sabato 28 giugno 2025

E adesso? (mi ricordo 33)

Mi ricordo di un gioco che chiamavamo pallabuio. Per giocare a pallabuio bisognava scendere la doppia rampa che conduce ai box del condominio accanto, dove vivevano il dottor Grimaldi, sua moglie Pia e i quattro figli, due maschi e due femmine concentrati attorno all'asse mediano degli anni Sessanta, il periodo del boom demografico. Assieme al più grande, Francesco, avevamo realizzato una teleferica a unire le nostre camerette, con la quale potevamo scambiarci i fumetti di Skorpio, Capitan America, Tex; quando i nostri genitori non erano in casa, anche Lando e Maghella. Le istruzioni per la teleferica stavano sul Manuale delle Giovani Marmotte, erano bastate una cesta di vimini e la cordicella dello stendipanni: agganciandola a una pallina da tennis viene stabilito il primo contatto tra la stazione di valle e la stazione di monte, raggiunta con un lancio calibrato. Nello stesso edificio in puro massiccio stile geometrile, i coniugi Flematti, secondo piano, scala B, con il figlio Giuliano che ne sapeva sempre una più degli altri; accanto l'appartamento di suo cugino Fabio, il padre beveva solo Campari e una volta si è addormentato in macchina, ce ne accorgemmo perché la testa era rimasta posata sul clacson; Silvia, primo piano, ma scala A, aveva due fratelli e i fratelli di Silvia avevano due biciclette da corsa identiche, il colore era quello dell'acqua dei ruscelli; il Pittino e la Pittino, figli del signor Pittino e della signora Pittino, mi sfugge adesso la collocazione spaziale, e da sempre i loro nomi di battesimo: venivano chiamati con il solo cognome, a distinguerli unicamente il genere dell'articolo determinativo; sotto la pensilina che dà su via Parolo, il bar della Pelosa e, all'angolo, dove adesso c'è la sala con le macchinette rubasoldi gestita dai cinesi, quello dei genitori di Claudio; lì ho assaggiato per la prima volta il frappè alla fragola fatto con le bustine, trovandolo molto più buono che con le fragole naturali; dal parrucchiere Dino potevamo finalmente sfogliare i fotoromanzi, le donne erano di una bellezza rassicurante mentre i maschi somigliavano al figlio dell'impresario che viveva nell'attico: pantaloni a zampa di elefante, giubbetti di pelle attillati, capelli lunghi e scuri e lisci alla Panatta, ma con in più le basette; sopra all'appartamento dei Grimaldi il ragionier Pizzala che era un pezzo d'uomo (al primo tentativo la pallina da tennis aveva rimbalzato contro la sua finestra), al contrario della moglie che era piccolina; la figlia più giovane, Adele, doveva avere preso dal padre, e tutti pensavano che da grande avrebbe fatto anche lei i fotoromanzi; tutti noi, almeno, che ci infilavamo nel buio vero dei garage per giocare a pallabuio. Calciavamo a turno un pallone da ricercare poi a tentoni e chi lo trovava doveva risalire senza essere notato. In caso contrario, gli altri potevano fargli qualsiasi cosa per sottrargli la palla, da posare in un preciso punto in superfice  il gioco si faceva ora un po' simile al rugby – dove il sole abbaglia, si riflette sulla basculante posteriore dell'alimentari Paini, illumina la pista tracciata con la vernice rossa per giocare con i tappi della gazzosa, disegna ombre oblique per mezzo dei raggi delle biciclette color ruscello dei fratelli di Silvia; prima di immergersi anche loro nell'abisso dei garage, le appoggiavano al contrafforte di cemento che separa il cortile dal giardino delle due zitelle, al centro del quale svetta, tutt'ora, un grande pino, sotto a cui Maria Assunta sorseggiava acqua con l'orzata nei caldi pomeriggi di fine giugno. E sopra ogni cosa il filo sottile della nostra teleferica, di tanto in tanto si posava qualche rondine, erano le prime a scorgere il fortunato che aveva sottratto la sfera preziosa al regno delle tenebre, si avvicinava alla meta col fiatone e la stessa espressione di Antoine Doinel quando, al termine dei 400 colpi, raggiunge la costa atlantica a cui era diretta la sua fuga dal riformatorio, piccole onde di risacca già gli lambiscono i piedi, si gira, guarda in camera, e sembra chiedersi: e adesso...?

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