mercoledì 5 giugno 2019

Noa, o sulla morte della comunicazione

Noa Pothoven. 17 anni. Morta in Olanda per suicidio assistito, o così almeno è stato detto in un primo e strombazzato momento di clamore mediatico, quindi per suicidio e basta, quando i parametri vitali erano già stati compromessi da un lungo e tenace digiuno.
Una vicenda sui cui è stato scritto probabilmente più del necessario, per quanto non mi sento di criticare questo verboso volo d'avvoltoi subito trasferito ai social network, rispondendo, perlopiù goffamente, a uno sconcerto autentico, da cui si cerca di smarcarsi al costo di balbettanti strafalcioni. Offro addirittura il mio contributo allo smembramento simbolico del cadavere, sollecitando l'attenzione su un dettaglio trascurato.
In questi anni – quando già manifestava intenzioni conclusive, intendo – Noa ha pubblicato un libro sulla sua storia di sofferenze e abusi, cominciati poco dopo i dieci anni di età. E ho scritto libro e non ad esempio diario perché di questo si tratta: un libro con un editore, numerose pagine, copertina scura con il volto della giovane che vi campeggia con un mezzo sorriso leonardesco, illuminato da una studiatissima vampa di luce laterale. Addirittura sono state fatte promozioni in libreria, ed è ancora Noa a mostrare orgogliosa il volume in direzione dell'obiettivo fotografico, lo sguardo che non si capisce se più dolente o sornione, l'aspetto da fatina buona di Pinocchio, così contribuendo alle vendite che si sono ora di certo impennate, causa del tragico ma ampiamente annunciato epilogo.
In un acuto saggio di alcuni decenni fa, Cesare Garboli ricordava che il gesto di scrivere e, quindi, di pubblicare, già che i due momenti sono distinti e non necessariamente collegati, contiene sempre una monetina da puntare speranzosi sul settore rosso della vita, nella sua essenza costituita dalla relazione. Al pensiero aggiungeva degli esempi, mostrando come autori le cui pagine grondano di tragico sgomento o quiete e disilluse geremiadi, nelle fasi in cui furono più prolifici godevano di un certo equilibrio personale; non possiamo certo chiamarlo felicità, ma è comunque distante dalla resa biografica allo sconforto, da sempre annichilente anche sull'espressione artistica. Non si scrive, insomma, quando il mal di vivere ha preso il sopravvento. E a maggior ragione non si pubblica, istituendo così un interlocutore a quel livello solo potenziale o ancora meglio implicito, come lo chiamano gli studiosi della materia: ma è comunque un altro da sé, a cui rivolgersi per uscire dalla solitudine creativa. 
C'è dunque uno scarto, per Garboli, tra la disperazione scritta e quella vissuta, e a sostegno della sua tesi citava anche il caso di Leopardi, sbrigativamente rubricato come campione del pessimismo, un pessimismo addirittura cosmico; così però omettendo che il grande e corrucciato poeta si coricava con dei dolcetti sotto al cuscino... Ma avrebbe potuto ricordare anche Pasolini, il quale considerava la morte come collasso dello scambio significativo ed emotivo tra le persone, quella con-versazione cara allo stesso Leopardi: morire, per l'artista friulano, sarà allora "smettere di comunicare". 
Bene, anzi malissimo, perché Noa, in questi ultimi anni della sua breve e dolorosa vita, stava comunicando di continuo. Ma la sua comunicazione è evidentemente stata unilaterale, come avviene con i segnali lanciati verso remote e forse immaginarie civiltà aliene, per verificare se ci sia vita intelligente nell'Universo. Fino a ora nessun segnale coerente è ritornato, o, magari, siamo noi a non averlo saputo interpretare.
Allo stesso modo temo sia stato per Noa, che non ha saputo cogliere le risposte del mondo alle sue continue e disperate richieste d'attenzione; sarebbe precipitoso chiamarle invocazioni d'aiuto, ma certo implicavano una reciprocità interrotta dalla morte. E ciò anche e soprattutto per nostra incapacità – e con nostra intendo educatori, medici, famigliari, amici ma anche semplici lettori – che non abbiamo saputo trovare il codice giusto per far breccia nel suo universo tutt'altro che chiuso. Una incapacità che era forse impossibilità, non voglio dare giudizi, attribuire colpe, ma quel tentativo spero sia stato fatto, perché a una domanda deve sempre seguire una risposta. Diversamente saremmo irresponsabili, come a dire complici.
In fondo solo questo chiedeva Noa, anzi urlava per quanto in forma paradossale, come spesso avviene nei suicidi. Non di morire in un silenzio discreto, ma di ristabilire una relazione che, come tutte le relazioni, deve costruirsi sul fragile fondamento dialettico di un tu e un io, a premessa linguistica della formazione del più ampio pronome noi. Invece, per la fatina bionda di Arnhem, noi siamo rimasti loro, gli altri, quelli che non possono capire. E senza comprensione non c'è neppure comunicazione, dunque vita.

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