Il mio rapporto con le donne? Prima o poi qualcuno me l'avrebbe chiesto, qualcuna più facilmente, quel genere di domande che si fa alla prima uscita una volta arrivati sazi e un po' ebbri al caffè; per recuperare la virilità perduta con la richiesta di orzo in tazza grande, io lo faccio correggere con la grappa. Oppure uno strizzacervelli, e allora tanto vale prepararmi la risposta: sperimentale, il mio rapporto con le donne lo definirei sperimentale, almeno fino ai vent'anni compiuti. Non che non avessi avuto
occasioni, da quando l'apparecchio ortodontico aveva concluso la sua futuristica oppressione (mai un sorriso, aria da esistenzialista
imbronciato) ero stato riammesso nei canoni dell'estetica, secondo le
compagne di scuola delle medie addirittura il più carino della classe. Ma
quella nuova attenzione nei miei confronti mi rendeva sospettoso, la sindrome del tenente Colombo a ogni ciao come ti chiami? I primi baci veri, con la lingua
intendo, insomma le limonate, arrivarono tardissimo, in prima superiore. C'è da
dire che poi ci ho preso gusto, e a ogni festa a cui venivo invitato o più che
altro mi imbucavo – rispetto alle medie erano cambiate solo le bevande: da Fanta e Coca-Cola a Ceres e Moskovskaya – riuscivo quasi sempre
a rimediare una ragazza. Il momento giusto per provarci era quando sul mangianastri partivano le
basi campionate e zuccherose di Reality, brano che
nel Tempo delle mele il tipetto in cravatta
fa ascoltare in cuffia a Sophie Marceau, mentre tutti gli altri si dimenano
sulle note di Swingin' Around. Come a dire che l'amore somiglia a
Enrico Ghezzi: è un fuori sincrono. Solo a ventidue anni, di nuovo tardissimo,
la prima fidanzata, o almeno così pensavo, scoprendo solo in seguito che lei era
già sposata. Ma amore era amore, eravamo finiti entrambi in fuori sincrono rispetto al mondo; il luogo rimaneva lo stesso, diversa la musica in cuffia. Da una città lontana, dove viveva con
il marito, mi spediva regolarmente lettere su cartoncino rosa e profumato, a
cui io rispondevo indirizzando a casa di una sua amica, che furtivamente poi le
passava il tutto. Il fatto di essere più vecchia di me di sette anni, dunque
quasi trentenne, la imbarazzava, ma per me non era un problema, anzi mi
vantavo con gli amici di stare assieme a una donna matura, non a
delle ragazzine come loro. Probabilmente per compensare quella lieve asimmetria, nella
busta che conteneva l'ennesima letterina rosa trovai un giorno anche un plico
di fotografie. La ritraevano da piccola, una bambina dagli occhi neri e vispi,
i capelli, del medesimo colore, con la frangetta e il carrè: il mio amore in
miniatura conficcata in una terra straniera, dove si era trasferita con la
famiglia in un moto che si chiamava allora emigrazione, non turismo. Quindi di
nuovo nella sua Toscana, ora è adolescente e il seno inizia a intravedersi
sotto un camicione bianco, da poeta bohemien, sta in un giardino e annusa il fiore che pende dal ramo di una pianta, in un'altra indossa un bikini giallo e sorride, anzi ride proprio allo scherzo di qualcuno, e via di foto in foto a
colmare il tempo prima di noi. Un desiderio molto umano, credo chiunque,
innamorato, l'abbia fatto almeno una volta. Solo che le immagini vengono adesso
inviate con WhatsApp, per un po' fanno tana dentro smartphone che cascano e si
rompono, i computer si cambiano. La memoria digitale è piuttosto distratta.
Quelle foto invece ci sono ancora, le ho trovate oggi, per caso. Stavano in una
scatola da scarpe, delle Adidas taglia 10 e 1/2 in cui le avevo riposte
trentacinque anni fa. Ho iniziato a scorrerle come fa Meryl Streep
nella scena finale dei Ponti di Madison
County. Immagini dai colori po' sbiaditi, specie nelle Polaroid, che
ritraggono le mutazioni di un corpo, il bruco che si fa farfalla. Ma allora era bellissima? No, non lo era, era semplicemente bella, senza il suffisso superlativo. Quello l'aggiungeva un filtro ottico – le
lenti dell’amore – che così la facevano apparire. Quando ci siamo conosciuti, in una discoteca vicino a Sondrio, ha perfino dovuto ingegnarsi per attirare la mia attenzione, distratta da altri corpi femminili; riuscì a stornare su di lei lo sguardo con i cubetti
di ghiaccio rimasti al fondo del Cuba Libre, è bastato scorrerli piano sulle labbra. Piccole normali astuzie di femmina a cui i giovani maschi abboccano sempre. Normalità, gioventù, sono queste le parole che adesso
mi ronzano in testa, più un'altra che non ho tanto voglia di scrivere, mentre le palpebre si fanno umide. Non che sia la prima volta che ripenso a lei, anzi
mi capita spesso da una decina di anni a questa parte. Stavo parlando con un
amico, salta fuori Arezzo, lui voleva andarci a vedere gli affreschi di Piero
Della Francesca o ad acquistare una motocicletta usata, ora non ricordo e per
farla breve butto lì: "Ad Arezzo avevo un'amante." Con un tono che
all'orecchio di qualsiasi donna sarebbe apparso odioso, e in effetti lo è, mi
vergogno di ciò che ho detto, e però l'ho detto: "Fammi vedere come si è
fatta vecchia nel frattempo..." e dopo avere estratto lo smartphone sono
andato di Google. Così scopro che a essere vecchio sono invece io. Lei è morta.
A cinquant'anni. Di infarto. Lo squilibrio di sette anni si è invertito, ora ho
sette anni più di quanti ne aveva lei al momento in cui l'alogenuro d'argento o i pixel digitali hanno smesso di registrarne la presenza,
il suo essere stata lingua e abbracci è certificato solo dalla manciata di foto
riversate sul tavolo di cucina. Non sono state duplicate, sono gli originali, e
mi viene in mente che potrei forse farle avere alla figlia; non dovrebbe essere
troppo difficile scovarla, basta di nuovo affidarsi a Google: ok Google mi dici
questo o quest'altro, io lo faccio spesso con i titoli delle canzoni. Ogni
coppia ha la sua, di canzone, serve forse a ricordarci di essere uguali ma
diversi, come recita Nanni Moretti in un altro film che
avevamo visto assieme al cinema Excelsior di Sondrio; non so cosa raccontasse
al marito per tornare qui ogni paio di mesi, si fermava in genere per un
weekend a cui agganciare una festività. Con fidanzate successive si è trattato
di Leonard Cohen, Paolo Conte, Sergio Endrigo; ho avuto anche una fidanzata
compositrice, ci pensava lei alla colonna sonora del nostro amore. In questo
caso era una canzone di Grazia De Michele, le radio
private la facevano passare spesso in quei giorni in cui si spegneva l'euforia
degli anni Ottanta, aprendo le porte a una nuova stagione che avrei osservavo
dalle finestre troppo grandi di un ospedale. Sono andato a riascoltarla,
scoprendo che non era quel gioiellino che ricordavo, qualche luogo comune di
troppo, e anche la melodia non spicca per originalità. Eppure è lei, specie nei
versi iniziali: "Chi avrà nel cuore la bambina / che sogna sopra una
panchina / forse una vita a cinque stelle /o solo pattini a rotelle." È
lei, cazzo, è lei è lei è lei! La panchina dovrebbe trovarsi in un parco
pubblico di Losanna, di lato e più vicino all'obiettivo si intravede il padre
che la chiama con la mano, vieni qui tesoro, e lei ricambia l'invito con lo
sguardo, si muove rimanendo ferma, inchiodata alla panchina come l'astronauta
sulla rampa di lancio verso una vita a cinque stelle, o magari solo pattini a
rotelle. Clic. Chissà se l'uomo era ancora vivo quando la sua bambina è morta,
il 27 settembre 2009... Ora probabilmente non lo è più, sarebbe troppo vecchio, di certo stanco a furia di chiamare qualcuno che ha smesso di rispondere; ma non sarebbe l'unico vecchio a parlare con una panchina vuota.
Forse la madre, un poco più giovane, oltre alla sorella, grossomodo mia
coetanea. Quindi la figlia che ha avuto tardi, intorno ai quarant'anni, e il
marito, uno nuovo, non il mio rivale. Loro l'avranno sicuramente nel cuore,
ognuno una sua propria fotografia, film diversi, canzoni che non intonano. Segni insomma, tessere di un mosaico impossibile da ricomporre, se non per scorci soggettivi. Tra queste rappresentazioni parziali c'è naturalmente anche la mia, il primo amore – il PRIMO AMORE! – è una pianta che nemmeno la morte può sradicare, le radici rimangono. Meglio dunque, concludo, che la figlia non abbia ciò che ho, che non sappia di me: l'amante
della mamma, la mamma ha avuto un amante. In fondo quel senso che cerco e mi
sfugge non sta nel contenuto della scatola, ma nella scatola stessa; minimo spazio di possibilità che prima ha ospitato le mie Adidas e poi le sue
fotografie e ora è vuoto. Continua la nostra canzone: “Chi avrà nel cuore
quella donna / che a casa forse più non torna / (...) qualcuno sciolga le sue
mani / che anche per lei ci sia un domani." Ripongo con cura tutte
le fotografie. Chiudo la scatola. Il suo posto è in un cantuccio
dello scaffale dietro al divano, in basso, dove è rimasta impolverata per anni,
accanto ai vecchi albo di Zagor. Sarà anche un luogo comune, ma mi piace
l'immagine di qualcuno che ti scioglie le mani; lo faceva Giucas Casella al
termine delle sue induzioni ipnotiche. Non so se io sia stato capace di compiere la stessa magia, sciogliere anche solo per un attimo le mani di... nemmeno il nome ho tanto voglia di scrivere, una residua forma di
pudore mi induce a tacerlo, ma davvero erano mani di neve, bianchissime; tutto in lei era bianco
tranne i capezzoli e il pube, che non era ancora di moda rasare. E ovviamente i
capelli: avevano mantenuto il taglio a caschetto di quando era una piccola
emigrante, emigrante al seguito come si dice delle truppe di complemento, la
guerra quella per sopravvivere combattuta da milioni di italiani. Non solo
per l'aspetto fisico mi faceva pensare a un'altra canzone di Claudio Lolli; a lei però non
piaceva, diceva che le metteva tristezza. Così l'ascoltavo da solo, immaginando
la sua figura pallida – sorge dall'acqua, è una creatura degli abissi – mentre
il cantautore bolognese confessa di credere di avere "provato l'amore almeno
una volta / con una donna travolta da correnti di fiume / bianca e moribonda
come una prima comunione." Una donna per cui un domani non ci sarà, la fa
più semplice Grazia De Michele. Ma per noi che siamo ancora qui… la vita a
cinque stelle, i pattini a rotelle – che fine hanno fatto?
potevi andare avanti altre dieci pagine e avrei continuato a leggerti con la medesima emozione. Perchè c'è qualcosa di universale in questi personalissimi ricordi e c'è qualcosa di poetico in questo flusso che lasci sgorgare come un rubinetto dimenticato aperto mentre ci guardiamo increduli allo specchio.
RispondiEliminamassimolegnani
Grazie Massimo, è un testo che ho rimaneggiato più volte. L'ho scritto, di getto, proprio per aprire quel rubinetto chiuso da troppo tempo. Poi è subentrato il pudore, la vergogna per l'esibizione di tanta intimità, e ho provato a fare un po' di sartoria verbale: taglia, cuci, ricomponi. Non sono certo che il risultato davvero possieda un qualche valore anche per altri, ma a me ha fatto bene scriverne. (Purtroppo non ho ancora capito come attivare le notifiche dei messaggi del blog, e rispondo sempre in ritardo.)
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