domenica 27 dicembre 2009

Trendwatching 2


Sono passai dieci giorni da quando abbiamo inviato la nostra lettera aperta alla Dott.ssa Valentina Vernò. Ai nostri occhi lei rappresentava infatti la GPF® Italia, per cui lavora come ricercatrice qualitativa. Il testo di presentazione di GPF®, nella sua vana retorica pseudo-anglo-scientifica, ci appariva come una perfetta sintesi non solo, o non tanto, di cretineria mediatica, ma di un processo più sottile e perfino intelligente; ossia intenzionato da una finalità dentro le categorie dell’utile. Proviamo dunque a dar conto di questa strategia.

Il fatto che Valentina Vernò non ci abbia risposto, intanto.

Tutto ciò ci appare come assolutamente normale, è quanto ci attendevamo. Ma non perché le nostre domande potrebbero suonare come offensive agli occhi di un cretino – dobbiamo davvero allontanare l’idea che i neo-parlanti di GPF® siano dei cretini – ma in quanto il tono da noi usato era evidentemente disfunzionale all’orizzonte tecnico, procedurale, entro cui GPF® si colloca. In tale prospettiva la comunicazione non è indirizzata alla creazione o allo scambio di nuclei verbali carichi di significato, cioè alla comprensione del mondo e dei rapporti umani che in questo sforzo si generano, ma a produrre snodi operativi, effetti concreti dentro le prassi della rappresentazione. Tanto che la vera domanda sarebbe forse: cos’è la rappresentazione?

Nel 1967 Guy Debord pubblica il suo capolavoro, La società dello spettacolo. Da cui le seguenti parole:

“L’intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”.

E in un altro punto dello stesso testo:

“Lo spettacolo è il capitale a un tal grado d'accumulazione da divenire immagine”.

A queste lapidarie e geniali intuizioni di Debord, aggiungiamo che la rappresentazione spettacolare può avere per sua natura due esisti contrapposti: referenziale, quando produce vincoli significativi con l’esperienza vissuta, e anti-referenziale, quando invece si presenta come messa in scena formale, vuoto calligrafismo. Ecco, la misura spettacolare a cui tende il Capitale nel suo processo estremo di accumulazione, a noi appare come appartenente a questa seconda categoria: pura forma denaturata e ornamentale, vaniloquio sintattico.

Eppure, come abbiamo insinuato nella nostra premessa, non è vero che il vaniloquio è interamente vano, ma piuttosto diversamente intenzionato. L’espressione altisonante e vuota , il ricorso all’ammiccamento anglofono, sono cioè funzionali a un processo di svuotamento della parola dall’esperienza, che la rende più duttile come merce spettacolare di scambio, per ricollocarci ancora dentro l’intuizione di Debord.

Pensiamo ad esempio all’espressione presente nel manifesto programmatico di GPF®, da noi ritenuta emblematica della loro deriva antiumana. Si, mi riferisco a “trendwatching”.

L’espressione trendwatching ricorda la contorsione di una rana a cui venga applicato un impulso elettrico: sussulto inerte della lingua, reazione automatica e goffa a un agente esterno, con cui non vi sia legame dentro la catena storica del significare. Con le sue maglie forgiate nella nuda esposizione al mondo, era infatti questo, un tempo, l'interpretazione: lo sforzo di ricavare un significato dall'esperienza.

Alcuni sostengono che il ricorso a termini anglofoni derivi dall'economia degli stessi, conseguente al maggior potere di sintesi di quella lingua. Beh, in questo caso è evidentemente falso. Trendwatching è una parola composta da tredici lettere, che trova nell’espressione “controllo tendenze” il suo corrispettivo nostrano. Diciassette lettere contro tredici, più o meno uguale.

Non si può nemmeno ricondurre la scelta a ragioni espressive o di denominazione puntuale, perché, appunto, la traduzione è agevole ed efficace. Dobbiamo dunque concludere che la scelta di GPF® è caduta sul termine inglese unicamente per ragioni di magniloquenza sonora, quel che qui abbiamo sintetizzato dentro la formula situazionista dello spettacolare.

Con il termine “trendwatching” utilizzato da una società italiana, che si rivolge ad altri italiani, abbiamo così un esempio concreto di come il processo di spettacolarizzazione passi attraverso l’allontanamento di una lingua dal riferimento primo e immediato con l’esperienza. Quanto più il dettato espressivo si congeda dalle cose, dal mondo e dalle relazioni umanamente vissute, quanto più possiamo capitalizzare “spettacolo”. Una merce linguistica trasferibile senza patemi nel trasporto, già che dentro le gabbiette morfo-fonetiche non ci sta nulla, ma proprio nulla, come il Sarchiapone di Valter Chiari.

Quando parlando non comunichiamo esperienza, produciamo dunque un involucro sintattico molto più facilmente trasferibile: più leggero, rapido, veloce. Mentre il Capitale, nella sua nuova forma di spettacolo, si moltiplica con maggiore efficienza dentro questa assenza semantica di zavorra, nella rapidità di nessi fonetici senza causa. Mia nonna racchiudeva tutto ciò dentro un’espressione popolare: “vendere fumo”.

Mentre Adriano Celentano intonava la stessa intuizione nella canzone Prisencolinensinainciusol

La comunicazione svuotata dal suo oggetto possiede poi un’altra interessante qualità: la reversibilità, intesa come mancanza di un impegno stabile tra gli interlocutori. Un impegno nella coerenza logica, nella radici vischiose del significare, ma soprattutto nel vincolo morale tra i parlanti, che nelle lingue storiche coincideva col riconoscimento biografico dell'altro. O più precisamente, nella comunicazione era presente un legame quasi giuridico (meglio "giusnaturale") tra una domanda e la sua risposta, in essa già incorporata quale diritto implicito dell'interrogazione. Di questo ultimo aspetto ne scrive con la consueta consapevolezza cristallina Giorgio Agamben, in un magnifico testo intitolato Archeologia del giuramento (Laterza, 2008):

“L'umanità si trova oggi davanti a una disgiunzione o, quanto meno, a un allentamento del vincolo che, attraverso il giuramento, univa il vivente alla sua lingua. Da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall'altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un'esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un'esperienza politica diventa sempre più precaria. Quando il nesso etico – e non semplicemente cognitivo – che unisce le parole, le cose e le azioni si spezza, si assiste infatti a una proliferazione spettacolare senza precedenti di parole vane da una parte e, dall'altra, di dispositivi legislativi che cercano ostinatamente di legiferare su ogni aspetto di quella vita su cui sembrano non avere più alcuna presa”.

Lo scenario sopra delineato dal grande filosofo romano, sottolinea come nel processo di disgiunzione tra lingua ed esperienza vissuta giochino un ruolo cruciale le nuove tecnologie di mediazione linguistica. La cancellazione del “bios”, del volto dell’altro dentro la relazione intermediata, rende cioè reversibile ogni pronunciamento, facoltativa ogni risposta. Valentina Vernò che trascura la nostra pacata richiesta a dar conto delle sue parole (vane), non fa altro che confermare la caratteristica delle lingue contemporanee e tecnologicamente mediate a non riconoscere l'interlocutore, o a farlo con il ritmo alterno della reversibilità. Per dirla con le parole di un telefilm poliziesco, il suo silenzio sancisce il lussuoso diritto dei moderni a non rispondere; o a farlo in presenza di un avvocato: l'interesse. Si iscrive dunque e a tutti gli effetti dentro lo scenario evocato da Agamben, che potremmo forse riassumere in un solo termine:

ir-responsabilità.

Infatti se una risposta non è più dovuta, perché appunto cade ogni vincolo morale tra i parlanti, il tacito giuramento che fa da premessa al discorso, anche un termine come responsabilità diventa inservibile, pura archeologia linguistica. La comunicazione alleggerita da questo doppio vincolo – di conformità semantica con la cosa ma anche di corrispondenza morale tra interlocutori – si può così muovere con un rinnovato agio dentro uno scenario post-umano: producendo nessi occasionali e reversibili, condensazioni sintattiche commerciabili.

Il capitale nella sua fase postrema e spettacolare è allora tutto questo. E il termine “trendwatching” ne è la sua riconoscibile firma, come la zeta di Zorro impressa sul ventre gonfio del sergente Garcia.

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