venerdì 4 febbraio 2022

Revenge porn e velo islamico, uno sguardo disallineato

Lo chiamano revenge porn, rivincita porno, in italiano, lasciando intendere che qualcuno che ha perduto qualcosa (ma più spesso qualcuno) avrebbe a questo modo un’occasione di rivalsa. Ma quale modo? Mostrando sul web o in una perversa catena di Sant’Antonio, da smartphone a smartphone, momenti di intimità sessuale documentata per immagini o video, nei quali è coinvolta la persona che così si intende punire – una donna, ovviamente. Per un uomo l’intimità sessuale è infatti ancora vissuta come prodezza, non come colpa. Di più: trofeo.

È di oggi l’ennesimo episodio denunciato da Diana Di Meo, giovane arbitro di calcio pescarese a cui va tutta la nostra solidarietà, oltre al biasimo per il bellimbusto che si è illuso di prendersi la sua vigliacca rivincita. Ma, a costo di essere biasimato a mia volta, ho provato ad approfondire la vicenda, e il primo e più semplice passo era visionare pochi secondi dei brevi filmati realizzati dalla vittima. Non si trattava infatti di uno di quei casi, ancora più ripugnanti, in cui la donna viene ripresa a sua insaputa, per quanto la condivisione è ugualmente riprovevole.

Non racconterò naturalmente ciò che ho visto – niente che non avessi già visto, niente di scandaloso –, per quanto mi ha colpito il fatto che quelle sequenze amatoriali possedevano una incontrovertibile natura di fiction, con la donna che del tutto legittimamente, sia chiaro, si mostrava secondo gli stilemi propri della messinscena cinepornografica. Ma non tanto per via del contenuto, scabroso solo agli occhi di una ormai vetusta pruderie; era piuttosto la studiata intenzionalità a sancire, come in qualunque immagine in posa, mettiamo quella di una fototessera, una distanza tra l’oggetto immortalato e il suo fruitore, fosse pure il carabiniere che anni dopo ti controlla la patente.

Certo, nella circostanza l’immagine non era destinata a me e piuttosto allo stronzo che ha messo il tutto sul web, mentre in una fototessera lo sguardo si fa vago e stranito, non possiede un interlocutore individuato ma prova a contenere l'orizzonte mondo. Eppure, anche nel primo caso, il corpo smette di essere evento e si fa testo.

Per chiarirci: pensiamo ai giochi erotici che gli amanti hanno sempre inscenato, pensiamo allo striptease di Sofia Loren in Ieri, oggi e domani, con un ululante Marcello Mastroianni quale fortunato spettatore. Se quell’episodio fosse stato vita vissuta e non cinema sarebbe stato un evento, la cui possibilità di essere ammessi è limitata a un luogo e a un tempo definiti, ma soprattutto a un altro che si dispone alla condivisione di quel tempo e quel luogo. È solo in tale situazione reale che il corpo sì dà in quanto corpo, anche un solo minimo scarto dischiude la porta alla documentalità dell'apparire. Il testo, appunto.

Terminata l’esperienza – perché un evento è un’esperienza, e cioè un sentire che non ammette mediazioni – si può richiamare il momento vissuto solo attraverso le forme imperfette e sempre più sbiadite del ricordo. Morti i presenti, per dirla con le parole dell’androide di Blade Runner, l’evento si scioglie come lacrime nella pioggia. Mentre il testo rimane.

Perciò mi viene da dire che le immagini di Donatella Di Meo fossero già da subito pornografia: non per via della loro qualità estetica o morale – non sono così bigotto –, ma perché il differimento cronologico e spaziale era già da subito previsto, era sesso solo in quanto meccanica di corpi, non accadere.

La dilazione cronologica, più che alla riproduzione del vivente, si addice infatti alla produzione di merci o servizi, di cui il porno è fiorente attività. Beninteso, in questo caso la ragazza (non dimentichiamolo mai) ha subito lo scarto involontario di funzione, ritrovandosi bersaglio del proprio gesto che all'essenza era dono. Un dono, quello del proprio corpo, che non è mercato, ripetiamolo pure a rischio di pedanteria. Come una lettera raccomandata indirizzata a una sola persona, dopo averci spruzzato sopra un bel profumo di violetta.

Nasce però a questo punto un problema. Cosa succede quando una lettera viene aperta, letta, riletta, quindi riposta dentro un cassetto chiuso – si estingue?

No, può essere distrutta solo dal destinatario, altrimenti il testo mantiene il suo carattere di traccia significante per un tempo indefinito. Quand’anche il contenuto, come nella circostanza, sia formalmente riservato, comunque conserva tale sfondo di generalità discorsiva, è l’altro a custodirne il senso ultimo, traducendosi in un atto d’affido. Non cambia molto rispetto all’ermeneutica letteraria, Umberto Eco ne parlava come di opera aperta. Ne ricaviamo che se un falegname legge Pinocchio lo potrebbe scambiare per una trattazione di settore, mentre se tu mandi con WhatsApp le immagini del tuo corpo a una testa di cazzo lui le possa convertire in pornografia.

Detto più semplicemente: un testo contiene sempre una disposizione fiduciosa nell’interprete, da cui ci si ritrae attraverso la consegna del messaggio. Mentre un gesto concreto, un atto in cui viene inclusa anche la parola pronunciata, è più prudente, l’altro non è il depositario di qualcosa ma interlocutore presente: lo si vuole toccare, baciare se è un gesto erotico, verificare, non ci basta credere in lui. Forse nella ritrosia di Socrate verso la scrittura era già presagita, con millenni di anticipo, la deriva del revenge porn.

Quando poi il testo coincida con l’immagine del proprio corpo, abbiamo il ritrarsi intimorito di quelle persone che, con sguardo miope e colonialista, ci ostiniamo a chiamare “primitive”, le quali vedono nello scatto fotografico un furto d’anima con cui lo spirito viene reificato, per essere trasformato in merce di scambio. Ma non è forse questa la miglior definizione di pornografia?

Se dunque con pornografia ci riferiamo, come io credo sia giusto, allo scambio del corpo in quanto evento con il corpo-testo, sperimentiamo l’annichilimento della dimensione dell’intimità (affettiva, erotica, sessuale – non importa), che sopravvive solo in forma di simulacro; la somiglianza è tra quello che potremmo fare se fossimo entrambi presenti e a portata di sensi, con le immagini replicabili a generare quest’illusione.

Se ciò che è simile, per definizione, non è mai lo stesso, l’essenza di ogni porno non starà allora proprio in tale riproduzione, asimmetrica alla vita? 

Un'asimmetria, sia cronologica sia spaziale, tra il momento dell’esibizione del corpo e la sua fruizione, che non potranno mai coincidere. E in questo disallineamento anche la possibilità, sempre in agguato e come ho anticipato perfino condizionale, del tradimento delle attese. Con il bastardo che edita il tuo corpo mettendolo sul web, allo stesso modo del macellaio quando espone un cosciotto di prosciutto in vetrina.

Ma in fondo anche Mary Poppins, con un po' di ironica disinvoltura, può essere ascritto al genere cinematografico della pornografia, dal verbo greco pernia, vendere. Nella circostanza è il corpo di Julie Andrews a essere sottratto alla relazionalità incarnata del suo accadere per essere fissato in testo, quindi venduto.

Per avvicinarci a una sintesi possibile: il revenge porn, non abbiamo nemmeno il coraggio di chiamarlo nella nostra lingua, è quanto di più odioso e vile, oltre a essere giustamente un reato. Mentre è del tutto legittimo inviare delle immagini, di qualsiasi natura, a un’altra persona, e quanto più sono legate a un rapporto personale quanto più si dovrebbe averne cura.

Ma se vogliamo la certezza che il nostro corpo non si trasformi in testo da trafugare (una fuga di capitali potremmo chiamarla in continuità al registro economico che si affaccia nella conversione), è utile proteggere la sua natura di evento, e cioè di esclusiva per chi ne condivida l’apparire: qui, ora. Altri luoghi e tempi non esistono per un corpo che non voglia farsi merce ma relazione.

Se proviamo ad allargare la cornice del quadro, ci accorgiamo che, più in generale, è l'intero sistema della comunicazione attuale a indirizzare il corpo verso la pornografia, dove il termine stesso comunicazione rappresenta un'estensione impropria, quando l'espressione corretta dovrebbe essere "testualizzazione": posti su Instagram una fotografia mentre indossi un nuovo cappelletto, o su Facebook uno scatto in costume sulla battigia, cinquantaquattro like, wow!, stai andando forte, ma stai comunicando?

No, stai trasformando il tuo corpo in testo, e a questo modo creando la premessa della sua conversione in dati, merce, capitale. Una dimensione da cui viene esclusa l'esperienza dell'intimità, ossia e di nuovo del corpo come evento. Detto in altre parole, Diana Di Meo c'est moi, c'est toi, è tutti noi che ci disponiamo al differimento continuo della vita.

A costo di essere politicamente scorrettissimo, mi viene però a questo punto un ultimo dubbio. Non sarà che il velo islamico, almeno quando scelto dalla donna e non imposto con forme di coercizione più o meno esplicite, a rappresentare il segno di un’ipoteca del maschio sulla “sua” femmina (ed è certamente anche questo, forse soprattutto questo), non sarà che il velo restituisca una tutela garbata della natura di evento del corpo femminile, sottraendolo alla sua riduzione a testo? Evento da cui vengono esclusi tutti coloro che non sono in rapporto di intimità, e con ciò impedendo la conversione in pornografia.

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