mercoledì 15 febbraio 2012

Daniele Ventre, o sulla fatica e la forma


Ho appena terminato di leggere un bell'intervento scritto da Daniele Ventre e pubblicato su Nazione indiana. L'intervento, che ha per tema l'interpretazione mitologica, si trova qui. Purtroppo io non sono riuscito a inserire un mio commento, come ho cercato di fare stimolato dall'argomentare dell'autore, più che dalle argomentazioni stesse. Confidando nel valore generale della discussione - ossia in un esorbitare dei significati dal loro contesto d'origine -, riporto di seguito il mio pensiero. Lo riporto così come avrei voluto fare nel sito di Nazione indiana.


Arrivo, da buon ultimo, a questa interessantissima discussione, che per ovvie ragioni temporali temo però già conclusa ("La festa appena cominciata è già finita..."). Aggiungo dunque solo un pensiero, di cui non mi pare di trovar traccia nelle parole che mi precedono – a parte, forse, in una nota di Valter Binaghi, che usa però l'argomento in chiave vagamente risentita.

Mi riferisco allo stile con cui Daniele Ventre ha scritto il suo bellissimo testo. Uno stile che non è solamente "involuto", come adombra appunto Binaghi con fondate ragioni, ma addirittura tortuoso, accidentato, difficilissimo. In una parola: "pazzesco".

Inoltre, vengono date per scontate, e cioè acquisite una volta per tutte, una serie di nozioni preliminari, tra cui la conoscenza della lingua tedesca.

Sono così andato su google e ho provato a ricercare la percentuale di italiani che frequentano i rintocchi verbali di Goethe, di Beethoven, o se preferite di Angela Merkel, scoprendo che non supera il 7% della popolazione (io, ovviamente, faccio parte del restante 93). A tale dato, va aggiunto che di questo 7% una considerevole parte è concentrata nella regione speciale dell'Alto Adige, dove il tedesco è correntemente utilizzato dal 65% dei residenti.

Una domanda, ironica, potrebbe dunque incalzare il lettore sprovveduto, quale io certamente sono: Nazione indiana, dico, nel lungo tempo in cui non vi ho fatto scalo, che si sia trasformata in un'isola linguistica per la minoranza germanofona del nostro Paese...?

Ma sarebbe una domanda capziosa. Come la considerazione che un numero ancora più basso di italiani conosce Leo Frobenius. Sarebbero cioè degli argomenti desunti da un elemento implicito alla comunicazione contemporanea, che potremmo riassumere, parafrasando Contini, con una sorta di funzione linguistica Holden, o FH (nel senso della scuola di scrittura).

L'intervento di Daniele Ventre, se fosse stato il componimento per il test di ammissione alla famosa scuola torinese, avrebbe infatti ottenuto un risultato praticamente certo: non solo Ventre non sarebbe stato ammesso ai corsi, ma, probabilmente, il suo scritto sarebbe stato assunto come modello negativo, a cui conformarsi per opposizione.

E non è troppo difficile immaginarsi il leader carismatico dell'istituto. Immaginarselo mentre si rimbocca le maniche bianche della camicia, sbuffa via un ciuffo di capelli dagli occhi guizzanti lampi di acume, e poi aggiunge, flettendosi morbidamente sugli stivali: "Ragazzi, oh, così non scrive! Capito, che se no mi fate sbiellare."

La diversa domanda che sto cercando di farmi, è allora quella sul motivo per cui quasi tutti, me compreso, si siano messi a scrivere proprio come alla scuola Holden, camicia bianca e stivali da John Wayne compresi nel prezzo. E cioè in modo scorrevole, soft, light. O provando ancora una volta a riassumere: in modo facile.

Forse perché facile è bello, facile è educato, garbato, carino, evitando al lettore lo strazio di un periodo del genere:

“…la vecchia connessione freudiana e poi junghiana fra mito, psicologia del profondo o archetipo trova allora una sua naturale collocazione, essendo la stessa struttura simmetrica delle metafore di schema non idiosincratiche di matrice biologica (umido-vita; secco-morte; caldo-protezione; freddo-ostilità etc.), a fornire l’anello di congiunzione fra schemi motivazionali, pulsionali e comportamentali tipici (archetipi psichici) e quegli schemi narrativo-metaforici che si coagulano attorno a dèi ed eroi (archetipi mitici)".

Può essere, sì, che nella semplicità sia contenuto un elemento di cortesia (di galateo), e nella complessità il carico "offensivo" di uno sforzo. Ma il sospetto è che senza tale sforzo – conoscere, afferrare saldamente, fare proprio – sempre più finiremo col parlare come in una canzone di Vasco Rossi.

I cui testi sono perfetti, attenzione, per dire quelle cose lì, che dice Vasco Rossi. Ma per esprimente gli argomenti che con lambiccata pedagogia prova a dispiegare Daniele Ventre, la forma canzone non è probabilmente il modello più adatto. E nemmeno le formule ammiccanti e paratattiche di una scuola di scrittura con tutte le carte in regole, compreso quelle che stanno nascoste nel polsino.

Concludo così ringraziando l'autore del testo, che ha fatto sudare i miei neuroni nel tentativo di tenere la ruota alla pedalata lunga del suo periodare; uno stile che non mi piaceva prima e non piace ora. E' però grazie anche a quell'ottovolante sintattico, dove ai vertici dotti seguono le vertiginose discese degli incassamenti logici, le acquisizioni sillogistiche, che io mi confronto con altri modi di scrivere, tesi a conferire una forma stabile e certa alla svagata mobilità del pensiero.

E senza quella saldezza frutto della fatica, le parole, i concetti, le nozioni intraviste nella penombra di un'intuizione, il più delle volte gocciolano via, così come una pioggerella estiva. Mentre la conoscenza vera somiglia all'albero della cuccagna: devi arrampicarti fino in cima, per guadagnarti le lenticchie e lo zampone.

Nessun commento:

Posta un commento