La scrittrice Deborah Gambetta lamenta su Facebook un eccesso di visceralità nei commenti social sulla guerra. Sono d’accordo con lei – tendenzialmente, a parte la sua masochistica passione per Sanremo, sono quasi sempre d’accordo con Deborah Gambetta –, anche perché lo scrive molto meglio di come l’ho riassunto. Aggiunge che vorrebbe piuttosto capire, essere documentata, leggere fatti, indizi, scorci verbali di prima mano, e non per sentito dire da un opinionista su la7. Prevale invece una tifoseria da curva sud, che indossa la bandiera politica meno lorda di sangue.
Tutto vero, di nuovo. Ma ho l’impressione che chiedere
a un social questa attitudine realistica sarebbe come chiedere a Malgioglio di
vestirsi e parlare come Luca Cordero di Montezemolo. The medium is the
message, voglio dire. Però anche su un social o, forse, soprattutto su un
social, è possibile compiere uno scarto laterale, e disporsi alla maniera di
Holden Caulfield quando arriva a Central Park. Di fronte allo stagno dove
nuotano placide le anatre, si chiede: Ma dove andranno quando in inverno l’acqua
gela...?
Non è difficile. Basta farsi domande apparentemente
sciocche che però sciocche non sono, rendendo l’astrattezza del mugugnare
geopolitico cosa viva, e la vividezza emotiva meno ovvia e rabbiosa. Ad
esempio: dopo un bombardamento, i negozi di giocattoli chiudono oppure
rimangono aperti? E nella seconda ipotesi, venderanno di più – è il meccanismo
psicologico di difesa per cui si dice che la vita continua, deve continuare –
oppure meno? Ancora. Gli orsetti di peluche nei negozi di Tel Aviv, sono uguali
o diversi da quelli esposti nelle vetrine infrante a Teheran?
L'unica domanda che mi viene è: chi schiaccia pulsanti lanciamissili a Teheran o Tel Aviv, l'ha mai avuto un orsetto tra le braccia per addormentarsi quieto?
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