviamo per gli effetti della nostra paradossale natura: perché siamo lupi, sì, ma pure tanto buonini... Dei postmoderni Lupo de Lupis, ecco.

1 commento:

  1. Non è vero niente. Non sono così. Ciò una Fiat Bravo e non vado a lavoro in bici, ché i chilometri sono sensibilmente troppi. A me mi piace Marisa Allasio e pure Silvana Mangano, perché sono belle fighe, senza se e senza ma. I puntini neri nel bianco? Una bella passata col sapone di Marsiglia e se la svignano.

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