giovedì 14 febbraio 2019

Il cappello di Bastianich, o sulla rivincita della realtà sull'immaginario

Sanremo è tante cose assieme – musica, show, pettegolezzo, intrattenimento leggero e non di rado noia – ma soprattutto il sintomo di qualcosa che sentiamo premere da sotto, come un foruncolo che vorrebbe esplodere. C’è ma non sappiamo esattamente dove.
Nella sua sessantanovesima edizione un barlume di senso, se non ancora il bandolo della matassa, a me è parso di coglierlo proprio all’inizio dell’ultima serata, quando Claudio Bisio ha presentato la giuria di qualità.
Tra gli altri vi era il noto chef Joe Bastianich, che, oltre a degli occhiali da sole decisamente incongrui, sfoggiava un cappellaccio nero dalle larghe tese; un indumento considerato a teatro assoluto tabù, impendendo la vista a chi succede.
Seduta dietro di lui si contorceva infatti una donna, prima allungava il collo a destra, poi a sinistra, nella speranza di scorgere qualcosa al di là di quella cortina di feltro calata tra lei il mondo, o perlomeno il surrogato di mondo per cui aveva pagato un biglietto che si può immaginare salato.
Potremmo liquidare il tutto come l’atteggiamento scortese di un personaggio pubblico un po’ pieno di sé, ma non credo sia solo questo. Nella trascurabile e stonata frazione di uno spettacolo nel complesso coerente, visualizziamo piuttosto il mattoncino metaforico da cui ogni opera prova a elevarsi, poco importa se poi si concluda in cattedrale o macerie.
Lo intuiamo dalla professione di Bastianich, che è appunto quella di cuoco, e lasciando provvisoriamente da parte le numerose stelle di cui si ammanta la sua cucina. In sintesi: un cuoco è una persona che produce cibo; il cibo dà piacere alla gola, al palato, al corpo; il piacere del corpo ha da alcuni anni invaso i palinsesti televisivi e il costume degli italiani.
Un’epoca all’insegna del piacere, dunque. O ancora più precisamente del godimento, come lo chiamava Lacan attraverso un sinonimo che ci avvicina al codice segreto di questa edizione di Sanremo. Già, perché il godimento, per il grande psicanalista francese, più che un’esperienza tangibile – il corpo è solo una delle tante maschere, una stazione di passaggio ma non di approdo – sta nel regime immaginario delle attese, che fa da velo alla realtà concreta quanto a quella simbolica, a concludere la tripartizione con cui egli divideva l’esperienza psichica.
Ma non è proprio ciò a cui abbiamo appena assistito?
Un cuoco, e cioè un artefice del godimento immaginario e, di conseguenza, illimitato da qualsiasi vincolo, con il suo cappello oscura lo sguardo di chi sta seduto alle sue spalle, ponendosi quale unico oggetto della rappresentazione. Una dinamica, su scala più ampia, a cui stiamo assistendo da diversi anni, in televisione come nella vita di tutti i giorni: l’immaginario che si prende tutta la scena, confinando la realtà a sintomo e delegittimando il simbolo da ogni autorità. Tra cui quella paterna.
Poi però succede qualcosa, probabilmente imprevista…
Succede che vince una canzone trascurata anche dai bookmaker, forse imperfetta, grezza come tutte le cose vere, in cui la realtà squarcia la tela immaginaria, senza che Penelope riesca a metterci una pezza.
No, non si tratta del ritorno di Ulisse ma di suo figlio Telemaco, che ha le fattezze di un bel ragazzone italo-egiziano di nome Mahmood. Con il ritmo rappato e un po’ stereotipo dei nostri giorni, si rivolge a un padre defilato, forse fuggito, certamente assente: Papà, dove sei, dove sei stato in tutti questi anni, anche tu a inseguire il godimento corpo e i fantasmi della mente (“champagne sotto Ramadan, alla TV danno Jackie Chan”), oppure i soldi, soldi, soldi, per pagarti le cenette al ristornate di Bastianich?
Io, tuo figlio, chiedo però che i padri tornino a fare i padri, si assumano la responsabilità di gesti che siano simbolici e non solo immaginari, togliendosi il cappello come si conviene davanti a una donna, e a maggior ragione quando stia dietro.
Ma questo compito i padri occidentali non sono più in grado di assolverlo, Bisio l’ha ammesso chiaramente nel suo monologo, tanto meno la madri o le nonne, che hanno la chioma fluente e blu della Bertè. Solo un figlio poteva allora perforare questa grande finzione immaginaria che è Sanremo, far volare la toque blanche a tutti gli chef stellati che ci assillano, facendo per una volta vincere la realtà. E chissà che non sia l’inizio della riscossa...

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