sabato 4 febbraio 2012

Letargo


Questo blog, come altre volte è successo, ha perso slancio e motivazione. Il che ovviamente coincide con la figura retorica della prosopopea, già che sono io, guido hauser, il soggetto implicito della frase. Se ben ricordo, era Cesare Garboli, in un breve e al solito acutissimo saggio di alcuni anni fa, a riconoscere come ornamentali e fasulle tutte quelle retoriche che tendono a far coincidere l'espressione letteraria (o se preferite la "creatività" in generale; termine assai di moda ma a cui io preferisco il più modesto, oltre che filologicamente pertinente, inventività) a far coincidere l'arte con la sofferenza dell'artista. Come se lo scrittore fosse l'acino d'uva che la vita deve pigiare con i talloni, per distillare il prelibato vino con cui ristorare il banchetto. E dunque bisogna saltargli sopra, maltrattarlo, pestarlo pestarlo e pestarlo ancora, fino a che dal supplizio non sgorghi anche una sola ma luminosissima lacrima, che poi chiamiamo opera. No, tutte balle sosteneva con esempi convincenti Cesare Garboli. E così anche Giacomo Leopardi, proseguiva il grande critico scomparso, Leopardi che è ricordato come il campione della sofferenza talentuosa, del dolore fecondo, negli ultimi e più prolifici anni della sua vita ha attraversato un momento di vezzosa serenità (si coricava portandosi dei pasticcini dentro al letto, confida l'amico di sempre Ranieri), se non proprio di gioia. Ed è da questi seppur minuscoli raggi tra le nuvole basse dei giorni, che l'arte, ma in generale ogni esercizio umano della libertà, trae il proprio impulso a proseguire. Mentre il dolore vero, la depressione cupa, sono forze che non lasciano scampo. Annichilendo non solo lo spirito ma anche le sue svariate concrezioni, che l'artista dissemina per il mondo quasi fossero le erme di un'antica polis, a ricordargli ad ogni crocicchio la felice euforia di un momento di intimità con le muse, e alla città quel che avevano da suggerire le stesse muse, non certo l'artista che è solamente il loro umile stenografo. Ecco, tale meccanismo, nella mia esistenza, si è nuovamente e forse per sempre inceppato: felicità espressiva, piacere alfabetico e sintattico, allegrezza verbale. Oltre che, o forse soprattutto, fiducia nella potenza transitiva e consolante delle parole, di un ordine possibile da spartire con la comunità di cui faccio parte; ammesso che ancora esista qualcosa che esorbiti la finestrella di un monitor, e gli abissi dell'ombelico. Ma avendo già sperimentato i misteriosi cicli dell'umore, preferisco evitare, come sarei in questo momento tentato, di sigillare la provvisoria avventura del blog che state leggendo con il più irrevocabile dei congedi. Fine. Chiamiamolo dunque letargo: nel dubbio che, prima o poi, la vampa gialla del bucaneve ritorni a fare il solletico all'inverno...

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