lunedì 30 giugno 2025

La povera gente

Dei personaggi pubblici mancati negli ultimi anni, quelli di cui ho sentito maggiormente il lutto sono stati Lucio Dalla, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Mariangela Melato, Nadia Toffa, Eleonora Giorgi, Silvio Berlusconi e Papa Francesco.

Se i primi quattro trovano una giustificazione nei miei interessi e passioni, Nadia Toffa ed Eleonora Giorgi mi sembravano donne senza sovrastrutture glamour, con una naturalezza volta al bene; ho seguito distrattamente la loro carriera professionale, ma alla notizia della scomparsa ho sentito stringersi il diaframma.

Quanto alla compresenza degli ultimi nomi, mi procura un vago senso di imbarazzo  forse una parte di me ritiene blasfemo infilare nello stesso paniere la massima guida spirituale, almeno in Occidente, e il massimo puttaniere.

Eppure Berlusconi aveva saputo trasmettermi quell'illusione di familiarità  non ero così ingenuo da credere di essere ricambiato  che te lo faceva percepire come un parente un po' eccentrico, lo zio mattacchione che ha fatto fortuna in America e quando torna (naturalmente in Cadillac) regala cappelli da cowboy a tutti. Non ti piace il cappello da cowboy? Non c'è problema, ha lì bello e pronto anche il piumaggio da Toro Seduto, e dopo un paio di bicchieri tutti nel lettone di Putin, dove può finalmente raccontare storielle licenziose.

Ma se dovessi fare il crudele gioco della torre, non sarebbe lui, e nemmeno Bergoglio, a rimanere in vetta, e piuttosto Enzo Jannacci.

Mi capita spesso di pensare: cosa avrebbe detto di questo Jannacci, e di quest'altro? La politica, ad esempio. Nella sua ultima intervista cercarono di farlo sbilanciare sull'argomento, ma lui driblò la domanda con la consueta stralunata grazia; era un campione nel non rispondere, salvo poi accorgerti che in quelle frasi smozzicate aveva nascosto una perla. Dopo avere bofonchiato qualcosa che non ho capito, come se un ventriloquo stesse facendo prove di sincronia con le labbra, finalmente parole quasi comprensibili:

"Io non vengo mica qua perché sono fanatico... vengo qui per vedere i ragazzi che sono cresciuti... eh... sono contento che ci siano... ma non perché sono di fede cristiana, o di fede religiosa socialista... anzi, io spererei che fossero tutti come mio padre... come me... che pensassero agli altri, alla povera gente."

Non credo che un manuale di filosofia politica riesca a dirlo in forma più esatta: pensare agli altri, alla povera gente. Sì, Jannacci è il performer, il cantante, il medico, il musicista e perfino il politico che mi manca di più. Ma soprattutto mi manca la persona, l'uomo. Un uomo che, come suo padre, pensava agli altri, alla povera gente.

domenica 29 giugno 2025

Cani e gatti

Brassens sosteneva di preferire i gatti ai cani perché non aveva mai visto un gatto poliziotto. Si potrebbe obiettargli di non avere mai visto nemmeno un gatto aiuto bagnino, oppure un gatto che guida i ciechi su marciapiedi trafficati, un altro ancora con al collo una botticella colma di brandy, da offrire alle persone disperse nella neve come si dice facciano i cani San Bernardo.

Una contrapposizione, quella tra cani e gatti, in effetti molto umana, a riflettere categorie antropologiche opposte: farsi i cazzi propri senza arrecare alcun danno al prossimo, o, in alternativa, provare a mutare le sorti del mondo, in ciò utilizzando chiavi di lettura e prassi che saranno di necessità discrezionali, talvolta perfino poliziesche?

La risposta esatta (quella con cui vincere a un quiz di Amadeus) ovviamente non c'è, e così dobbiamo affidarci a vecchi proverbi popolari. Forse la gatta non si arrischia verso la polpa della vita, ossia il suo lardo, per non lasciarci lo zampino, trovando in un'adesione misurata e vagamente zen la giusta misura, mentre il cane morde quando non gli è stato insegnato ad abbaiare in modo articolato le proprie istanze. È un fatto che chi non fa, non sbaglia. 

sabato 28 giugno 2025

E adesso? (mi ricordo 33)

Mi ricordo di un gioco che chiamavamo pallabuio. Per giocare a pallabuio bisognava scendere la doppia rampa che conduce ai box del condominio accanto, dove vivevano il dottor Grimaldi, sua moglie Pia e i quattro figli, due maschi e due femmine concentrati attorno al pilone centrale degli anni Sessanta, come se quest'epoca fosse un circo in cui scagliare bambini nel mondo. Assieme al più grande, Francesco, avevamo realizzato una teleferica che univa le nostre camerette, con la quale potevamo scambiarci i fumetti di Skorpio, Capitan America, Tex; quando i nostri genitori non erano in casa, anche Lando e Maghella. Le istruzioni per la teleferica stavano sul Manuale delle Giovani Marmotte, erano bastate una cesta di vimini e la cordicella dello stendipanni: agganciandola a una pallina da tennis viene stabilito il primo contatto tra la stazione di monte e la stazione di valle, da raggiungere con un lancio calibrato. Nello stesso edificio in puro massiccio stile geometrile, i coniugi Flematti, secondo piano, scala B, con il figlio Giuliano che ne sapeva sempre una più degli altri; accanto l'appartamento di suo cugino Fabio, il padre beveva solo Campari e una volta si è addormentato in macchina, ce ne accorgemmo perché la testa era rimasta posata sul clacson; Silvia, primo piano, ma scala A, aveva due fratelli e i fratelli di Silvia avevano due biciclette da corsa, il colore era quello dell'acqua dei ruscelli; il Pittino e la Pittino, figli del signor Pittino e della signora Pittino, mi sfugge adesso la collocazione spaziale, e da sempre i loro nomi di battesimo: venivano chiamati con il solo cognome, a distinguerli il genere dell'articolo determinativo; sotto la pensilina che dà su via Parolo, il bar della Pelosa e, all'angolo, dove adesso c'è la sala con le macchinette rubasoldi gestita dai cinesi, quello dei genitori di Claudio; lì ho assaggiato per la prima volta il frappè alla fragola fatto con le bustine, trovandolo molto più buono che con le fragole naturali; dal parrucchiere Dino potevamo finalmente sfogliare i fotoromanzi, le donne erano di una bellezza rassicurante mentre i maschi somigliavano al figlio dell'impresario che viveva nell'attico: pantaloni a zampa di elefante, giubbetti di pelle attillati, capelli lunghi e scuri e lisci alla Panatta, ma con in più le basette; sopra all'appartamento dei Grimaldi il ragionier Pizzala, un pezzo d'uomo, al contrario della moglie che era piccolina e mi chiamava sempre caro; la figlia più giovane si chiamava Adele e doveva avere preso la statura dal padre e la dolcezza dalla madre, tutti pensavano che da grande avrebbe fatto anche lei i fotoromanzi; tutti noi, almeno, che ci infilavamo nel buio vero dei garage per giocare a pallabuio. Calciavamo a turno un pallone di plastica da ricercare poi a tentoni e chi lo trovava doveva risalire senza essere notato. In caso contrario, gli altri potevano fargli qualsiasi cosa per sottrargli la palla, da posare in un preciso punto in superfice  il gioco si faceva ora un po' simile al rugby – dove il sole abbaglia, si riflette sulla basculante posteriore dell'alimentari Paini, illumina la pista tracciata con la vernice rossa per giocare con i tappi della gazzosa, disegna ombre oblique filtrando dai raggi delle biciclette dei fratelli di Silvia; prima di immergersi anche loro nell'abisso dei garage, le appoggiavano al contrafforte di cemento che separa il cortile dal giardino delle due zitelle, al centro del quale svetta, tutt'ora, un grande pino, sotto a cui Maria Assunta sorseggiava acqua con l'orzata nei caldi pomeriggi di fine giugno. E sopra ogni cosa il filo sottile della nostra teleferica, di tanto in tanto si posava qualche rondine, erano le prime a scorgere il fortunato che aveva sottratto la sfera preziosa al regno delle tenebre, si avvicinava alla meta col fiatone e la stessa espressione di Antoine Doinel quando, al termine dei 400 colpi, raggiunge la costa atlantica a cui era diretta la sua fuga dal riformatorio, piccole onde di risacca già gli lambiscono i piedi, si gira, guarda in camera, e sembra chiedersi: e adesso...?

giovedì 26 giugno 2025

плачущие мужчины

A me piace questa cosa dei russi che piangono tra maschi. Non è poco virile piangere tra maschi, per i russi almeno. Il maschio piangendo rimane maschio, meglio ancora diventa uomo, lo status biologico non viene intaccato, ma il sentimento lo accresce di una dimensione storica. A noi, fin da piccoli, è stato insegnato il contrario: se piangi sei una femminuccia.

A dire il vero io non conosco tanti russi, ma lo sostiene Paolo Nori in un suo scritto. Una volta Paolo Nori stava parlando con un camionista russo e fa una citazione da Puškin. A quel punto il camionista scoppia a piangere, lasciando l'interlocutore confuso. Allora il camionista lo abbraccia e gli sussurra all'orecchio: "Tu sei venuto fin qui dall'Italia... e conosci le parole... dalla tua bocca le parole del nostro Aleksandr Sergeevič... Non è commovente?" E così anche a Paolo Nori vengono gli occhi umidi.

Io ho pianto una sola volta assieme a un altro maschio. Era il mio medico della mutua, stavamo nel suo studio che si trova in un bel condominio al termine del Lungo Mallero Diaz, a Sondrio. Uno può pensare che mi aveva appena rivelato l'esito funesto di un esame  in effetti i miei esami del sangue, nell'ultimo periodo, non sono tanto belli, ma invece no: sono io ad avergli rivelato una cosa, una canzone di Vinicio Capossela per la precisione.

Io e il mio medico ci conosciamo da tanti anni, e così per fargli capire come mi sentivo  Come ti senti? era stata la sua domanda  ho tirato fuori lo smartphone e avviato l'audio della canzone su YouTube. La musica è ripresa da un brano di Thelonious Monk, Abide with me, il cui titolo a sua volta richiama un inno sacro del 1847, scritto dal curato scozzese Henry Francis Lyte è stato rielaborato da Capossela. Intanto, nella sala d'attesa c'è una persona che aspetta con le gambe accostate come le statue egizie; è un cinese sulla settantina, e dunque non è vero che quando i cinesi si ammalano non si curano, e non curandosi muoiono, e una volta morti vengono fatti sparire.

Io e il mio medico continuiamo ad ascoltare. Nessuno dei due parla, da lati opposti fissiamo un identico punto sulla scrivania  forse una ricetta medica, non ricordo , mentre le note raggiungono la sala d'attesa, dove sta seduto compostamente il cinese. Quando la canzone termina e rialziamo lo sguardo ci accorgiamo che stiamo entrambi piangendo.

Lacrime, proprio. Fuoriescono dalle sacche lacrimali di due maschi caucasici adulti, cosa facciamo adesso sembrano chiedersi, nel locale adiacente si intravede un lettino a cui è accostato lo sfigmomanometro. Intanto, un cinese continua ad aspettare il suo turno. Chissà cosa avrà pensato nell'udire le note di Thelonious Monk accompagnate dalla vocina stridula di Capossela... Grazie a Dio non doveva essere una cosa urgente, alla mia uscita con il fazzoletto in mano era ancora vivo. L'ho salutato con tono di scusa  ogni luogo ha le sue pratiche, e non si fa lo sci d'acqua in piscina  a cui ha risposto con gli occhi alla maniera dei gatti siamesi. Ma anche fosse morto, non avrei visto i manifesti funebri. 

Di seguito, il testo della canzone che si intitola Sopporta con me, dall'ultimo album di Vinicio Capossela, Sciusten Feste n 1965

"Sopporta con me, mio Signore
Per ogni evenienza, sopporta con me
Sopporta con me
Gli eventi precipitano, le tenebre sprofondano
Signore, con me
Sopporta tutto questo
Dove l'aiuto degli altri fallisce
Quando non basta più e il conforto svanisce
Aiuto dei senza aiuto
Sopporta con me
Soprattutto la sera

Ai margini del breve giorno della vita
La gioia della terra cresce e continua
Ma la sua gloria passa
Tutto intorno quello che vedo cambia e decade
Oh, ma Tu che non cambi mai
Insomma, sopporta con me

Non ti chiedo la carità né parole di conforto
Per chi mi hai preso
Per uno dei tuoi discepoli, eh, Signore
Familiare, disponibile, paziente, libero
Solitario
Non tenermi compagnia
Ma abbi il coraggio almeno una volta
Di sopportare con me

Non venire nel terrore come il re dei re
Ma delicato e gentile con ali di sentimento
Con lacrime per tutti i peccati
E un cuore nuovo per ogni necessità
Vieni, amico dei peccatori
Sopportiamo insieme

Nella mia testa continua a sorridere
Come nella prima giovinezza
E nel frattempo ho attraversato ribellioni e perversioni
Che non mi hanno più lasciato, ma io ho lasciato loro
Almeno alla fine, oh Signore

Sopporta con me
Sopporta con me, ne ho bisogno come le ore
Hanno bisogno di passare
Cosa, se non la grazia
Può alleviare il potere delle tentazioni
Chi, se non Tu stesso
Potrà guidare il mio restare
Sole e nuvole, Signore
Sopporta con me

Non temo nulla, se ci metteremo d'accordo
Il malessere è senza peso
E le lacrime non sono amare
Dov'è la punta della morte
Dov'è sepolta la vittoria
Trionferò lo stesso
Se Tu solo sopporterai con me

Resisti fino al passaggio
Prima che gli ochi mi si chiudano
Brilla nella nebbia e indicami il cielo trasparente
Il mattino irrompe in paradiso
E l'ombra inutile della terra sparisce
In vita e morte, Signore
Di questo davvero ti prego
In vita e in morte, Signore
Sopporta con me
Di questo davvero ti prego
Sopporta con me"



sabato 21 giugno 2025

Il viaggio del criceto (mi ricordo 32)

 

Mi ricordo che a ogni primavera c’era un oggetto, perlopiù si trattava di un capo di abbigliamento, come un dio moderno e un po' fru fru emergeva da coltri di nubi vaporose, imponendosi abbagliante alla vista per richiedere il tributo dei fedeli, che prontamente si genuflettevano nell'offertorio laico degli acquisti. Il battage pubblicitario, versione aggiornata del catechismo, a posteriori mi appare minimo, e con eccezione dei jeans Jesus (“chi mi ama mi segua” stava scritto sopra un bel culo di femmina) era davvero il fato a stabilire quale dovesse essere l’epifania stagionale del sacro, che solo per eufemismo veniva chiamata moda. Faccio fatica a individuare una cronologia, ma nella memoria fa capolino, da principio, la t-shirt del film di Celentano Yuppi-Du, a cui associo le magliette Fiorucci con due putti che campeggiavano sul petto di ragazzi un poco più grandi di noi; quale surrogato, ci restavano le Fruit of the Loom: rigorosamente bianche, potevano avere l’effige grande – un paniere di frutta di stagione, come recita la formula inglese del brand – oppure più piccola e discreta, stampata proprio sopra al cuore. Quindi, in ordine sparso, le scarpe sportive Tepa oppure Mecap; la spessa suola in materiale plastico veniva percepita come morbida, a conferma che una potente fede riesce a modificare anche le informazioni dei sensi. Si continua con giacche a vento leggere ripiegabili a marsupio, il marchio è tornato in auge e si distingue per il cromatismo della fettuccina su cui scorre la cerniera; ancora jeans, ma questa volta Wrangler, Levi’s, Lee, Roy Roger’s, Jean's West; nelle sere estive si indossavano gilet di cotone Benetton color pastello anche se si schiantava dal caldo; un camicione dai colori sgargianti e disegni geometrici spopolava sulle spiagge, dove veniva venduto da africani itineranti (allora non li si chiamava ancora “vu’ cumprà”, ma non era ritenuto offensivo il termine negr@), mentre tra noi bambini si convenne che fosse la blusa di Sandokan; il Montgomery, o Duffle Coat, segnò l'irruzione dell'abbigliamento militare nel cazzeggio sul corso, più tardi replicato dai bomber degli aviatori americani, giacconi camouflage, bermuda con le tasche laterali; si distinguevano i compagni dall’eskimo verde e i camerati dal giubbetto di renna con i polsini a calza; negli inverni innevati erano i Moon Boot a tenere banco, nella doppia versione plastificata e pelosa; l'egemonia dei Ray Ban venne brevemente contesa da occhialoni da sole giganteschi e neri, a cui seguì una più smilza versione a specchio da sci: al centro della montatura in celluloide il galletto tricolore, simbolo della Francia; rientrati dal mare si continuavano a calzare le ciabatte infradito e quelle in lattice semitrasparenti, da scoglio, che effettivamente erano molto comode per cercare i granchi negli anfratti calcari, meno per giocare a calcetto all'oratorio Don Bosco; gli zoccoloni olandesi e gli stivaletti con la cerniera e le espadrillas e le Clarck’s, a suddividere nuovamente la mistica del consumo in categorie antropologiche alternative, ma tutto sommato complementari; i pantaloni a zampa di elefante non hanno bisogno di commento; la minigonna la minigonna la minigonna, bisogna ripeterlo almeno tre volte per sottolineare quanto quel fazzoletto di tessuto fu dirompente; i più desiderabili erano però gli indumenti ottenuti con i buoni di altri acquisti, io e mia cugina avevamo la maglietta gialla del formaggino Tigre, mentre mio cugino più grande gli aveva preferito quella di Yuppi-Du, da cui siamo partiti. Ed era davvero un partire per ritornare, una circolarità scandita da mode che avevano la puntualità ricorsiva delle rondini, dove l’abbigliamento non serviva a distinguere ma a farti sentire come gli altri, incorporava in una trascendenza incarnata e totalmente democratica. Fu con gli anni Ottanta che le cose cominciarono a mutare: la promiscuità festosa delle vesti, senza darlo a vedere alla maniera del trucco di Silvan, venne sostituita dalla versione pop del concetto junghiano di individuazione; a garanzia di unicità, la firma dei sarti che cominciavano a venire chiamati stilisti, brutto segno... Si affermò così una disposizione elitaria: non indosso, come negli anni Cinquanta, la giacca grigia e la camicia azzurra perché lo fanno tutti, ma esibisco l’aquilotto Armani per essere diverso dal branco. In realtà, fu una mutazione gattopardesca, e continuammo a vestirci allo stesso modo, solo spendendo il quadruplo per avere la pecetta Stone Island a fare da bandiera sulla manica sinistra, sorta di proto tatuaggio indolore del conformismo balneare. A conforto, l’illusione dei criceti che questo muoversi da fermi rappresentasse un viaggio: verso il vertice sociale, il top, il privé del Billionaire, e non più rannicchiati nel tiepido ventre della storia.

giovedì 19 giugno 2025

Europa sì Europa no... Un collaudo

 


L’Eurovision rappresenta la più verace rappresentazione dello stato attuale dell’Europa. Roberto Benigni, ospite negli scorsi giorni a Propaganda Live, sosteneva (in realtà concionava, ma è il suo stile appassionato e glielo concediamo volentieri) che ci troviamo per la prima volta di fronte a una generazione antropologicamente europea: i giovani chattano con stranieri conosciuti su Instagram, si muovono da una capitale all’altra del continente frequentando l’Erasmus. In realtà, l’Erasmus esiste dal 15 giugno del 1987, dunque sono quasi quarant’anni, ma è un’approssimazione cronologica veniale, andiamo al sodo e cerchiamo di capire se è vero quanto affermato da Benigni?

Per collaudarne il pensiero, di cui la frase citata rappresenta una minuscola sintesi, la versione estesa sta in un suo saggio appena pubblicato da Einaudi, per farlo basta appunto sintonizzarsi sull’Eurovision. I pochi masochisti che ci hanno provato si sono ritrovati catapultati in un mondo alieno: il cantante sloveno in tutù fucsia che trilla in falsetto, la belloccia danese ha una pinna in testa e la coda da sirenetta, un altro si presenta con il pigiama rattoppato di Super Pippo; anche noi facciamo la nostra parte con il pur bravo Lucio Corsi, che a uno spagnolo dell’Estremadura deve però fare lo stesso effetto di quello che a noi appare un campionario di freaks.

No, l’Europa musicale non esiste, in suo luogo un coacervo mal assortito in cui è impossibile identificarsi. Eppure non è sempre stato così. Innestandosi sulle basi gettate già dall'Impero romano, con Carlo Magno si consoldida un clima culturale affine, che, malgrado le numerose guerre, si è più tardi precisato in prassi condivise, perlopiù in campo artistico. Per Modigliani fu naturale trasferirsi a Parigi nel 1906; e dove volevi che andasse, a Pisa o Poggibonsi? Lo stesso durante la guerra civile spagnola, giovani che provenivano da tutto il mondo ma in particolare dall’Europa: i più a dare manforte alla Repubblica, altri, in orbace, avevano voglia di menare le mani per Franco. Eh già, perché la Spagna è in Europa, e questo veniva percepito prima ancora che pensato.

Un sentimento di appartenenza che ha scavallato, di qualche anno, il termine del secondo conflitto mondiale. Pensiamo ancora alle arti: i film italiani neorealisti e la nouvelle vague francese; dal medesimo luogo, una forma canzone diversa: Edith Piaf, Aznavour, Jacques Brel; i dischi di Brassens risuonano infinite volte a casa De André; intanto, Berlusconi canta Charles Trenet sulle navi da crociera, mica Gino Latilla o Claudio Villa.

Dell’Europa dell’Est, divisa da una cortina proverbialmente di ferro, si sa poco, mentre i tedeschi stanno schisci dopo il casino che hanno combinato, giusto con i wurstel fanno breccia. Al contrario i vincitori: prima arriva l’onda lunga americana (bastano il flipper e il chewing gum a ridefinire il mondo), quindi l’influenza britannica che culminerà con la Swinging London e l’esplosione del fenomeno Beatles. Ma non è finita. Dal Portogallo la rivoluzione dei garofani e la voce di Amália Rodrigues; Alekos Panagulis, in Grecia, si oppone al regime dei colonnelli e diventa un eroe epico nelle pagine a lui dedicate dalla compagna, Oriana Fallaci; ma anche il sirtaki danzato da Anthony Quinn in Zorba il greco, e Georges Moustaki che intona: “Con questa faccia da straniero sono soltanto un uomo vero anche se a voi non sembrerà. Ho gli occhi chiari come il mare capaci solo di sognare, mentre ormai non sogno più…”

Aveva forse ancora senso, nel 1982, per la Nannini riferirsi a un generico ragazzo dell’Europa, uno che non pianta mai bandiera, che trova sempre un passaggio per andare più in là (la ragione più comune era sfuggire al servizio di leva obbligatorio), ma dei suoi simili si è in seguito perso traccia. Sì, i giovani parlano ora l’inglese meglio di quanto lo facessimo noi, qualche viaggetto con l'Interrail, ma quanti hanno imbracciato un fucile per difendere l’Ucraina dall’invasione russa, o più cautamente canticchiano i brani dell’Eurovision? Nemmeno di Barbara, la più grande chansonnière francese del secolo scorso – una voce di vetro, l'aveva definita Adriano Sofri , nessun italiano si ricorda; se gli chiedi una cantante di nome Barbara, ti rispondono Barbara Streisand.

L’Europa è stato un grande sogno elitario, ma con una base narrativa autenticamente popolare. Ora si è però trasformato in vuota retorica nelle piazze convocate da Michele Serra, a cui la ex meglio gioventù accorre in taxi o con vecchi vesponi Piaggio, in una replica farsesca dei tragici slanci novecenteschi. Spiace dirlo, perché quell’idea ci sarebbe anche piaciuta. Come viene detto in un’altra canzone: è inutile rifare un letto ormai disfatto. Eppure è ipotizzabile un elemento positivo in tutto ciò, un'inaudita condizione di libertà dall'ipoteca dei luoghi, e più che cercare di diventare postumani come vorrebbe Elon Musk, possiamo finalmente essere pan-umani – homo sum, humani nihil a me alienum puto, già recitava Publio Terenzio Afro – e chi se ne frega dell’Europa!

mercoledì 18 giugno 2025

I negozi di giocattoli a Teheran e Tel Aviv

 

La scrittrice Deborah Gambetta lamenta su  Facebook un eccesso di visceralità nei commenti social sulla guerra. Sono d’accordo con lei – tendenzialmente, a parte la sua masochistica passione per Sanremo, sono quasi sempre d’accordo con Deborah Gambetta –, anche perché lo scrive molto meglio di come l’ho riassunto. Aggiunge che vorrebbe piuttosto capire, essere documentata, leggere fatti, indizi, scorci verbali di prima mano, e non per sentito dire da un opinionista su la7. Prevale invece una tifoseria da curva sud, che indossa la bandiera politica meno lorda di sangue.

Tutto vero, di nuovo. Ma ho l’impressione che chiedere a un social questa attitudine realistica sarebbe come chiedere a Malgioglio di vestirsi e parlare come Luca Cordero di Montezemolo. The medium is the message, voglio dire. Però anche su un social o, forse, soprattutto su un social, è possibile compiere uno scarto laterale, e disporsi alla maniera di Holden Caulfield quando arriva a Central Park. Di fronte allo stagno dove nuotano placide le anatre, si chiede: Ma dove andranno quando in inverno l’acqua gela...?

Non è difficile. Basta farsi domande apparentemente sciocche che però sciocche non sono, rendendo l’astrattezza del mugugnare geopolitico cosa viva, e la vividezza emotiva meno ovvia e rabbiosa. Ad esempio: dopo un bombardamento, i negozi di giocattoli chiudono oppure rimangono aperti? E nella seconda ipotesi, venderanno di più – è il meccanismo psicologico di difesa per cui si dice che la vita continua, deve continuare – oppure meno? Ancora. Gli orsetti di peluche nei negozi di Tel Aviv, sono uguali o diversi da quelli esposti nelle vetrine infrante a Teheran?

domenica 15 giugno 2025

Guerra 2.0

Di questa guerra schifosa mi pare che l'unico elemento di novità – novità altrettanto schifosa, beninteso – sia quella di colpire i vertici della fazione opposta per mezzo di droni. Uno strumento di morte fino a ora nelle sole possibilità di Israele, che ha già assassinato decine tra politici, fisici nucleari e alti graduati dell'esercito iraniano.

Ma immaginiamo uno scenario ipotetico in cui le guerre avvengano unicamente così: non alla base ma al culmine della piramide sociale; capi, insomma, che si prendono a cornate con altri capi, alla maniera di cervi nella stagione degli accoppiamenti. Il tutto senza vittime tra la popolazione civile, e nemmeno tra le truppe dei coscritti – che è poi sempre popolazione civile attorno ai vent'anni, a cui è stato ficcato un elmetto in testa e imposta una divisa.

Ovviamente non è ciò che sta avvenendo, e da qui la schifezza già più volte sottolineata, ma solo un minimo segno (vediamolo come il puntino bianco nella porzione nera del Tao) di ciò che potrebbe accadere nel futuro: il ribaltamento del concetto stesso di guerra, dove, al grido altrettanto imposto di Viva l’Italia!, i giovani fanti si lanciavano nel tentativo di conquistare una gibbosità del suolo. Le provviste alimentari, caricate sul dorso di muli dallo sguardo rassegnato, non bastavano per tutti, ma ci pensavano le mitragliatrici asburgiche a fare selezione, mentre Luigi Cadorna osserva la carneficina da lontano, ben riparato e al caldo. "Se qualcuno indietreggia: sparategli", ordinava ai sottoposti. 

E invece no, nella replica 2.0 della Prima guerra mondiale sarebbe proprio Cadorna l'obiettivo dei droni, sarebbe Cecco Beppe tradito dai baffoni a manubrio, BUM, colpito e affondato, sarebbe Vittorio Emanuele III a fare da parafulmine con la sua sciaboletta. In un certo senso, gli anarchici avevano già prefigurato il cambio di prospettiva. Ora, la tecnica, lo rende possibile. E non è necessariamente una cattiva notizia: che se la vedano tra di loro, lasciando i popoli a giocare a tresette senza il morto, a calcio balilla, o a fare l'amore, l'amore, con le infermiere. Già che per fare l'amore non è indispensabile essere prima feriti da una scheggia di granata, come il protagonista di Addio alle armi. Sì, che sia davvero un addio alle armi.