In questo mese di sospensione del blog ho scritto, c'era da aspettarselo, cose un po' di qua e un po' di là. Su Facebook, più che
altro. Il quale Facebook, oggi, chissà per quale errore o impeto
censorio, stava per cancellarmi tutto. Dal momento che tra quei testi
sparsi, a mio avviso, è presente qualcosa con un valore autonomo di
scrittura - autonomo dal mezzo, intendo -, ho deciso di trasferire tutto
qui. Sono esattamente un mese (dal 29 novembre al 29 dicembre) di
pensieri, racconti e considerazioni sparse, ordinati con cronologia decrescente: dal più recente al più vecchio.
1) Ieri sera un mio contatto Facebook ha postato alcuni versi tratti da una poesia di Alejandra Pizarnik, una poetessa argentina dagli occhi neri e bellissimi. Dopo una breve ricerca su internet, scopro che sono stati scritti tra il 1971 e il 1972, anni in cui anche io iniziavo ad avere un'intensa attività di scrittura: cane, gatto, mela... Al termine della prima elementare anche pensieri più articolati, come "Corado (ah, le doppie!) non si lava e puza". I versi che più mi hanno colpito, tra quelli della Pizarnik, sono:
"(tutto ciò che si può dire è menzogna)
il resto è silenzio
solo che il silenzio non esiste…"
C'è stato un tempo, ma dopo, quando anche Corrado aveva scoperto la doccia, in cui li avrei trovati intensi, affilati, soavemente inafferrabili: insomma bellissimi, come gli occhi di Alejandra. Ma mentre li leggevo, più volte, per capire (o dovrei magari dire per sentire), mi ritrovavo a ogni lettura più lontano, come chi allunghi il braccio ma veda il tram muoversi più veloce.
Ora, a tram perduto, trovo in quei versi qualcosa di pesante, perfino di kitsch - l'adesione a un'idea del poetico come ineffabilità del dire, che riconduce la parola un certo orfismo compiaciuto, qui però anche cerebrale. Mi è allora tornata alla mente la celebre sentenza di Wittgenstein, contenuta nel Tractatus Logico-Philosophicus: "ciò che non si può dire non deve essere detto."
Più tardi, negli appunti, cambiò idea, elaborando il concetto di "giochi linguistici". Ma l'uscita più potente dall'invaso a cui Wittgenstein aveva condotto la parola, paralizzata dalla vista di Medusa sotto il sembiante di una coscienza troppo estesa, non venne dalla filosofia ma dal linguaggio drammaturgico. E penso naturalmente a Beckett, quando, nell'Innominabile, fa pronunciare al suo misterioso personaggio senza nome: "You must go on. I can't go on. I'll go on'."
Per questo quando mi trovo anch'io a pensare che le parole sono niente, mi rispondo che è pappa per filosofi e per poeti, pensieri con cui non mi è possibile "farci" delle cose. Perché per un narratore le parole invece sono fare, e sono tutto…
(e tutto ciò che si può dire è verità)
il resto è rumore
solo che il rumore non esiste.
Non esisterà dunque rumore fino a che ci sarà qualche narratore che, sapendo le parole e la loro impossibilità a procedere oltre, oltre le parole, nei regni incontaminati del senso ("I can't go on"), si dirà e io devo andare avanti lo stesso, mettere ordine, costruire storie e articolare in suono il caos, lungo l'asse di pentagrammi di pura e fervida invenzione. E così, estratta la spada di Perseo, reciderà i suoi dubbi alla radice e si risolverà ad andare avanti: he'll go on'.
Al punto che mi viene ora da insinuare che solo questo andare avanti, comunque avanti nel buio, nel rumore cieco e stolido che fanno le cose quando incontrano i pensieri, è "la verità". La verità della letteratura, almeno. Il resto è poesia corrucciata o filosofia continentale, ma a noi interessa sempre meno. Già che per una buona storia basta la parola tavolo, gatto, mela. E qualche Corrado in giro da annusare con dolcezza.
2) Chi è un mediocre? Umberto Eco, in un celebre saggio scritto nel 1961 e incluso in "Diario minimo", si fece la domanda dandosi pure la risposta. Mike Bongiorno. Oltre ad aver anticipato il postmoderno in Italia, il grande semiologo, con quella risposta, anticipò così un altro inspiegabile mediocre di catodica estensione, che con lo stesso invito ad autointerrogarsi incalza gli ospiti televisivi, rendendo ancora più pleonastica e misteriosa la sua presenza sullo schermo.
"Fenomenologia di Mike Bongiorno" era il titolo del breve saggio di
Eco, nel quale arrivava a concludere che il successo del presentatore stava
proprio nella qualità ipotizzata, o meglio nella sua assenza, l'omissione di
ogni specifica qualità, che è il tratto distintivo del mediocre. E Mike
Bongiorno con tutta evidenza lo era: non sapeva niente di tutto ma neppure
tutto di qualcosa, come i concorrenti dei quiz che gli diedero popolarità.
Semplicemente leggeva le domande di altri destinate ad altri ancora; era
insomma un semplice collettore di conoscenze, come il tubo del lavandino. E
anche quando raggiungeva la vetta del Monte Bianco per farsi un grappino, è
perché ce lo portavano in elicottero.
Eppure, da tale livellamento qualitativo al ribasso il pubblico ne usciva gratificato, percependo il presentatore italoamericano come sostituto ideale di se stesso; "uno di noi", come vuole un'espressione altrettanto celebre e mediocre. Addirittura un filino più scemo, e ciò assolve ogni personale negligenza e sgombra dai fumi incensati della soggezione, tra cui quella a ogni forma di autorità, anche estetica o morale.
Ci pensavo in questi giorni sbirciando i post dei personaggi famosi su Facebook. Alcuni sono degli intellettuali o scrittori di robusta rinomanza, altri ancora soggetti a un culto vigoroso, benché ristretto e vagamente carbonaro. Tra di loro molti stanno tra i miei contatti, di taluni arrivo perfino all'ammirazione incondizionata, ma nemmeno il pregiudizio di favore riesce a evitare un effetto generale di ridimensionamento: tutti, sì, anche i miei beniamini si rimpiccioliscono come Alice appena scrivono qui, senza però ritornare mai più grandi.
In parte è un effetto della velocità del mezzo, della sua statutaria occasionalità, dovendo risevare le migliori energie ad attendere alle opere più "serie". Un po' come le famigerate foto di Wojtyla, i più vecchi ricorderanno, rubate dal Paparazzo di turno mentre è mezzo nudo che si balocca nella piscina vaticana. Con l'unica differenza che questi sono autoscatti su doppio mento e pancetta, selfie prontamente ammanniti ai credenti in forma di eucarestia casual e un po' blasè.
Secondo me il dato però rimane: gli intellettuali sono un po' degli stupidotti, dai, diciamocelo, quando li leggiamo nelle distratte e rapide banalità che rigurgitano a getto continuo su Facebook. Ma bisogna riconoscere che ciò non ridimensiona il loro appeal, anzi, al contrario, lo incrementa, facendoceli percepire come uno, anzi molti, infiniti noi con cui comunicare senza filtri e raggiunta intimità, alla stregua di compagni di un qualche sport di squadra molto rude, ma al termine dell'incontro e già sotto la doccia con lo shampoo.
Se ci soffermiamo ancora un momento, ci accorgiamo così che è proprio questa la segreta utopia romanzesca, espressa con candore da Salinger nel terzo capitolo di Catcher in the Rye: "Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira."
Et voilà Holden, eccoti servito: inventato Facebook. E per quanto certi minimi ma affillati colli di bottiglia continuino a lumeggiare sulle macerie del muro, nella forma di una certa ritrosia a dare spago, corda, se non ai propri pari in professione o celebrità; ma forse è giusto così, se non si vuol finire come lo scrittore imprigionato dalla lettrice che non accetta la morte della sua eroina, il cui monito è simbolizzato dal capolavoro di Stephen King ("Misery non deve morire"). Ma questo tema meriterebbe un'altra e più estesa riflessione, che in parte ho già svolto qui: http://fontanaconsoldino.blogspot.it/…/il-mio-nome-come-il-….
Tornando allora alla sterminata comunità di mediocri che si chiama Facebook, a me pare che ci ricordi un tratto infinitamente umano, teneramente umano e quasi cristiano - diventare ultimo tra gli ultimi -, che può essere riassunto nella parafrasi di un'alta decisiva acquisizione di Flaubert, che in una battuta condensa il rapporto tra autore, lettore e personaggio. Sì, Madame Bovary etc etc… Che ora diventerebbe più umilmente: "Mike Bongiorno, c'est moi."
Eppure, da tale livellamento qualitativo al ribasso il pubblico ne usciva gratificato, percependo il presentatore italoamericano come sostituto ideale di se stesso; "uno di noi", come vuole un'espressione altrettanto celebre e mediocre. Addirittura un filino più scemo, e ciò assolve ogni personale negligenza e sgombra dai fumi incensati della soggezione, tra cui quella a ogni forma di autorità, anche estetica o morale.
Ci pensavo in questi giorni sbirciando i post dei personaggi famosi su Facebook. Alcuni sono degli intellettuali o scrittori di robusta rinomanza, altri ancora soggetti a un culto vigoroso, benché ristretto e vagamente carbonaro. Tra di loro molti stanno tra i miei contatti, di taluni arrivo perfino all'ammirazione incondizionata, ma nemmeno il pregiudizio di favore riesce a evitare un effetto generale di ridimensionamento: tutti, sì, anche i miei beniamini si rimpiccioliscono come Alice appena scrivono qui, senza però ritornare mai più grandi.
In parte è un effetto della velocità del mezzo, della sua statutaria occasionalità, dovendo risevare le migliori energie ad attendere alle opere più "serie". Un po' come le famigerate foto di Wojtyla, i più vecchi ricorderanno, rubate dal Paparazzo di turno mentre è mezzo nudo che si balocca nella piscina vaticana. Con l'unica differenza che questi sono autoscatti su doppio mento e pancetta, selfie prontamente ammanniti ai credenti in forma di eucarestia casual e un po' blasè.
Secondo me il dato però rimane: gli intellettuali sono un po' degli stupidotti, dai, diciamocelo, quando li leggiamo nelle distratte e rapide banalità che rigurgitano a getto continuo su Facebook. Ma bisogna riconoscere che ciò non ridimensiona il loro appeal, anzi, al contrario, lo incrementa, facendoceli percepire come uno, anzi molti, infiniti noi con cui comunicare senza filtri e raggiunta intimità, alla stregua di compagni di un qualche sport di squadra molto rude, ma al termine dell'incontro e già sotto la doccia con lo shampoo.
Se ci soffermiamo ancora un momento, ci accorgiamo così che è proprio questa la segreta utopia romanzesca, espressa con candore da Salinger nel terzo capitolo di Catcher in the Rye: "Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira."
Et voilà Holden, eccoti servito: inventato Facebook. E per quanto certi minimi ma affillati colli di bottiglia continuino a lumeggiare sulle macerie del muro, nella forma di una certa ritrosia a dare spago, corda, se non ai propri pari in professione o celebrità; ma forse è giusto così, se non si vuol finire come lo scrittore imprigionato dalla lettrice che non accetta la morte della sua eroina, il cui monito è simbolizzato dal capolavoro di Stephen King ("Misery non deve morire"). Ma questo tema meriterebbe un'altra e più estesa riflessione, che in parte ho già svolto qui: http://fontanaconsoldino.blogspot.it/…/il-mio-nome-come-il-….
Tornando allora alla sterminata comunità di mediocri che si chiama Facebook, a me pare che ci ricordi un tratto infinitamente umano, teneramente umano e quasi cristiano - diventare ultimo tra gli ultimi -, che può essere riassunto nella parafrasi di un'alta decisiva acquisizione di Flaubert, che in una battuta condensa il rapporto tra autore, lettore e personaggio. Sì, Madame Bovary etc etc… Che ora diventerebbe più umilmente: "Mike Bongiorno, c'est moi."
3) La differenza, pensavo, tra Freud e padre Pio, è che il secondo ha la barba un po' più lunga e meno coltivata, altre non me ne vengono in mente. Entrambi sostengono infatti teorie molto "singolari", oltre che di impossibile verifica ma di grande impatto e prestigio sociale, forse grazie a un innegabile smalto linguistico e umana intuizione - in entrambe sempre - con cui guariscono le persone, o meglio qualche persona, poche, a onor del vero.
Solo che se a Freud rispondi no, insomma, non ti
pare di volerti scopare tua mamma, lui ribatte: "Ecco, lo vede, ho ragione
io: una negazione che è la conferma di un conflitto inconscio, tipico strumento
difensivo! Ma torni tra due giorni, è finita la seduta. Fanno cento euro."
Mentre se confidi a padre Pio che Trinità, per te, è solo un personaggio cinematografico interpretato da Terence Hill in uno stato di grazia (è il caso di dirlo) mai più ritrovata, lui scuote un po' la testa come fa il mulo col tafano, e poi borbotta quasi tra sé: "Ma non si chiamava Mario Girotti, quello là?"
Ne ricavo che la psicanalisi è una religione, una bellissima e perfino sapiente religione, ma molto più autoriferita e superstiziosa di quanto non sia il cattolicesimo romano.
Mentre se confidi a padre Pio che Trinità, per te, è solo un personaggio cinematografico interpretato da Terence Hill in uno stato di grazia (è il caso di dirlo) mai più ritrovata, lui scuote un po' la testa come fa il mulo col tafano, e poi borbotta quasi tra sé: "Ma non si chiamava Mario Girotti, quello là?"
Ne ricavo che la psicanalisi è una religione, una bellissima e perfino sapiente religione, ma molto più autoriferita e superstiziosa di quanto non sia il cattolicesimo romano.
4) L'idea mi gira per la testa già da un pezzo, ma adesso
abbiamo anche il nome: "Cacciarino", marchio registrato. In pratica,
un emoticon che riproduca le smorfie di Cacciari quando sente parlare un
cretino - avremo così il Cacciarino che sbuffa, il Cacciarino adirato, il
Cacciarino che manda tutti in mona - da utilizzare su Facebook quando
incocciamo in un post o commento o argomento comunque un po' insulso,
sconclusionato. 0,1 centesimo di euro per ogni volta che viene digitato, questa
la richiesta commerciale della mia start up. E poi non ditemi che non vi avevo
avvertiti: qui c'è da fare i soldi!
5) Mi piacerebbe, delle cose, potere amare le cose: di un
tavolo la superficie leggermente irregolare a una mano attenta e lieve, del
cioccolato la consistenza al palato, il dolce, il salato, e non la percentuale
di cacao che sta scritta sulla confezione a grandi lettere. E mi piacerebbe
potere amare quella tua cicatrice sul collo, si vede solo quando sfili il
maglione e poi vai a dormire, da qualche parte, nemmeno troppo lontano. E'
piccola piccola e ha dietro una storia brutta e
cattiva, me l'hai raccontata a lato di un bacio ma mi piacerebbe potere amarla
anche senza conoscerla, senza conoscere nessuna storia e nessun bacio. Mi
piacerebbe potere amarti senza conoscere l'amore, come nel gorgo di una lingua
straniera, come la stranezza di dirtelo solo ora. Mi piacerebbe ma non posso, e
tu lo sai da sempre che non posso. Perché l'amore è antologia delle nostre
storie, le uniche cose che davvero conosciamo: tavolo, maglione, cioccolato,
che ora ti ho appena restituito nell'invenzione. Per amore?
6) Il tempo: la metà degli anni settanta. La Calabria invece il
luogo, oppure la Puglia, la Basilicata, ci andavamo in estate con la roulotte
Elnagh dal tendino blu. Quando in quei viaggi caldissimi - roba da americani,
si diceva allora del condizionatore - incrociavamo un'altra automobile targata
Sondrio, mio padre cominciava a premere sul clacson della 128 rally, oppure era
l'altro automobilista a farlo per primo, con i passeggeri delle due vetture che
si sbracciavano in ampi e gioiosi saluti, come cuccioli di boxer alla vista del
padrone con la ciotola del cibo.
Ripensandoci ora, mi sembra la perfetta metafora di qualcosa di bello, ma al contempo anche di terribile, come è sempre terribile la bellezza, qualcosa che continua però a sfuggirmi...
Ripensandoci ora, mi sembra la perfetta metafora di qualcosa di bello, ma al contempo anche di terribile, come è sempre terribile la bellezza, qualcosa che continua però a sfuggirmi...
7) A vent'anni
mi capitava di lavorare ogni tanto come fotomodello. Facevo l'università, nel
frattempo, a Pavia. Un'estate il locale pavese più in voga nel periodo, vide il
mio book e mi assunse in qualità di cameriere un po' sui generis. In realtà ad
assumermi fu un'art director, donna, capelli a cresta e occhiali da vista in
acetato di cellulosa fucsia, che gestiva le pubbliche relazioni del locale.
"Cerchiamo un ragazzo bello e leggero", mi disse. Io non dissi niente e lei aggiunse, mentre continuava a soppesare il mio corpo con lo sguardo: "Un ragazzo bello e leggero per servire ai tavoli femminili. E tu saresti perfetto!"
Così passai quell'estate, caldissima, a servire Negroni e Pina Colada a vocianti tavolate di signorotte padane, ragazzine in crisi col moroso, single per vocazione e pure qualche zitella, ma più allegra di una vedova. Quando entravano dei maschi li serviva la mia collega Rossana, che aveva un flirt con il barman e beveva solo Lancer rosè. Quanto alle coppie miste, si tirava la monetina.
Sul lavoro indossavo scarpe di vernice bianche, bianco anche il completo di lino e una canottiera grigia sotto, con una voluminosa scritta al centro: Gerard. Non so chi fosse questo Gerard, a volte le donne pensavano fosse il mio nome - "Gerard, ci porti altri due Gin tonic" - ma nelle intenzioni dell'art director immagino che l'intera foggia avrebbe dovuto esaltare tutta la mia bellezza, la mia leggerezza.
Ecco, il ricordo è finito qui. Nemmeno so il motivo che mi ha spinto a scriverlo. Forse c'entra qualcosa il fatto che, negli ultimi vent'anni, quando una donna vuole farmi un complimento mi dice qualcosa del tipo: "Tu sì, che c'hai una testa!", con implicito sottotesto che gli uomini siano normalmente acefali, specie quelli con cui hanno rapporti sessuali consenzienti. A volte usano anche il sostantivo cervello, oppure intelligenza, le più vezzose dicono comprendonio, ma il concetto è quello lì. Non sapendo che io, dentro, a molti piani interrati sotto e a dispetto del principio di realtà, continuo invece a percepirmi come bello e leggero...
"Cerchiamo un ragazzo bello e leggero", mi disse. Io non dissi niente e lei aggiunse, mentre continuava a soppesare il mio corpo con lo sguardo: "Un ragazzo bello e leggero per servire ai tavoli femminili. E tu saresti perfetto!"
Così passai quell'estate, caldissima, a servire Negroni e Pina Colada a vocianti tavolate di signorotte padane, ragazzine in crisi col moroso, single per vocazione e pure qualche zitella, ma più allegra di una vedova. Quando entravano dei maschi li serviva la mia collega Rossana, che aveva un flirt con il barman e beveva solo Lancer rosè. Quanto alle coppie miste, si tirava la monetina.
Sul lavoro indossavo scarpe di vernice bianche, bianco anche il completo di lino e una canottiera grigia sotto, con una voluminosa scritta al centro: Gerard. Non so chi fosse questo Gerard, a volte le donne pensavano fosse il mio nome - "Gerard, ci porti altri due Gin tonic" - ma nelle intenzioni dell'art director immagino che l'intera foggia avrebbe dovuto esaltare tutta la mia bellezza, la mia leggerezza.
Ecco, il ricordo è finito qui. Nemmeno so il motivo che mi ha spinto a scriverlo. Forse c'entra qualcosa il fatto che, negli ultimi vent'anni, quando una donna vuole farmi un complimento mi dice qualcosa del tipo: "Tu sì, che c'hai una testa!", con implicito sottotesto che gli uomini siano normalmente acefali, specie quelli con cui hanno rapporti sessuali consenzienti. A volte usano anche il sostantivo cervello, oppure intelligenza, le più vezzose dicono comprendonio, ma il concetto è quello lì. Non sapendo che io, dentro, a molti piani interrati sotto e a dispetto del principio di realtà, continuo invece a percepirmi come bello e leggero...
8) Mi piace osservare d'inverno i grattacieli milanesi all'ora
del tramonto. Non tutti i grattacieli, però, solo quelli che ospitano uffici,
che sono la più parte. Il grattacielo Unicredit che dà su piazza Gae Aulenti,
ad esempio. Basta sedersi, da qualche parte, non che ci siano molte panchine,
ma si trova. Quindi aspettare.
Intorno alla diciassette, con il cielo che sta imbrunendo ma non è ancora nero nero, iniziano a spegnersi le prime luci interne. Poi è tutto un incalzare di interruttori: clic, clic, clic… E così la sagomona di vetro e acciaio si rabbuia sempre più, come un albero di Natale arrivata l'Epifania.
Ma ci sono sempre tre o quattro luci che perseverano nel rimanere accese; sono già le sette di sera, le otto perfino, e qualcuno ancora abita quelle stanze.
Chi sono, mi chiedo allora ogni volta: degli stakanovisti, amanti clandestini, il direttore e la segretaria? E fosse pure il personale delle pulizie, quando mi alzo intirizzito per il freddo penso che invecchiare deve essere un po' la stessa cosa, la medesima perseveranza.
Il mondo che conoscevi si spegne un po' alla volta - prima è un'eccezione, una lampadina rotta, poi diventa la regola incalzante - ma tu non vuoi pigiare quello stramaledetto interruttore.
Intorno alla diciassette, con il cielo che sta imbrunendo ma non è ancora nero nero, iniziano a spegnersi le prime luci interne. Poi è tutto un incalzare di interruttori: clic, clic, clic… E così la sagomona di vetro e acciaio si rabbuia sempre più, come un albero di Natale arrivata l'Epifania.
Ma ci sono sempre tre o quattro luci che perseverano nel rimanere accese; sono già le sette di sera, le otto perfino, e qualcuno ancora abita quelle stanze.
Chi sono, mi chiedo allora ogni volta: degli stakanovisti, amanti clandestini, il direttore e la segretaria? E fosse pure il personale delle pulizie, quando mi alzo intirizzito per il freddo penso che invecchiare deve essere un po' la stessa cosa, la medesima perseveranza.
Il mondo che conoscevi si spegne un po' alla volta - prima è un'eccezione, una lampadina rotta, poi diventa la regola incalzante - ma tu non vuoi pigiare quello stramaledetto interruttore.
9) Cenone di Natale. Ivan, Michele e io. C'è anche mia madre,
soprannominata Fata Morgana durante la serata.
E' una delle specialità di Michele, dare soprannomi. Io sono stato ribattezzato Lupeus e Ivan Lupeus. "Ma Michele, è lo stesso soprannome" qualcuno gli fa notare.
"Non importa", risponde lui.
"E tu come ti chiami, qual è il tuo soprannome?" continua a incalzarlo Ivan.
Ci pensa un attimo.
"Io sono Il Bambino."
"E perché proprio Il Bambino?"
"Perché sono un bambino, non voglio invecchiare..."
I due Lupeus e Fata Morgana si guardano. Poi Il Bambino aggiunge: "Non voglio morire."
Buon Natale da Sondrio.
E' una delle specialità di Michele, dare soprannomi. Io sono stato ribattezzato Lupeus e Ivan Lupeus. "Ma Michele, è lo stesso soprannome" qualcuno gli fa notare.
"Non importa", risponde lui.
"E tu come ti chiami, qual è il tuo soprannome?" continua a incalzarlo Ivan.
Ci pensa un attimo.
"Io sono Il Bambino."
"E perché proprio Il Bambino?"
"Perché sono un bambino, non voglio invecchiare..."
I due Lupeus e Fata Morgana si guardano. Poi Il Bambino aggiunge: "Non voglio morire."
Buon Natale da Sondrio.
10) I bambini parlano e dicono le cose che hanno sempre detto i
bambini. Meraviglia del nuovo, curiosità per l'ingranaggio, verità occultate
che nelle loro parole galleggiano nuovamente in superficie, per il piacere
adulto dell'orgoglio: com'è intelligente, mio figlio! Sarà per questo che sono
ormai diventati un genere letterario, su Facebook.
Io non sono padre, ma mi piace la nuova moda di trascrivere le conversazioni con i figli, è divertente e istruttiva. Bocconcini di verità sul nostro tempo avvolti in teneri e arguti siparietti, che i genitori corrono immediatamente a postare sulla loro bacheca, sollevando un coro unanime di consenso.
Ogni tanto mi capita però di pensare che non è sempre stato così. Ci sono state epoche, intere civiltà per cui la verità non veniva pronunciata dai bambini, ma dagli anziani. Parla Alce Nero e tutti cito, muti, mosca, ad ascoltare compresi e attenti quel che dice il vecchio saggio.
A partire dal Seicento europeo, ma riprendendo una tradizione antica, la verità è stata invece ricercata nel teatro silenzioso degli specchi, in un fitto colloquio con l'anima individuale: "in interiore homine stat veritas", ammoniva Agostino. E dunque bisognava pensare prima di essere, pensare per essere, perché quell'io e solo io, ritrovato al termine del soliloquio, desse legittimità e vigore anche alla parola pubblica.
Ora si rottamano invece le automobili, si rottamano i politici e si rottama in fondo quella vocina interiore che pronunciava il mondo, con le sottili e complesse relazioni che ad esso ci uniscono, per separarci come soggetti unici e individuati.
E così il sussurro della verità - "parresia" la chiamavano i greci, a cui stava molto a cuore la faccenda -, come un testimone che scotta è stata ora rifilata ai bambini. Con l'unica responsabilità residua di accendere il registratore, per poi affiggere i loro buffi decreti sui portali delle nostre moderne cattedrali informatiche. Quindi inginocchiarci e pregare.
Io non sono padre, ma mi piace la nuova moda di trascrivere le conversazioni con i figli, è divertente e istruttiva. Bocconcini di verità sul nostro tempo avvolti in teneri e arguti siparietti, che i genitori corrono immediatamente a postare sulla loro bacheca, sollevando un coro unanime di consenso.
Ogni tanto mi capita però di pensare che non è sempre stato così. Ci sono state epoche, intere civiltà per cui la verità non veniva pronunciata dai bambini, ma dagli anziani. Parla Alce Nero e tutti cito, muti, mosca, ad ascoltare compresi e attenti quel che dice il vecchio saggio.
A partire dal Seicento europeo, ma riprendendo una tradizione antica, la verità è stata invece ricercata nel teatro silenzioso degli specchi, in un fitto colloquio con l'anima individuale: "in interiore homine stat veritas", ammoniva Agostino. E dunque bisognava pensare prima di essere, pensare per essere, perché quell'io e solo io, ritrovato al termine del soliloquio, desse legittimità e vigore anche alla parola pubblica.
Ora si rottamano invece le automobili, si rottamano i politici e si rottama in fondo quella vocina interiore che pronunciava il mondo, con le sottili e complesse relazioni che ad esso ci uniscono, per separarci come soggetti unici e individuati.
E così il sussurro della verità - "parresia" la chiamavano i greci, a cui stava molto a cuore la faccenda -, come un testimone che scotta è stata ora rifilata ai bambini. Con l'unica responsabilità residua di accendere il registratore, per poi affiggere i loro buffi decreti sui portali delle nostre moderne cattedrali informatiche. Quindi inginocchiarci e pregare.
11) Mia nonna Maria era abbonata al Postal Market. Il postino,
una volta ogni tre mesi, le lasciava quel grosso tomo colorato sulle scale di
pietra lisa della fattoria di Busteggia, assieme all'ultima copia di Famiglia
Cristiana.
Non so se la nonna abbia mai acquistato qualcosa per corrispondenza - diffidente com'era… - ma passati altri tre mesi, una diversa stagione da rivestire, e il nuovo catalogo di abbigliamento arrivava puntuale a sostituire il precedente. Così quest'ultimo finiva, una pagina oggi una pagina domani, in una grossa stufa di maiolica scura, assieme al faccione sorridente di qualche vescovo o Papa. È dunque a questo modo che io l'ho conosciuta: accendendo la stufa dei nonni con uno zolfanello dalla capocchia vermiglia.
Era un pomeriggio gelido di fine febbraio, l'inverno non voleva decidersi a terminare. Sulla pagina a cui dovevo appiccare il fuoco per avviare la combustione dei grossi ciocchi di noce, che venivano posti sotto quelli un po' più piccoli e secchi di robinia, ci stava una ragazzotta mora, formosetta, gli zigomi tondi e rubizzi. Era diversa dalle ragazze pallide, magre quasi al punto di mostrare gli spigoli, le giunture come gli snodi dell'albero motore, che stavano sulle riviste che leggeva la mamma. E poi quelle erano vestite, mentre la ragazzotta indossava solo le mutande e il reggiseno, su cui erano stampate delle minuscole ciliegine rosse. Lire milleduecento, stava scritto sotto.
Ma ancor più sotto, sotto le ciliegine rosse, sotto le mutande bianche si intravedeva un alone scuro e irregolare. Una sagoma leggermente prominente, a guardar meglio quasi un triangolo, e io stavo guardando con tutto il mio corpo spalancato, non solo le pupille.
Forse è quella cosa, mi sono detto mentre ero ancora lì pensieroso, la cosa di cui mi ha parlato Federico al ritorno da scuola, prima di giocare a ruzzo con le biglie di vetro trasparente, come facevano i ragazzi grandi di quinta. Quella cosa lì, sì, proprio quella!
"Alura Guidin, t'è pizat la pigna?"
"Adesso nonna, un momento, ho quasi fatto… "
Ed è così che, subito dopo avere intravisto per la prima volta la fica, ho dovuto bruciare la fica.
Non so se la nonna abbia mai acquistato qualcosa per corrispondenza - diffidente com'era… - ma passati altri tre mesi, una diversa stagione da rivestire, e il nuovo catalogo di abbigliamento arrivava puntuale a sostituire il precedente. Così quest'ultimo finiva, una pagina oggi una pagina domani, in una grossa stufa di maiolica scura, assieme al faccione sorridente di qualche vescovo o Papa. È dunque a questo modo che io l'ho conosciuta: accendendo la stufa dei nonni con uno zolfanello dalla capocchia vermiglia.
Era un pomeriggio gelido di fine febbraio, l'inverno non voleva decidersi a terminare. Sulla pagina a cui dovevo appiccare il fuoco per avviare la combustione dei grossi ciocchi di noce, che venivano posti sotto quelli un po' più piccoli e secchi di robinia, ci stava una ragazzotta mora, formosetta, gli zigomi tondi e rubizzi. Era diversa dalle ragazze pallide, magre quasi al punto di mostrare gli spigoli, le giunture come gli snodi dell'albero motore, che stavano sulle riviste che leggeva la mamma. E poi quelle erano vestite, mentre la ragazzotta indossava solo le mutande e il reggiseno, su cui erano stampate delle minuscole ciliegine rosse. Lire milleduecento, stava scritto sotto.
Ma ancor più sotto, sotto le ciliegine rosse, sotto le mutande bianche si intravedeva un alone scuro e irregolare. Una sagoma leggermente prominente, a guardar meglio quasi un triangolo, e io stavo guardando con tutto il mio corpo spalancato, non solo le pupille.
Forse è quella cosa, mi sono detto mentre ero ancora lì pensieroso, la cosa di cui mi ha parlato Federico al ritorno da scuola, prima di giocare a ruzzo con le biglie di vetro trasparente, come facevano i ragazzi grandi di quinta. Quella cosa lì, sì, proprio quella!
"Alura Guidin, t'è pizat la pigna?"
"Adesso nonna, un momento, ho quasi fatto… "
Ed è così che, subito dopo avere intravisto per la prima volta la fica, ho dovuto bruciare la fica.
12) Le teorie mi sfuggono, non le capisco, ci ho anche provato,
ma c’è sempre qualcosa a loro pro, e qualcosa contro. Con le persone è invece
diverso, mi sembra di riuscire a orientarmi meglio. Per questo, da qualche
tempo, ho iniziato ad associare le teorie alle persone.
Esempio: la contabilità. Anche se ho fatto ragioneria, di contabilità io non è che ne capisca tanto: “merce in conto terzi, ammortamento macchinari, storno di magazzino.” Mah…
Però se metto in relazione la contabilità con i commercialisti, ecco, tutto si fa più chiaro, e intuisco che la contabilità è una teoria un po’ del cazzo, e che preferisco scandalo economico del dono. Così posso passare oltre.
La stessa cosa ho quindi provato a fare con la spiritualità, che per molti anni è stato un tema che mi ha coinvolto, se non proprio appassionato. Belli eran belli, quei discorsi pieni di volute mistiche e soffici proposizioni. Però, anche lì, mi sfuggiva sempre qualcosa.
Ho dunque associato le dottrine spiritualistiche, facendo un po’ un calderone, lo ammetto, alle persone che se ne professano seguaci. Guaritori spirituali, new ager, cartomanti (anch’io lo sono, per inciso), psicomaghi, sciamani, meditatori trascendentali, fioribacchisti e veganisti in camicione arancione e infradito… Insomma, il catalogo è questo, lo conoscete tutti.
Un mondo che mi era per molti versi familiare, devo ammetterlo. Mi sono però accorto che ne usciva un diorama di orrori. E’ come se una persona, nel momento in cui viene coinvolta da qualsiasi tema o pratica spirituale, diventasse immediatamente una brutta persona. Avida, superficiale, presuntuosa. Egoista, soprattutto.
Non chiedetemi perché ciò avvenga: è di nuovo teoria. E io voglio provare a stare ai fatti, che sono indubitabilmente questi. Un crollo vertiginoso di etica e decenza estetica in tutto ciò che è toccato dalla spiritualità moderna.
Al contrario, mi sono sorpreso a rivalutare le religioni tradizionali, trovando delle persone sorprendenti tra chi va a messa la mattina presto, le comunità di base o certi ordini monastici. E non mi interessa se il catechismo dica delle sciocchezze – o almeno a me fanno un po' sorridere – ma dentro lì, in quel vecchio mondo inamidato e superstizioso, c’è ancora dell’oro purissimo, delle persone bellissime.
E io ho deciso di stare dalla parte delle persone, non delle teorie.
Esempio: la contabilità. Anche se ho fatto ragioneria, di contabilità io non è che ne capisca tanto: “merce in conto terzi, ammortamento macchinari, storno di magazzino.” Mah…
Però se metto in relazione la contabilità con i commercialisti, ecco, tutto si fa più chiaro, e intuisco che la contabilità è una teoria un po’ del cazzo, e che preferisco scandalo economico del dono. Così posso passare oltre.
La stessa cosa ho quindi provato a fare con la spiritualità, che per molti anni è stato un tema che mi ha coinvolto, se non proprio appassionato. Belli eran belli, quei discorsi pieni di volute mistiche e soffici proposizioni. Però, anche lì, mi sfuggiva sempre qualcosa.
Ho dunque associato le dottrine spiritualistiche, facendo un po’ un calderone, lo ammetto, alle persone che se ne professano seguaci. Guaritori spirituali, new ager, cartomanti (anch’io lo sono, per inciso), psicomaghi, sciamani, meditatori trascendentali, fioribacchisti e veganisti in camicione arancione e infradito… Insomma, il catalogo è questo, lo conoscete tutti.
Un mondo che mi era per molti versi familiare, devo ammetterlo. Mi sono però accorto che ne usciva un diorama di orrori. E’ come se una persona, nel momento in cui viene coinvolta da qualsiasi tema o pratica spirituale, diventasse immediatamente una brutta persona. Avida, superficiale, presuntuosa. Egoista, soprattutto.
Non chiedetemi perché ciò avvenga: è di nuovo teoria. E io voglio provare a stare ai fatti, che sono indubitabilmente questi. Un crollo vertiginoso di etica e decenza estetica in tutto ciò che è toccato dalla spiritualità moderna.
Al contrario, mi sono sorpreso a rivalutare le religioni tradizionali, trovando delle persone sorprendenti tra chi va a messa la mattina presto, le comunità di base o certi ordini monastici. E non mi interessa se il catechismo dica delle sciocchezze – o almeno a me fanno un po' sorridere – ma dentro lì, in quel vecchio mondo inamidato e superstizioso, c’è ancora dell’oro purissimo, delle persone bellissime.
E io ho deciso di stare dalla parte delle persone, non delle teorie.
13) Ieri ero al pranzo dei matti insieme a Michele. Tutti gli
anni, poco prima di Natale, i matti del centro diurno di Sondrio fanno questo
pranzo al ristorante Crap, dove è possibile portare anche i famigliari. I famigliari
di Michele stanno però in Sicilia, e così ha portato me.
La prima cosa che colpisce quando vedi tanti matti in una volta sola, è che non sono matti. Non lo sono, almeno, in base al modo che in cui siamo abituati a pensare la follia, come assenza di ragione. C'è al contrario un'estrema razionalità, direi perfino una logica, nel comportamento dei matti. Logica che pervade l'intero corpo.
Se ad esempio non ti piacciono tanto le crespelle che il cameriere ha appena scodellato nel tuo piatto (e in effetti non erano niente di che), basta vomitarle sulla tavola, come ha fatto una matta seduta a pochi posti di distanza da me e Michele. Il quale si è girato nella mia direzione e, con un sorriso largo e indulgente, ha commentato: "E' mmaatta."
Ed è questa un'altra cosa che sorprende un po': i matti si danno spesso dei matti, consapevoli di esserlo. Ma rientra in fondo in quella diffusa razionalità di cui parlavo: tutto risponde a principi elementari e rassicuranti (prima regola: dare un nome alle cose che sfuggono), in cui spicca il desiderio di essere amati e amare, anche sessualmente. I matti sono insomma degli enormi bambini a cui si aggiungenge un elemento perturbante: il sesso.
La loro logica comprende quindi delle sofisticate strategie di elusione per smarcarsi, in quei momenti in cui il desiderio sessuale si fa più pressante, dal controllo vigile degli educatori, e fare un po' quello che si riesce, già che quello che si vuole è la follia dei sani.
"La vedi quella lì? " mi dice Michele indicandomi una donna bionda di mezza età, lo sguardo un po' appannato dai farmaci e un marcato eyeliner azzurro, che sbava leggermente attorno agli occhi. Né bella né brutta, dalla prospettiva di un paio di tavoli di distanza. "È lei che mercoledì mi fa una sega in ascensore."
Prima, mi ha raccontato sempre lui, andavano nei bagni del centro diurno. Però li ha scoperti il direttore, che li ha minacciati con voce immagino tonante da sotto due baffoni folti e scuri, da me pure solo ipotizzati: "Se vi trovo ancora in bagno a fare le cose, vi mando in prigione!"
Così, per non finire in prigione, è venuto in mente a Michele di pigliare l'ascensore di servizio. Bloccano quindi a mezza corsa - tasto di emergenza -, e dopo aver fatto quello che devono fare (tutti i mercoledì mattina, cascasse il mondo ma non sono ammesse deroghe alla sega di Michele) raggiungono nuovamente gli altri matti per le attività ricreative, tra cui la preghiera che è una delle più diffuse e amate.
Prendiamo dunque il presepe del mondo - un mondo piccolo piccolo e sorvegliato, quello dei matti - rimettiamoci Gesù bambino e la Madonna al centro, il bue, l'asinello e molto ma prorio tanto amore, con anche un pizzico di sesso e volilà, ecco i matti.
Per questo, ogni volta che mi telefona Michele e mi dice solamente "Guiiido, mi manchi", io gli rispondo: "Anche tu mi manchi, Michele."
E davvero mi manca Michele. E quel suo tempo senza tempo, eterno, quella purezza ingenua dell'infanzia in cui tutto l'amore e la protezione e le certezze erano già lì, a nostra disposizione.
Se poi alla sera, poteva succedere, c'era zuppa di carote invece di pastasciutta con il sugo rosso, bastava vomitarla sul tavolo. Tanto la mamma avrebbe poi pulito con uno straccetto a fiori. Però se aggiungiamo anche una spolverata postuma di sesso, dai, diciamocelo, diventa ancora più divertente!
La prima cosa che colpisce quando vedi tanti matti in una volta sola, è che non sono matti. Non lo sono, almeno, in base al modo che in cui siamo abituati a pensare la follia, come assenza di ragione. C'è al contrario un'estrema razionalità, direi perfino una logica, nel comportamento dei matti. Logica che pervade l'intero corpo.
Se ad esempio non ti piacciono tanto le crespelle che il cameriere ha appena scodellato nel tuo piatto (e in effetti non erano niente di che), basta vomitarle sulla tavola, come ha fatto una matta seduta a pochi posti di distanza da me e Michele. Il quale si è girato nella mia direzione e, con un sorriso largo e indulgente, ha commentato: "E' mmaatta."
Ed è questa un'altra cosa che sorprende un po': i matti si danno spesso dei matti, consapevoli di esserlo. Ma rientra in fondo in quella diffusa razionalità di cui parlavo: tutto risponde a principi elementari e rassicuranti (prima regola: dare un nome alle cose che sfuggono), in cui spicca il desiderio di essere amati e amare, anche sessualmente. I matti sono insomma degli enormi bambini a cui si aggiungenge un elemento perturbante: il sesso.
La loro logica comprende quindi delle sofisticate strategie di elusione per smarcarsi, in quei momenti in cui il desiderio sessuale si fa più pressante, dal controllo vigile degli educatori, e fare un po' quello che si riesce, già che quello che si vuole è la follia dei sani.
"La vedi quella lì? " mi dice Michele indicandomi una donna bionda di mezza età, lo sguardo un po' appannato dai farmaci e un marcato eyeliner azzurro, che sbava leggermente attorno agli occhi. Né bella né brutta, dalla prospettiva di un paio di tavoli di distanza. "È lei che mercoledì mi fa una sega in ascensore."
Prima, mi ha raccontato sempre lui, andavano nei bagni del centro diurno. Però li ha scoperti il direttore, che li ha minacciati con voce immagino tonante da sotto due baffoni folti e scuri, da me pure solo ipotizzati: "Se vi trovo ancora in bagno a fare le cose, vi mando in prigione!"
Così, per non finire in prigione, è venuto in mente a Michele di pigliare l'ascensore di servizio. Bloccano quindi a mezza corsa - tasto di emergenza -, e dopo aver fatto quello che devono fare (tutti i mercoledì mattina, cascasse il mondo ma non sono ammesse deroghe alla sega di Michele) raggiungono nuovamente gli altri matti per le attività ricreative, tra cui la preghiera che è una delle più diffuse e amate.
Prendiamo dunque il presepe del mondo - un mondo piccolo piccolo e sorvegliato, quello dei matti - rimettiamoci Gesù bambino e la Madonna al centro, il bue, l'asinello e molto ma prorio tanto amore, con anche un pizzico di sesso e volilà, ecco i matti.
Per questo, ogni volta che mi telefona Michele e mi dice solamente "Guiiido, mi manchi", io gli rispondo: "Anche tu mi manchi, Michele."
E davvero mi manca Michele. E quel suo tempo senza tempo, eterno, quella purezza ingenua dell'infanzia in cui tutto l'amore e la protezione e le certezze erano già lì, a nostra disposizione.
Se poi alla sera, poteva succedere, c'era zuppa di carote invece di pastasciutta con il sugo rosso, bastava vomitarla sul tavolo. Tanto la mamma avrebbe poi pulito con uno straccetto a fiori. Però se aggiungiamo anche una spolverata postuma di sesso, dai, diciamocelo, diventa ancora più divertente!
14) La scorsa settimana mi trovavo sprofondato sulla poltrona di uno psicoterapeuta. Stavo su quella morbidissima poltrona mezzo sdraiato, assonato, una settimana che non dormivo. Ma forse dipendeva - il mio torpore - anche dal fatto che la sua formazione è ericksoniana. Ipnosi, insomma.
"Non sai quante persone vengono in terapia…" mi ha detto lo psicoterapeuta al termine di una pausa di riflessione. Aggiungendo, nuova pausa, una lunga avida boccata alla sigaretta elettronica, quegli accrocchi voluminosi che fanno rimpiangere Jean Gabin e il fumo denso delle sue Gitanes: "Quante persone arrivano dopo anni di psicanalisi. Erickson, poteva risolvere un problema in due o tre sedute."
Erickson era un formidabile artigiano della mente, già. In fondo era il motivo per cui mi trovavo anch'io disteso su quella poltrona di pelle scura, in attesa che qualcosa succedesse, qualsiasi cosa a questo punto. Mentre Freud, pensavo scivolando sempre più dentro pensieri che si mutavano in immagine, era un ottico, ma di primissima qualità. Era infatti in grado di modulare le tue lenti fino al punto di farti vedere la realtà. Ma non è meglio cambiarla un poco, alle volte, la realtà: cambiarla per stare bene?
Credo che la domanda decisiva sia proprio questa qui: pillola rossa, o pillola blu di Matrix?
Per un'isterica, al tempo di quelle belle nevrosi di una volta, la realtà era come diminuita dal velo opaco del perbenismo borghese. Quindi ecco arrivare Freud, pulitina agli occhiali, ecco, se li rimetta pure, con il desiderio che veniva reintegrato nel grande affresco del mondo. E un mondo con anche il sesso è più divertente, no?
Ma al tempo di YouPorn, dello sdoganamento pubblico di ogni vizio e vezzo, anche e soprattutto sessuale, mi chiedo quale realtà privata sia ancora in grado di salvarti… Di più, quale verità?
La verità, sì, certo, l'ho letto su Focus o qualche altro settimanale trovato nella sala d'attesa del dentista, la verità secondo Lacan è proprio ciò che guarisce. Ma guarisce in un mondo "vero", non in un mondo di plastica e malato, in cui ciò che sta fuori non risponde più all'ordine austero di una legge castrante, ma all'illimitato godimento di piaceri sempre e comunque legittimi, la cui accessibilità è frenata solo dalle risorse con cui pagarli. Il nostro mondo, in pratica.
Se guardo poi alla verità del rapporto con una persona che ti chiede cento euro a seduta - "Facciamo due volte a settimana, per iniziare", mi direbbe un omino con la barba bianca e gli occhialini tondi -, vedo un essere umano, sempre più ricco, che sta sfruttando un essere umano sempre più povero, che si fa in quattro per pagare le parcelle. Oppure due ricchi che fanno eleganti e profondi discorsi da ricchi (in fondo se lo possono permettere), mentre il mondo continua a girare indifferente, come in quella vecchia canzone di De Gregori: con i ricchi che restano ricchi, i poveri poveri e Alice che tutto questo non lo sa…
Ma se io fossi il povero, un po' mi incazzerei. È dunque prendere a calci in culo l'analista, il fine ultimo della psicanalisi?
Non guarisce, dunque, la terapia analitica, una vita incisa indelebilmente da un chiodo assolutamente reale (il lavoro manca, cadono i capelli, gli autotreni ti calpestano al grido di "Allah akbar", mentre sfioriscono gli amori accompagnati dal terzo vodka sour nella gola), ma la cui vernice collettiva rende smagliante e piacevole allo sguardo. Il conflitto in questo caso viene semplicemente spostato di livello: si mostra la rimozione nevrotica, l'osceno privato, ma si rimuove l'oscenità politica dal belvedere sulle cose.
È come, ecco, quando ad aprile porti il cappotto in solaio. Il cappotto in casa non c'è più. Ma da un'altra parte, più sopra, a svariati piani di distanza, è ancora lì con tutti i suoi acari.
Il dubbio diventa così se guardare il drago direttamente negli occhi oppure dare altre passate di colore, una per ogni nuovo dubbio che ti viene, come a me in questo limbo in cui le parole suadenti del terapeuta stanno conducendo, avvolto dalla nuvoletta di fumo delle sue pseudo Gitanes. Sì, una bella verniciatina alla carrozzeria della mia vita, di una tinta moderna che si chiama consolazione, che si chiama rappresentazione.
Ma perché, allora, a questo punto, non la rappresentazione estrema: il mito, il carnevale di internet, la religione o una prostituta molto compiacente, che dica sì sì sì? O per essere ancora più radicali: la follia.
Domande a cui il bravo psicoterapeuta non ha potuto rispondere, già che stavo dormendo alla grossa. Dall'ipnosi ero infatti scivolato nel sogno, dopo lunghe notti passate a guardare e riguardare il soffitto, che negli anni si è scrostato un po'.
"Non sai quante persone vengono in terapia…" mi ha detto lo psicoterapeuta al termine di una pausa di riflessione. Aggiungendo, nuova pausa, una lunga avida boccata alla sigaretta elettronica, quegli accrocchi voluminosi che fanno rimpiangere Jean Gabin e il fumo denso delle sue Gitanes: "Quante persone arrivano dopo anni di psicanalisi. Erickson, poteva risolvere un problema in due o tre sedute."
Erickson era un formidabile artigiano della mente, già. In fondo era il motivo per cui mi trovavo anch'io disteso su quella poltrona di pelle scura, in attesa che qualcosa succedesse, qualsiasi cosa a questo punto. Mentre Freud, pensavo scivolando sempre più dentro pensieri che si mutavano in immagine, era un ottico, ma di primissima qualità. Era infatti in grado di modulare le tue lenti fino al punto di farti vedere la realtà. Ma non è meglio cambiarla un poco, alle volte, la realtà: cambiarla per stare bene?
Credo che la domanda decisiva sia proprio questa qui: pillola rossa, o pillola blu di Matrix?
Per un'isterica, al tempo di quelle belle nevrosi di una volta, la realtà era come diminuita dal velo opaco del perbenismo borghese. Quindi ecco arrivare Freud, pulitina agli occhiali, ecco, se li rimetta pure, con il desiderio che veniva reintegrato nel grande affresco del mondo. E un mondo con anche il sesso è più divertente, no?
Ma al tempo di YouPorn, dello sdoganamento pubblico di ogni vizio e vezzo, anche e soprattutto sessuale, mi chiedo quale realtà privata sia ancora in grado di salvarti… Di più, quale verità?
La verità, sì, certo, l'ho letto su Focus o qualche altro settimanale trovato nella sala d'attesa del dentista, la verità secondo Lacan è proprio ciò che guarisce. Ma guarisce in un mondo "vero", non in un mondo di plastica e malato, in cui ciò che sta fuori non risponde più all'ordine austero di una legge castrante, ma all'illimitato godimento di piaceri sempre e comunque legittimi, la cui accessibilità è frenata solo dalle risorse con cui pagarli. Il nostro mondo, in pratica.
Se guardo poi alla verità del rapporto con una persona che ti chiede cento euro a seduta - "Facciamo due volte a settimana, per iniziare", mi direbbe un omino con la barba bianca e gli occhialini tondi -, vedo un essere umano, sempre più ricco, che sta sfruttando un essere umano sempre più povero, che si fa in quattro per pagare le parcelle. Oppure due ricchi che fanno eleganti e profondi discorsi da ricchi (in fondo se lo possono permettere), mentre il mondo continua a girare indifferente, come in quella vecchia canzone di De Gregori: con i ricchi che restano ricchi, i poveri poveri e Alice che tutto questo non lo sa…
Ma se io fossi il povero, un po' mi incazzerei. È dunque prendere a calci in culo l'analista, il fine ultimo della psicanalisi?
Non guarisce, dunque, la terapia analitica, una vita incisa indelebilmente da un chiodo assolutamente reale (il lavoro manca, cadono i capelli, gli autotreni ti calpestano al grido di "Allah akbar", mentre sfioriscono gli amori accompagnati dal terzo vodka sour nella gola), ma la cui vernice collettiva rende smagliante e piacevole allo sguardo. Il conflitto in questo caso viene semplicemente spostato di livello: si mostra la rimozione nevrotica, l'osceno privato, ma si rimuove l'oscenità politica dal belvedere sulle cose.
È come, ecco, quando ad aprile porti il cappotto in solaio. Il cappotto in casa non c'è più. Ma da un'altra parte, più sopra, a svariati piani di distanza, è ancora lì con tutti i suoi acari.
Il dubbio diventa così se guardare il drago direttamente negli occhi oppure dare altre passate di colore, una per ogni nuovo dubbio che ti viene, come a me in questo limbo in cui le parole suadenti del terapeuta stanno conducendo, avvolto dalla nuvoletta di fumo delle sue pseudo Gitanes. Sì, una bella verniciatina alla carrozzeria della mia vita, di una tinta moderna che si chiama consolazione, che si chiama rappresentazione.
Ma perché, allora, a questo punto, non la rappresentazione estrema: il mito, il carnevale di internet, la religione o una prostituta molto compiacente, che dica sì sì sì? O per essere ancora più radicali: la follia.
Domande a cui il bravo psicoterapeuta non ha potuto rispondere, già che stavo dormendo alla grossa. Dall'ipnosi ero infatti scivolato nel sogno, dopo lunghe notti passate a guardare e riguardare il soffitto, che negli anni si è scrostato un po'.
Non so perché l'abbia fatto, ma non c'era ironia in questa scelta, tantomeno sarcasmo. Solo curiosità. E magari anche la voglia - è da un po' che ci giro attorno: agli anni settanta - di rendere adulto un tempo che mi ha visto bambino. Passare insomma dalle figurine di Burgnich e le biglie di plastica con il faccione di Gimondi, a una visione più adulta del periodo.
La cosa che mi ha più impressionato nei discorsi che ascoltavo sempre più compreso, non era però l'impeto rabbioso della loro esposizione, in quel misto di bile e pensiero con cui venivano frullati. A quello abbiamo ormai fatto il callo, basta farsi un giro a Pontida a Settembre, o ascoltare certi comici. Non era nemmeno il simbolo araldico del femminismo, ottenuto dall'unione di pollice e indice delle due mani aperte, a stilizzare una vagina, che per altro non ho visto fare da nessuna. No, nulla di tutto questo. Piuttosto era il modo in cui veniva attribuita la responsabilità, che diventava subito colpa.
Non è importante quale colpa, di che fatti concreti si parlasse, che ora ho già dimenticato, tanto il sistema era sempre quello lì. Per induzione. Si passava cioè dal caso particolare a un ordine generale che da esso viene ricavato, non si sa bene in base a quale consequenzialità (la deduzione segue infatti il procedimento inverso).
Se un uomo stuprava una donna, la colpa veniva quindi estesa a tutti gli uomini, o meglio a tutti i maschi, portatori insani del sesso maschile. Era "logico", era "normale", già che un maschio, singolo, appartiene all'insieme più generale dei maschi. E una volta circomprese dentro la circonferenza del maschile, le differenze sembrano annullarsi.
Potremmo naturalmente obiettare che non tutti i maschi, per quanto fallo-muniti, appartengono all'insieme degli stupratori… Ma non è questo il punto, o almeno non è ciò a cui ho iniziato a pensare in quel momento. Per qualche cortocircuito mentale, mi è invece venuto in mente Stalin. Che era indubbiamente un maschio, con quei baffoni! Ma era anche uno stupratore, in un senso lato almeno, bisogna pur ammettere che lo fosse: stupratore di popoli. Inoltre era un comunista, e questo è pure indubbio.
Ecco, l'idea che mi è venuta guardando dei vecchi filmati in bianco e nero su YouTube, è che non abbiamo mai smesso di pensare come le femministe degli anni settanta, tutti quanti intendo, anche noi: per induzione.
Solo che l'associazione induttiva non viene più fatta tra maschio e stupratore (per fortuna), ma tra comunismo e crimine. Il fatto che ci siano stati svariati comunisti criminali - tra cui certamente Stalin - ha insomma fatto sì che tutti i comunisti diventassero criminali, e il comunismo sinonimo di crimine. E ci siamo talmente abituati a leggere nel particolare l'universale, che è diventato perfino un insulto:
"Cornuto!"
"Parli tu, che sei comunista… "
Siccome io sono un uomo, un maschio ma temo pure un po' un comunista, pensavo, dunque, e lo pensavo guardando i pantaloni a zampa e le camicie a fiori degli anni settanta, che sarebbe bello se in questo paese si studiasse un po' di logica. Non tanta, solamente un po'.
(Ps - Anticipo obiezione. Lo so che Stalin non era uno, uno tra i tanti, ma il capo di quel sistema lì, che per altro ha avuto altri capi, non tutti uguali a Stalin. E non voglio nemmeno negare che tra capo e sistema esistano delle relazioni significative, altrimenti dovremmo scindere anche Hitler dal nazismo - magari assolvendo quest'ultimo -, cosa che non è evidentemente possibile. Primo perché il nazismo l'ha inventato lui, mentre il comunismo non l'ha inventato Stalin ma Marx, con lo zampino di Engels e di Lenin, mettiamo pure una spolverata di Gramsci a torta fatta. Ma soprattutto Hitler diceva, nel Mein Kampf, ribadendolo nei discorsi, che avrebbe fatto le cose che poi ha fatto per davvero, mentre in nessuna pagina del Capitale sta scritto che Trotsky andava preso a picconate, o Salamov a spalar neve. Nel caso di Stalin possiamo insomma parlare di pervertimento dell'idea originaria, nel caso di Hitler, invece, di compimento delle premesse. Resta ovviamente aperta la discussione sulla bontà politica, economica e filosofica dell'idea comunista, che non era ovviamente il tema di questo breve scritto.)
Lo so, lo sento e lo ritrovo anche sui libri di psicologia, che il suicidio è
una forma estrema e disperata di comunicazione. Ne ho perfino e di frequente
carezzato la fantasia: un piccolo salto dal davanzale, e poi la mia bara scura
che scorre tra file di persone con il cappello in mano e la testa bassa;
qualcuno l’ha più bassa degli altri, mentre controlla le notifiche sullo smartphone.
Comprendo dunque anche il sigillo verbale a consegna dell’ultimo saluto, che suona più spesso come un rimprovero. Il più celebre, e bello, è certamente quello di Pavese: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. E per favore, niente pettegolezzi.”
Come a dire non perdono un cazzo di nessuno. Quindi vi faccio vedere, leggi un po' qui, se questo non è stile, che il più bravo di tutti sono sempre io. E adesso rimpiangetemi pure, stronzi.
Ma perché Facebook?
Perché, mi chiedo, scriverlo proprio su Facebook e non sul muro di casa della donna che non ti ha voluto, compreso, amato: scriverlo con un pennello spalmato di sangue e merda, per dire?
Che sia davvero diventato, Facebook, quei quattro pollicioni alzati con cui ci riempiamo le tasche come caramelle, il muro del pianto a cui scagliare il nostro ultimo disperato urlo, sperando che ne ritorni l’eco misericordioso di un sussurro, o una carezza di conforto?
Non perché questo non sia possibile, intendo, anche la vita ti restituisce perlopiù calci negli stinchi, la vita è un terzino tedesco appena lasciato dalla moglie per l’idraulico, che è ovviamente di Napoli e in tedesco sa dire solamente: “Gib mir einen kuss.”
E’ la misura dell’illusione, e di conseguenza della delusione, come se ti avesse deluso il mappamondo invece del mondo, è questo a riempirmi il cuore di tristezza quando leggo di qualcuno che se ne va salutando su Facebook.
Una vita piccola, un’illusione piccola piccola. E un commiato, un urletto, un saluto altrettanto piccoli, ma così piccoli che già non si vedono più. Su Facebook.
Comprendo dunque anche il sigillo verbale a consegna dell’ultimo saluto, che suona più spesso come un rimprovero. Il più celebre, e bello, è certamente quello di Pavese: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. E per favore, niente pettegolezzi.”
Come a dire non perdono un cazzo di nessuno. Quindi vi faccio vedere, leggi un po' qui, se questo non è stile, che il più bravo di tutti sono sempre io. E adesso rimpiangetemi pure, stronzi.
Ma perché Facebook?
Perché, mi chiedo, scriverlo proprio su Facebook e non sul muro di casa della donna che non ti ha voluto, compreso, amato: scriverlo con un pennello spalmato di sangue e merda, per dire?
Che sia davvero diventato, Facebook, quei quattro pollicioni alzati con cui ci riempiamo le tasche come caramelle, il muro del pianto a cui scagliare il nostro ultimo disperato urlo, sperando che ne ritorni l’eco misericordioso di un sussurro, o una carezza di conforto?
Non perché questo non sia possibile, intendo, anche la vita ti restituisce perlopiù calci negli stinchi, la vita è un terzino tedesco appena lasciato dalla moglie per l’idraulico, che è ovviamente di Napoli e in tedesco sa dire solamente: “Gib mir einen kuss.”
E’ la misura dell’illusione, e di conseguenza della delusione, come se ti avesse deluso il mappamondo invece del mondo, è questo a riempirmi il cuore di tristezza quando leggo di qualcuno che se ne va salutando su Facebook.
Una vita piccola, un’illusione piccola piccola. E un commiato, un urletto, un saluto altrettanto piccoli, ma così piccoli che già non si vedono più. Su Facebook.
17) Mi capita, sempre più spesso su Facebook, di trovare dei
like ai miei testi che provengono da persone estranee alle mie
"amicizie", e contemporaneamente vedere dileguare le conoscenze reali
o precedenti. Un dato che per qualcuno potrebbe apparire preoccupante: sentirsi
un'isola nella realtà concreta della propria vita, un'isoletta sperduta dentro
un mare, e però placidissimo, di indifferenza.
Questa condizione a me però invece stimola, e conferma che il timone del mio naso è puntato nella direzione giusta. Più che un isola, mi fa infatti sentire come un vecchio pescatore caraibico: l'oceano Atlantico davanti, oceano dietro, oceano sotto e tutt'intorno. Con l'unico sostegno del suo catamarano che sciaborda sotto al culo.
Solo, dunque. E perduto.
Ma se non trova più la rotta per rientrare al molo di partenza, dall'arcipelago circostante si manifestano minimi segnali di vita: un rametto consumato dalla salsedine, un fiore zuppo, il pallone rosso che un bambino ha calciato dentro l'acqua, per dedicarsi ora ad altri giochi.
Come in quel racconto di Hemingway, il vecchio sa, a questo punto, che per pescare il Pesce d'oro bisogna andare avanti. Scavallare quindi molte onde, tutte le onde, avanti, fino alla fine di un viaggio che per definizione non finisce mai.
E sapendolo, sa anche che noi tutti non siamo i luoghi e le persone da cui proveniamo, ma quelli verso cui andiamo.
Questa condizione a me però invece stimola, e conferma che il timone del mio naso è puntato nella direzione giusta. Più che un isola, mi fa infatti sentire come un vecchio pescatore caraibico: l'oceano Atlantico davanti, oceano dietro, oceano sotto e tutt'intorno. Con l'unico sostegno del suo catamarano che sciaborda sotto al culo.
Solo, dunque. E perduto.
Ma se non trova più la rotta per rientrare al molo di partenza, dall'arcipelago circostante si manifestano minimi segnali di vita: un rametto consumato dalla salsedine, un fiore zuppo, il pallone rosso che un bambino ha calciato dentro l'acqua, per dedicarsi ora ad altri giochi.
Come in quel racconto di Hemingway, il vecchio sa, a questo punto, che per pescare il Pesce d'oro bisogna andare avanti. Scavallare quindi molte onde, tutte le onde, avanti, fino alla fine di un viaggio che per definizione non finisce mai.
E sapendolo, sa anche che noi tutti non siamo i luoghi e le persone da cui proveniamo, ma quelli verso cui andiamo.
18) L'unico limite di Facebook sta nella presenza di scurrilità.
Se io scrivo, proviamo, porcodio, vengo immediatamente censurato (ma tutto
attacato magari la faccio franca.) Viceversa, l'utilizzo di scurrilità
grammaticali o sintattiche non provoca alcun intervento. Posso mettere decine
di puntini di sospensione, guarda………. o segni interrogativi ed esclamativi a
piacimento????!! faccine al posto di aggettivi :-) :-D ;-) :-( e
ovviamente sostituire la c dura con la kappa, vedi, faccio kome kakkio mi pare, e nessuno può dire un kavolo
di niente, anke se skrivo akua kosì.
Se ci riflettiamo, queste implicazioni operative spostano l'orizzonte della scrittura da un paradigma estetico a uno etico. Prima avevamo infatti un giudice sovrano, interpretato dell'editor o dal vecchio maestro elementare, a esercitare la propria autorità sulla forma finale del testo, che doveva essere "bello" anche nella sua calligrafia. Ora invece è solo la farina, non il pane, a essere setacciata per ricercare impurità. E per quanto sia un ethos certamente degradato, che si riduce a galateo pubblico, finzione sociale come il cappellino da togliere dinnanzi al preside, il dato certamente rimane.
Il richiamo è dunque evidente agli stadi della vita ipotizzati da kierkegaard, con "l'uomo etico" che succede cronologicamente "all'uomo estetico", prefigurando quello religioso. Per il grande filosofo danese tale passaggio era anche evolutivo, e manca quindi solo l'ultima fase perché il bambino sia finalmente un ometto.
Dal successo che ritrovo in chi parla a getto continuo di spiritualità - e sono pollicioni che si levano festosi, like che piovono ogni volta che fai il nome di Osho o di krishnamurti - direi però che ci siamo quasi… Tra poco Facebook sarà un'immensa parrocchia, in cui invisibili pretoni in sottana si preoccuperanno solo che i chierichetti non dicano parolacce, o postino le foto delle donne nude con le tette grosse a cui arrendere lo sguardo, consegnando le armi della buona costumanza.
Per parte mia, mi accorgo anche da questi piccoli segni (che ho un po' forzato ma nemmeno tanto), di essere davvero anacronistico e fuori target. E così rimpiango il tempo estetico in cui Zeus faceva capolino da una nuvoletta bianca, e ti scagliava una saetta in culo se solo ti provavi a sbagliare una virgola, ma poi ripagava con le subordinate di Proust.
Se ci riflettiamo, queste implicazioni operative spostano l'orizzonte della scrittura da un paradigma estetico a uno etico. Prima avevamo infatti un giudice sovrano, interpretato dell'editor o dal vecchio maestro elementare, a esercitare la propria autorità sulla forma finale del testo, che doveva essere "bello" anche nella sua calligrafia. Ora invece è solo la farina, non il pane, a essere setacciata per ricercare impurità. E per quanto sia un ethos certamente degradato, che si riduce a galateo pubblico, finzione sociale come il cappellino da togliere dinnanzi al preside, il dato certamente rimane.
Il richiamo è dunque evidente agli stadi della vita ipotizzati da kierkegaard, con "l'uomo etico" che succede cronologicamente "all'uomo estetico", prefigurando quello religioso. Per il grande filosofo danese tale passaggio era anche evolutivo, e manca quindi solo l'ultima fase perché il bambino sia finalmente un ometto.
Dal successo che ritrovo in chi parla a getto continuo di spiritualità - e sono pollicioni che si levano festosi, like che piovono ogni volta che fai il nome di Osho o di krishnamurti - direi però che ci siamo quasi… Tra poco Facebook sarà un'immensa parrocchia, in cui invisibili pretoni in sottana si preoccuperanno solo che i chierichetti non dicano parolacce, o postino le foto delle donne nude con le tette grosse a cui arrendere lo sguardo, consegnando le armi della buona costumanza.
Per parte mia, mi accorgo anche da questi piccoli segni (che ho un po' forzato ma nemmeno tanto), di essere davvero anacronistico e fuori target. E così rimpiango il tempo estetico in cui Zeus faceva capolino da una nuvoletta bianca, e ti scagliava una saetta in culo se solo ti provavi a sbagliare una virgola, ma poi ripagava con le subordinate di Proust.
19) Un pensierino, ancora, sull’assenza di giudizio, la cui
attitudine viene continuamente raccomandata, con implicito sottotesto
giudicante: "Se giudichi non sei una persona spiritualmente evoluta,
mentre io (che non giudico, tiè, beccati questa!) al contrario lo sono."
Torna a questo punto utile ricordare l’etimologia del termine giudizio, che proviene dal latino judex, a sua volta dall'unione di ius + decs (dicere), e cioè colui che dice, che si pronuncia sul diritto: io posso, tu puoi, egli non può o forse sì. Ma sono sempre io a deciderlo.
In un’accezione generale, giudicare è dunque in qualche modo limitare la libertà degli altri per affermare la propria, stabilendo (arbitrariamente) dei limiti al loro “dicere”, ma di conseguenza anche al loro diritto a fare – dire è ancora e sempre un atto: un “atto linguistico”.
Eppure, se ci pensiamo meglio e più profondamente, nel giudizio è contenuta anche la volontà di smarcarsi dall’invadenza dei dettami esterni, collocando la nostra autonomia (il nomos dell’autos, ossia la legge dell’io) in uno sguardo impregiudicato sulle cose: dico la mia legge, la fondo.
Contrariamente a quanto proclamato con leggerezza, giudicare è dunque una pratica raccomandabile, già che proprio a partire dal giudizio che nomina le cose, le chiama a sé assegnandogli un ordine funzionale a questa vita – il giudizio è sempre un giudizio contestualizzato e mai astratto, ha bisogno di un tempo e un luogo definiti – anche la coscienza si dischiude, assumendo il limite umano che il giudizio riconosce, prima di assegnarlo sotto forma di differenza tra le cose (differenza non necessariamente di valore o di potere, sia chiaro).
Un atto, il giudicare, che come abbiamo visto è sempre anche un discriminare, dividere per imperare sul caso e la volontà di chi ci vorrebbe asservire, giudicandoci a sua volta. Se si vuole, per la continua contesa con il limite a cui ci chiama, con il possibile che si vorrebbe allargare affermando un diritto, c'è al suo fondo qualcosa di ribaldo e un po' guascone. Ma è la libertà a richiederlo: essere dei “fuorilegge”, o meglio delle persone che hanno in se stesse la propria legge.
Eppure, questa azione bellissima e ariosa – giudicare, renderci giudici e non più imputati da un tribunale esterno – si rivolge il più delle volte nel suo contrario, facendo scattare le manette sui polsi di chi si credeva invece poliziotto. Ed è quando ricalchiamo degli schemi, cucendo abiti verbali su sagome preformate altrove, e non sulla misura del nostro corpo che si muove libero e flessuoso nello spazio.
Ecco allora uscire giudizi prefabbricati in serie, giudizi del tipo: "i negri hanno la musica nel sangue"; "gli ebrei non ce la contano giusta"; “le svedesi sono disponibili”; "gli zingari rubano i bambini mentre i comunisti se li mangiano..."
Così ogni volta che formuliamo un giudizio già sentito da qualche parte - tra cui "non devi mai giudicare!" - si dovrebbe almeno insinuare un dubbio, che si chiama pregiudizio. Un giudizio che avviene in precedenza, precedente al nostro giudizio. Che dunque non è più un giudizio ma un essere giudicati, con l’illusione però di essere liberi come nella celebre scritta ad Auschwitz: “Arbeit macht frei”.
Prima di giudicare gli altri, il mondo, le cose, dovremmo quindi ripulire lo sguardo con il collirio del giudizio su noi stessi, per liberarlo da tutti quei minuscoli judex che abbiamo contratto come virus. La capacità di intendere, ce l'hanno ripetuto migliaia di volte, fino a farcelo dimenticare, è sempre associata a quella di volere. Diversamente, più che giudici finiamo col diventare passacarte di un'infinita burocrazia in cui nessuno è responsabile, ma ciascuno è complice.
Quando la psicanalisi parla di “super-io”, dice questa cosa qui. Ma anche Marx usando il termine “sovrastruttura”, Lipmann con il suo “secondo ambiente”, Gurdjieff, sempre criptico e vezzoso, elabora invece il concetto di “apparato formatorio”. Cambiano i nomi, ma sono sempre pre-giudizi.
Piuttosto che cadere nel pregiudizio, indossando gli occhiali scurissimi che il diavolo, il Grande Separatore, ci inforca dicendo guarda, ora sei libero di guardare, meglio allora e davvero non giudicare. Per non essere giudicati.
Torna a questo punto utile ricordare l’etimologia del termine giudizio, che proviene dal latino judex, a sua volta dall'unione di ius + decs (dicere), e cioè colui che dice, che si pronuncia sul diritto: io posso, tu puoi, egli non può o forse sì. Ma sono sempre io a deciderlo.
In un’accezione generale, giudicare è dunque in qualche modo limitare la libertà degli altri per affermare la propria, stabilendo (arbitrariamente) dei limiti al loro “dicere”, ma di conseguenza anche al loro diritto a fare – dire è ancora e sempre un atto: un “atto linguistico”.
Eppure, se ci pensiamo meglio e più profondamente, nel giudizio è contenuta anche la volontà di smarcarsi dall’invadenza dei dettami esterni, collocando la nostra autonomia (il nomos dell’autos, ossia la legge dell’io) in uno sguardo impregiudicato sulle cose: dico la mia legge, la fondo.
Contrariamente a quanto proclamato con leggerezza, giudicare è dunque una pratica raccomandabile, già che proprio a partire dal giudizio che nomina le cose, le chiama a sé assegnandogli un ordine funzionale a questa vita – il giudizio è sempre un giudizio contestualizzato e mai astratto, ha bisogno di un tempo e un luogo definiti – anche la coscienza si dischiude, assumendo il limite umano che il giudizio riconosce, prima di assegnarlo sotto forma di differenza tra le cose (differenza non necessariamente di valore o di potere, sia chiaro).
Un atto, il giudicare, che come abbiamo visto è sempre anche un discriminare, dividere per imperare sul caso e la volontà di chi ci vorrebbe asservire, giudicandoci a sua volta. Se si vuole, per la continua contesa con il limite a cui ci chiama, con il possibile che si vorrebbe allargare affermando un diritto, c'è al suo fondo qualcosa di ribaldo e un po' guascone. Ma è la libertà a richiederlo: essere dei “fuorilegge”, o meglio delle persone che hanno in se stesse la propria legge.
Eppure, questa azione bellissima e ariosa – giudicare, renderci giudici e non più imputati da un tribunale esterno – si rivolge il più delle volte nel suo contrario, facendo scattare le manette sui polsi di chi si credeva invece poliziotto. Ed è quando ricalchiamo degli schemi, cucendo abiti verbali su sagome preformate altrove, e non sulla misura del nostro corpo che si muove libero e flessuoso nello spazio.
Ecco allora uscire giudizi prefabbricati in serie, giudizi del tipo: "i negri hanno la musica nel sangue"; "gli ebrei non ce la contano giusta"; “le svedesi sono disponibili”; "gli zingari rubano i bambini mentre i comunisti se li mangiano..."
Così ogni volta che formuliamo un giudizio già sentito da qualche parte - tra cui "non devi mai giudicare!" - si dovrebbe almeno insinuare un dubbio, che si chiama pregiudizio. Un giudizio che avviene in precedenza, precedente al nostro giudizio. Che dunque non è più un giudizio ma un essere giudicati, con l’illusione però di essere liberi come nella celebre scritta ad Auschwitz: “Arbeit macht frei”.
Prima di giudicare gli altri, il mondo, le cose, dovremmo quindi ripulire lo sguardo con il collirio del giudizio su noi stessi, per liberarlo da tutti quei minuscoli judex che abbiamo contratto come virus. La capacità di intendere, ce l'hanno ripetuto migliaia di volte, fino a farcelo dimenticare, è sempre associata a quella di volere. Diversamente, più che giudici finiamo col diventare passacarte di un'infinita burocrazia in cui nessuno è responsabile, ma ciascuno è complice.
Quando la psicanalisi parla di “super-io”, dice questa cosa qui. Ma anche Marx usando il termine “sovrastruttura”, Lipmann con il suo “secondo ambiente”, Gurdjieff, sempre criptico e vezzoso, elabora invece il concetto di “apparato formatorio”. Cambiano i nomi, ma sono sempre pre-giudizi.
Piuttosto che cadere nel pregiudizio, indossando gli occhiali scurissimi che il diavolo, il Grande Separatore, ci inforca dicendo guarda, ora sei libero di guardare, meglio allora e davvero non giudicare. Per non essere giudicati.
20) Quanto mi manca, Roberto "Freak" Antoni. Ricordo
un suo fulminante aforisma: "quando tocchi il fondo, quello, ragazzo, è il
momento di iniziare a scavare". Nel 1987, con il suo gruppo musicale, gli
Skiantos, pubblicò un album dal titolo: "Non c'è gusto in Italia a essere
intelligenti." La conferma l'ho avuta a un concerto degli Skiantos alla
bocciofila di Albosaggia: eravamo in sedici, ma quattro appartenevano
all'organizzazione. Per capire l'attualità del pensiero di "Freak"
Antoni basta scrivere due cose su Facebook: una intelligente, o comunque
pensata, elaborata con sforzo e dedizione alla conoscenza del suo oggetto, e
una un po' scemina come questa. Io lo faccio spesso, almeno. E quella scemina
vince sempre. Ma proprio sempre sempre sempre!
21) A New York è stato trovato un giovane daino. Meglio, si è
manifestato: una vera e propria epifania proprio nel cuore di Manhattan; nel
Jackie Robinson Park di Harlem, per la precisione.
Da quel che leggo sul web, per la legge americana l’animale dovrebbe essere soppresso, anche se il governatore dello stato Andrew M. Cuomo, sulla spinta di un movimento popolare a sostegno della vita dell'incauta bestiola, ha sospeso "l’esecuzione" (immagino che il termine sia improprio, ma la risonanza emotiva che l’evento ha suscitato nella Grande Mela lo richiama spontaneamente.)
Sulla vicenda in sé, di cui ho con queste poche righe esaurito la conoscenza, non ho molto da aggiungere. Ma la trovo utile per rilanciare un problema decisivo per il nostro tempo, seppure in forma di interrogazione.
Se infatti una quantità davvero rilevante di newyorkesi – tra cui molti divoratori di hamburger, intendiamoci, e indossatori di pellami vari – reagiscono con dosi così alte di empatia per le sorti di un daino, non è che quella risorsa emozionale potrebbe essere incanalata dentro un discorso più generale e strutturato?
Intendo dire: la morale laica, in assenza di fondamenta etiche a cui ancorarla stabilmente – ad esempio un dio, o una legge universale accessibile e in bella calligrafia – si affida in ultima istanza a un sentire condiviso, un sentire l’altro e i nostri mutevoli rapporti. Giusto è insomma chi "sentiamo" essere nel giusto, nei confronti del quale avvertiamo una responsabilità personale, almeno quando tale giustizia sia tradita da uno stato avverso delle cose.
Ma nell’altro che richiama la nostra responsabilità (la percezione di una risposta che gli sia dovuta, questo e non altro vuol dire responsabilità), solo a partire dal Settecento, con Jeremy Bentham e Voltaire, ma con pienezza solo nel Novecento ha iniziato a essere incluso anche il mondo animale. All'interno di questo processo che esorbita la morale dal confine umano, la figura più rilevante del secolo scorso è certamente quella di Peter Singer, con le sue teorie filosofiche sull’antispecismo. Io trovo però che sia stato Disney - sì proprio quel Disney, padre di Bambi, Dumbo e Paperino, oltre che di tutti gli altri animali antropomorfizzati -, a imprimere la decisiva torsione al dibattito, volgendolo dalla sfera intellettuale al sentire comune, e viceversa.
Manca ora forse una forma giuridica più stabile, qualcosa come una “Commissione Internazionale per i Diritti degli Animali”, riconosciuta dagli stati nazionali. Un’istituzione trasversale che mantenendo attivi i suoi sensori sulla sensibilità diffusa, e non solo sulla riflessione filosofica, traduca le metamorfosi percettive in dettato legale, con conseguente tutela: della vita, la salute e la dignità degli animali.
Ovviamente, è un percorso non privo di contraddizioni, di paradossi anche imbarazzanti, già che un’emozione non possiede la coerenza logica dell'argomentare kantiano. E però dobbiamo ammettere che questa è l’unica direzione: procedere a timone libero, in una navigazione senza strumenti tecnologici ma che segua solo i piccoli segnali del mare, del tempo e del vento, che per definizione muta sempre di direzione.
Anche perché sarebbe inverosimile - e dal mio punto di vista nemmeno augurabile - imporre il veganismo come unica pratica sociale, imporlo da un giorno all’altro a tutti. Ma ugualmente sbagliato è non mettere in conto questi piccoli segnali del sentire comune, tra cui le palpitazioni dei newyorkesi per le sorti di una creatura non umana, quando milioni di altri animali finiscono in padella, e nei talk show di cucina si discute dei sughetti con cui guarnirli.
Per parte mia, da un paio d’anni ho smesso di mangiare i cuccioli di tutte le specie viventi. Sì, poi te li maggni da grandi mi direte voi, e non avete tutti i torti. Aggiungendo: e questa è ipocrisia.
Mah, può darsi. Però, a volte, ipocrisia è il nome che diamo al cambiamento nel suo farsi, quando non si vede ancora la nuova terra ma quella di partenza è ormai troppo lontana per invertire la rotta.
E dunque vai, piccolo daino: io e infiniti altri io come me stiamo dalla tua parte, e prima o poi diventeremo un noi che fa parola pubblica e giustizia!
Da quel che leggo sul web, per la legge americana l’animale dovrebbe essere soppresso, anche se il governatore dello stato Andrew M. Cuomo, sulla spinta di un movimento popolare a sostegno della vita dell'incauta bestiola, ha sospeso "l’esecuzione" (immagino che il termine sia improprio, ma la risonanza emotiva che l’evento ha suscitato nella Grande Mela lo richiama spontaneamente.)
Sulla vicenda in sé, di cui ho con queste poche righe esaurito la conoscenza, non ho molto da aggiungere. Ma la trovo utile per rilanciare un problema decisivo per il nostro tempo, seppure in forma di interrogazione.
Se infatti una quantità davvero rilevante di newyorkesi – tra cui molti divoratori di hamburger, intendiamoci, e indossatori di pellami vari – reagiscono con dosi così alte di empatia per le sorti di un daino, non è che quella risorsa emozionale potrebbe essere incanalata dentro un discorso più generale e strutturato?
Intendo dire: la morale laica, in assenza di fondamenta etiche a cui ancorarla stabilmente – ad esempio un dio, o una legge universale accessibile e in bella calligrafia – si affida in ultima istanza a un sentire condiviso, un sentire l’altro e i nostri mutevoli rapporti. Giusto è insomma chi "sentiamo" essere nel giusto, nei confronti del quale avvertiamo una responsabilità personale, almeno quando tale giustizia sia tradita da uno stato avverso delle cose.
Ma nell’altro che richiama la nostra responsabilità (la percezione di una risposta che gli sia dovuta, questo e non altro vuol dire responsabilità), solo a partire dal Settecento, con Jeremy Bentham e Voltaire, ma con pienezza solo nel Novecento ha iniziato a essere incluso anche il mondo animale. All'interno di questo processo che esorbita la morale dal confine umano, la figura più rilevante del secolo scorso è certamente quella di Peter Singer, con le sue teorie filosofiche sull’antispecismo. Io trovo però che sia stato Disney - sì proprio quel Disney, padre di Bambi, Dumbo e Paperino, oltre che di tutti gli altri animali antropomorfizzati -, a imprimere la decisiva torsione al dibattito, volgendolo dalla sfera intellettuale al sentire comune, e viceversa.
Manca ora forse una forma giuridica più stabile, qualcosa come una “Commissione Internazionale per i Diritti degli Animali”, riconosciuta dagli stati nazionali. Un’istituzione trasversale che mantenendo attivi i suoi sensori sulla sensibilità diffusa, e non solo sulla riflessione filosofica, traduca le metamorfosi percettive in dettato legale, con conseguente tutela: della vita, la salute e la dignità degli animali.
Ovviamente, è un percorso non privo di contraddizioni, di paradossi anche imbarazzanti, già che un’emozione non possiede la coerenza logica dell'argomentare kantiano. E però dobbiamo ammettere che questa è l’unica direzione: procedere a timone libero, in una navigazione senza strumenti tecnologici ma che segua solo i piccoli segnali del mare, del tempo e del vento, che per definizione muta sempre di direzione.
Anche perché sarebbe inverosimile - e dal mio punto di vista nemmeno augurabile - imporre il veganismo come unica pratica sociale, imporlo da un giorno all’altro a tutti. Ma ugualmente sbagliato è non mettere in conto questi piccoli segnali del sentire comune, tra cui le palpitazioni dei newyorkesi per le sorti di una creatura non umana, quando milioni di altri animali finiscono in padella, e nei talk show di cucina si discute dei sughetti con cui guarnirli.
Per parte mia, da un paio d’anni ho smesso di mangiare i cuccioli di tutte le specie viventi. Sì, poi te li maggni da grandi mi direte voi, e non avete tutti i torti. Aggiungendo: e questa è ipocrisia.
Mah, può darsi. Però, a volte, ipocrisia è il nome che diamo al cambiamento nel suo farsi, quando non si vede ancora la nuova terra ma quella di partenza è ormai troppo lontana per invertire la rotta.
E dunque vai, piccolo daino: io e infiniti altri io come me stiamo dalla tua parte, e prima o poi diventeremo un noi che fa parola pubblica e giustizia!
22) Ospedale San Raffaele, padiglione A, primo piano interrato,
posto auto C 09, mi raccomando se lo scriva mi dice un tizio che sta
parcheggiando accanto. È infatti un cosmo ordinato quello messo in piedi da Don
Verzè, nella periferia orientale di Milano. Ma è un attimo perdersi come le
anime lontane dalla grazia.
Io sono qui per un intervento agli occhi che avrei dovuto fare già da anni. L'intervento è piccolo - ottantatré secondi solamente, non uno di più, non uno di meno - ma il problema serio. Per questo le persone con cui condivido l'attesa e la patologia dissimulano, ognuna a suo modo, la preoccupazione sull'esito: c'è chi telefona a getto continuo, chi parla a voce alta con una truppa di accompagnatori (si discute in bergamasco del congiuntivo, e scopro che a Bergamo le regole grammaticali sono diverse…), chi cerca un sostegno indifferenziato con lo sguardo, che io ricambio, sempre e comunque, per partito preso. Anche perché mi sto cagando sotto più di loro.
Quando arriva il mio turno mi fanno accomodare in una stanzetta buia e caldissima. "Si sieda qui" dice l'infermiera indicandomi una grossa poltrona con imbottiture verdi, del genere di quelle utilizzate nelle ASL per i prelievi. "Ora le faccio l'endovenosa, durerà una decina di minuti."
In quel periodo il mio sangue sarà caricato di una sostanza misteriosissima e un po' inquietante, che espone l'intero corpo a una sensibilità estrema alla luce solare. "Mi raccomando, non esca di casa per le prossime quarantotto ore!" aggiunge l'infermiera con piglio risoluto. Al termine dovrebbe raggiungerci la dottoressa per il trattamento laser.
Ecco, finito. Ma della dottoressa, l'ho incontrata prima, bionda, schiena dritta e vocina da bambina che redige la lista per Babbo Natale, nemmeno l'ombra.
Passa una ventina di minuti nei quali io rimango immobile al mio posto, come in un fermo immagine mentre la platea comincia rumoreggiare - la salute, in fondo, è un film in cui vorremmo continuamente l'azione, un poter fare tanto per fare. Ho l'ago della flebo sempre infilato dentro il braccio, nel caso si presentasse una reazione allergica. Mah, ancora nessuno.
Un altro quarto d'ora di torrida oscurità e l'infermiera comincia a sbuffare. "Sa cosa facciamo" dice, "io inizio a preparare anche gli altri. Così ci portiamo avanti."
Uno alla volta iniziano a entrare le altre persone prenotate per l'intervento. Il primo è un settantenne di Domodossola, aria da chi abbia faticato a lungo per realizzare il suo sogno: una concessionaria di trattori, ma di un unico colore. Rosso. Ago, vena, dieci minuti. Avanti un altro.
Milanese, sessantenne, barba bianca ben curata: sembra la continuazione della dolcevita in cashmere, è solo un po' più ispida. Di lui puoi scommettere che non abbia mai visto un trattore in vita sua, e deve piacergli poco anche il rosso. Zac, vena, dieci minuti, fatto.
Viene quindi il turno di una quarantenne vicentina. Capelli chiari, minuta, caruccia. Intanto, i bergamaschi sono ancora fuori a dibattere di una grammatica tutta loro. Porgendo il braccio già scoperto, dice la donna con un filo tremante di voce, quasi a volersi scusare: "Di solito fanno un po' fatica..."
La fatica è ovviamente quella nel trovare la vena, specie al buio. L'infermiera armeggia con un grosso ago attorno al suo corpo adagiato sulla poltrona, mentre a ogni arrivo i presenti scalano di un posto. Si china, si rialza, cambia posizione e poi riprende a sbuffare. "Caldo, vero?" le fa eco il milanese rivolto a tutti, e con un sorriso che mi fa ricredere: magari, un pizzico di rosso, ma proprio piccolo, c'è anche nel suo cuore.
Rotto l'imbarazzo verbale e per un istinto naturale di solidarietà, anch'io dico qualcosa, una frase qualunque, una fesseria. Poi, entrambi, io e il milanese, ci facciamo vicini alle due donne, provando a dare il nostro contributo. Quanto alla bambina bionda che ci dovrebbe aver già operato da un pezzo, è ancora assente, non pervenuta, persa nel minimo cosmo di Don Verzè. Ma forse è alla ricerca di Babbo Natale in persona, a cui reclamare la sua bambola.
Ecco, lì sì intravede qualcosa, un alone azzurro, dai che ce la facciamo… Macché. Infermiera, provi più sopra, provi a destra, sul dorso della mano diceva mio cugino: ha fatto due anni a Medicina prima di passare a Scienze politiche, ora fa il taxista. Sembriamo cercatori d'oro calati in un torrente gelato del Klondike. Va beh, togliamo l'aggettivo gelato, ma la pepita più pura continua a negare il suo brillio.
È solo a quel punto che prende la parola il settantenne di Domodossola - fino a ora aveva continuato a guardare assorto il soffitto, come se fosse un campo da arare coi suoi trattori rossi -, e con tono pacato e riflessivo: "Beh, signorina, poteva andarle peggio. Pensi, se si drogava era ogni volta così…"
Io sono qui per un intervento agli occhi che avrei dovuto fare già da anni. L'intervento è piccolo - ottantatré secondi solamente, non uno di più, non uno di meno - ma il problema serio. Per questo le persone con cui condivido l'attesa e la patologia dissimulano, ognuna a suo modo, la preoccupazione sull'esito: c'è chi telefona a getto continuo, chi parla a voce alta con una truppa di accompagnatori (si discute in bergamasco del congiuntivo, e scopro che a Bergamo le regole grammaticali sono diverse…), chi cerca un sostegno indifferenziato con lo sguardo, che io ricambio, sempre e comunque, per partito preso. Anche perché mi sto cagando sotto più di loro.
Quando arriva il mio turno mi fanno accomodare in una stanzetta buia e caldissima. "Si sieda qui" dice l'infermiera indicandomi una grossa poltrona con imbottiture verdi, del genere di quelle utilizzate nelle ASL per i prelievi. "Ora le faccio l'endovenosa, durerà una decina di minuti."
In quel periodo il mio sangue sarà caricato di una sostanza misteriosissima e un po' inquietante, che espone l'intero corpo a una sensibilità estrema alla luce solare. "Mi raccomando, non esca di casa per le prossime quarantotto ore!" aggiunge l'infermiera con piglio risoluto. Al termine dovrebbe raggiungerci la dottoressa per il trattamento laser.
Ecco, finito. Ma della dottoressa, l'ho incontrata prima, bionda, schiena dritta e vocina da bambina che redige la lista per Babbo Natale, nemmeno l'ombra.
Passa una ventina di minuti nei quali io rimango immobile al mio posto, come in un fermo immagine mentre la platea comincia rumoreggiare - la salute, in fondo, è un film in cui vorremmo continuamente l'azione, un poter fare tanto per fare. Ho l'ago della flebo sempre infilato dentro il braccio, nel caso si presentasse una reazione allergica. Mah, ancora nessuno.
Un altro quarto d'ora di torrida oscurità e l'infermiera comincia a sbuffare. "Sa cosa facciamo" dice, "io inizio a preparare anche gli altri. Così ci portiamo avanti."
Uno alla volta iniziano a entrare le altre persone prenotate per l'intervento. Il primo è un settantenne di Domodossola, aria da chi abbia faticato a lungo per realizzare il suo sogno: una concessionaria di trattori, ma di un unico colore. Rosso. Ago, vena, dieci minuti. Avanti un altro.
Milanese, sessantenne, barba bianca ben curata: sembra la continuazione della dolcevita in cashmere, è solo un po' più ispida. Di lui puoi scommettere che non abbia mai visto un trattore in vita sua, e deve piacergli poco anche il rosso. Zac, vena, dieci minuti, fatto.
Viene quindi il turno di una quarantenne vicentina. Capelli chiari, minuta, caruccia. Intanto, i bergamaschi sono ancora fuori a dibattere di una grammatica tutta loro. Porgendo il braccio già scoperto, dice la donna con un filo tremante di voce, quasi a volersi scusare: "Di solito fanno un po' fatica..."
La fatica è ovviamente quella nel trovare la vena, specie al buio. L'infermiera armeggia con un grosso ago attorno al suo corpo adagiato sulla poltrona, mentre a ogni arrivo i presenti scalano di un posto. Si china, si rialza, cambia posizione e poi riprende a sbuffare. "Caldo, vero?" le fa eco il milanese rivolto a tutti, e con un sorriso che mi fa ricredere: magari, un pizzico di rosso, ma proprio piccolo, c'è anche nel suo cuore.
Rotto l'imbarazzo verbale e per un istinto naturale di solidarietà, anch'io dico qualcosa, una frase qualunque, una fesseria. Poi, entrambi, io e il milanese, ci facciamo vicini alle due donne, provando a dare il nostro contributo. Quanto alla bambina bionda che ci dovrebbe aver già operato da un pezzo, è ancora assente, non pervenuta, persa nel minimo cosmo di Don Verzè. Ma forse è alla ricerca di Babbo Natale in persona, a cui reclamare la sua bambola.
Ecco, lì sì intravede qualcosa, un alone azzurro, dai che ce la facciamo… Macché. Infermiera, provi più sopra, provi a destra, sul dorso della mano diceva mio cugino: ha fatto due anni a Medicina prima di passare a Scienze politiche, ora fa il taxista. Sembriamo cercatori d'oro calati in un torrente gelato del Klondike. Va beh, togliamo l'aggettivo gelato, ma la pepita più pura continua a negare il suo brillio.
È solo a quel punto che prende la parola il settantenne di Domodossola - fino a ora aveva continuato a guardare assorto il soffitto, come se fosse un campo da arare coi suoi trattori rossi -, e con tono pacato e riflessivo: "Beh, signorina, poteva andarle peggio. Pensi, se si drogava era ogni volta così…"
23) Pensierino di Natale. Il panettone. C’è chi lo mangia, e gli
piace pure, e chi invece l’uvetta no, i canditi nemmeno, e questo e
quell’altro…” Avete presente, quei rompipalle? (Stessa manfrina con le mandorle
della colomba, tra parentesi.) Al punto che mi è venuto in mente che potesse
diventare il mio filtro. Ognuno ha il suo, un filtro di discriminazione con cui
dividere il mondo in due: bianchi o neri, interisti o milanisti, di qua o di
là. Che poi sono semplificazioni, naturalmente. Però aiutano a trovare una
propria posizione tra le cose. Navigatori satellitari, ecco. Così ogni volta
che vedo un autostoppista, accosto, un lampo malandrino negli occhi, e a
bruciapelo: “Lo mangi il panettone?” Se mi risponde che, sì, però, i canditi…
Io riparto senza nemmeno lasciarlo terminare.
24) A volte penso che sarebbe bello fare un libro di filosofia
su Facebook. Un libro sui commenti ai post, però. È lì che si distilla il
nettare filosofico del mezzo, la sua natura profonda, che così può essere
riassunta: la disinvoltura.
Disinvoltura linguistica, logica, perfino morale. Tutto è infatti disinvolto e spontaneo, nei commenti. Non c'è riflessione ma solo flessione immediata a uno stimolo. Automatismo. Con il grande ritorno di Pavlov, a scalzare Aristotele dal podio del ragionamento.
Prendiamo le parole di una certa Giovanna, scritte in risposta a un intervento in cui si lamentava la riconferma di Maria Elena Boschi, addirittura promossa al ruolo di sottosegretario nel nuovo governo Gentiloni.
Commento di Giovanna: "Odiare le donne è fichissimo. Soprattutto se troppo belle." Va quindi a concludere, qualche commento più sotto: "Essendo io stata molto bella, non le odio. Inoltre, essendo ancora intelligente, le stimo, soprattutto MEB."
Ecco, l'insieme di queste affermazioni è, come anticipavo, filosofia. Nel senso che mostra all'opera la forma moderna del pensare per concetti. Il suo schema è il seguente: "Io ero bella, molto bella e pure intelligente, tiè, cosa che per altro sono ancora: intelligentissima! Ma anche Maria Elena Boschi è bella. Se ne ricava DUNQUE, per estensione logica, che Maria Elena Boschi è intelligente, non può non esserlo. E stupidi e sessisti gli uomini che non lo capiscono."
Un modo di ragionare, e di argomentare, che su Facebook non è per nulla eccentrico, fa addirittura sistema. Forse perché sollecitato dai tempi veloci e distratti a cui il mezzo sottopone. Disinvoltura, et voilà.
La mia impressione è dunque che la facilità attuale nella comunicazione - e i social media sono facilissimi - venga confusa con il pensiero, specie quello che viene chiamato opinione. I greci gli davano un altro nome, "doxa", e per loro era davvero una faccenda di basso livello. Nell'epoca presente è stata invece elevata di grado, in un diffuso e onnisciente opinionismo. Ma, così facendo, il pensiero smarrisce le sue strutture interne, sotto forma di nessi logici tra premesse generali e conseguenze particolari. Le elementari regole del sillogismo, insomma.
Beh, che altro dire? Se fossimo anche noi dei paladini del genere di appartenenza, potremmo ribattere che allora pure Gabriel Garko meritava quantomeno un sottoministero. Bello è bello, dai! O ricordare che avere delle riserve politiche non significa odiare. Infine provare a spiegare a Giovanna che essere stati belli e intelligenti non porta, automaticamente, al fatto che tutti i belli siano intelligenti. Questa è infatti un'induzione, non una deduzione.
Il guaio è che se lei lo scoprisse, oltre a qualche legittimo dubbio sull'intelligenza della Boschi, potrebbe iniziare a nutrirlo sulla propria. E ciò contrasterebbe con la prima e fondamentale legge di Facebook. Quella che alla tua domanda, qualsiasi domanda tu gli ponga, lo specchio digitale debba rispondere: "Il più bello del reame sei tu." Ma anche il più intelligente, ganzo, figo, smart…
E se qualcuno non lo capisce, basta bannarlo.
Disinvoltura linguistica, logica, perfino morale. Tutto è infatti disinvolto e spontaneo, nei commenti. Non c'è riflessione ma solo flessione immediata a uno stimolo. Automatismo. Con il grande ritorno di Pavlov, a scalzare Aristotele dal podio del ragionamento.
Prendiamo le parole di una certa Giovanna, scritte in risposta a un intervento in cui si lamentava la riconferma di Maria Elena Boschi, addirittura promossa al ruolo di sottosegretario nel nuovo governo Gentiloni.
Commento di Giovanna: "Odiare le donne è fichissimo. Soprattutto se troppo belle." Va quindi a concludere, qualche commento più sotto: "Essendo io stata molto bella, non le odio. Inoltre, essendo ancora intelligente, le stimo, soprattutto MEB."
Ecco, l'insieme di queste affermazioni è, come anticipavo, filosofia. Nel senso che mostra all'opera la forma moderna del pensare per concetti. Il suo schema è il seguente: "Io ero bella, molto bella e pure intelligente, tiè, cosa che per altro sono ancora: intelligentissima! Ma anche Maria Elena Boschi è bella. Se ne ricava DUNQUE, per estensione logica, che Maria Elena Boschi è intelligente, non può non esserlo. E stupidi e sessisti gli uomini che non lo capiscono."
Un modo di ragionare, e di argomentare, che su Facebook non è per nulla eccentrico, fa addirittura sistema. Forse perché sollecitato dai tempi veloci e distratti a cui il mezzo sottopone. Disinvoltura, et voilà.
La mia impressione è dunque che la facilità attuale nella comunicazione - e i social media sono facilissimi - venga confusa con il pensiero, specie quello che viene chiamato opinione. I greci gli davano un altro nome, "doxa", e per loro era davvero una faccenda di basso livello. Nell'epoca presente è stata invece elevata di grado, in un diffuso e onnisciente opinionismo. Ma, così facendo, il pensiero smarrisce le sue strutture interne, sotto forma di nessi logici tra premesse generali e conseguenze particolari. Le elementari regole del sillogismo, insomma.
Beh, che altro dire? Se fossimo anche noi dei paladini del genere di appartenenza, potremmo ribattere che allora pure Gabriel Garko meritava quantomeno un sottoministero. Bello è bello, dai! O ricordare che avere delle riserve politiche non significa odiare. Infine provare a spiegare a Giovanna che essere stati belli e intelligenti non porta, automaticamente, al fatto che tutti i belli siano intelligenti. Questa è infatti un'induzione, non una deduzione.
Il guaio è che se lei lo scoprisse, oltre a qualche legittimo dubbio sull'intelligenza della Boschi, potrebbe iniziare a nutrirlo sulla propria. E ciò contrasterebbe con la prima e fondamentale legge di Facebook. Quella che alla tua domanda, qualsiasi domanda tu gli ponga, lo specchio digitale debba rispondere: "Il più bello del reame sei tu." Ma anche il più intelligente, ganzo, figo, smart…
E se qualcuno non lo capisce, basta bannarlo.
25) Una vecchia raccolta di racconti di Raymond Carver si
intitolava: “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?”
E di cosa scriviamo, quando scriviamo su Facebook?
Ci pensavo oggi leggendo un recente post dello scrittore Fulvio Abbate. Il suo testo, quasi uno sberleffo goliardico, o meglio la scritta a pennarello sulle piastrelle della toilette, così recitava: “Mi correggo: Patti Smith non è un mocio, semmai un cesso. Inchiavabile.”
Se ne ricava che questo intervento doveva rappresentare la seconda parte di un sequel, la cui prima puntata sarà probabilmente stata: “Patty Smith somiglia sempre più a un mocio.”
E vieni giù cielo, con i commenti, a pioggia, che si dividevano tra chi difende la grande artista oltraggiata e chi invece incalza: “Sì sì, è un mocio, un cesso, una stronza!”
Con flemma anglosassone, qualcuno, che come noi si sentiva più ganzo e sopraelevato degli altri, insinuava che questo genere di affermazioni – diffusissime sul web, per inciso – hanno la benemerita funzione di "smitizzare un santino". Il santino è ovviamente rappresentato dalle icone dello star system, nella fattispecie Patty Smith.
No, non lo era.
Per quello – smitizzare, rendere laico il monumento sacro – è necessario armare lo sguardo con spirito di finezza, quindi immergersi nelle pieghe simboliche della mitopoiesi pop, come faceva uno come Roland Barthes.
Il post di Fulvio Abbate, coerentemente al ruolo che si è assegnato da qualche tempo, era piuttosto un "detournement” situazionistico, a stravolgere e rifondare il paesaggio ricettivo: prendiamo la famosa rock star - osservata e venerata, normalmente, nella sua squisita arte canora - e ricollochiamola dentro uno scenario sessualmente comune, se non corrivo.
Un po’ come faceva Giorgio Bracardi ad Alto Gradimento: immaginiamo il Papa o il presidente della repubblica sul water, aggiungiamo un paio di scoregge, e il gioco è fatto.
Allo stesso modo, opplà, giravolta, e ritroviamo il mito musicale nel nuovo ruolo di "cesso inchiavabile". Da segno astratto, insomma, a femmina incarnata e un po' sfiorita. In altre parole era un'esca semiotica ben congegnata, a cui tutti noi abbiamo abboccato.
Il dubbio non è dunque quello sul talento di Abbate nel cogliere nervi scoperti da pizzicare (e io, che mi ritengo suo amico nella distanza, a maggior ragione glielo riconosco), ma piuttosto se queste provocazioni aggiungano qualcosa: sia alla comprensione dell'arte sia a quella della realtà, fosse solo un suo piccolo pezzo.
O per rispondere alla domanda ancora più decisiva di Carver, nella sua nuova formulazione: non è che quando scriviamo su Facebook scriviamo sempre e solo di noi: per fare il botto, per épater le bourgeois…
E di cosa scriviamo, quando scriviamo su Facebook?
Ci pensavo oggi leggendo un recente post dello scrittore Fulvio Abbate. Il suo testo, quasi uno sberleffo goliardico, o meglio la scritta a pennarello sulle piastrelle della toilette, così recitava: “Mi correggo: Patti Smith non è un mocio, semmai un cesso. Inchiavabile.”
Se ne ricava che questo intervento doveva rappresentare la seconda parte di un sequel, la cui prima puntata sarà probabilmente stata: “Patty Smith somiglia sempre più a un mocio.”
E vieni giù cielo, con i commenti, a pioggia, che si dividevano tra chi difende la grande artista oltraggiata e chi invece incalza: “Sì sì, è un mocio, un cesso, una stronza!”
Con flemma anglosassone, qualcuno, che come noi si sentiva più ganzo e sopraelevato degli altri, insinuava che questo genere di affermazioni – diffusissime sul web, per inciso – hanno la benemerita funzione di "smitizzare un santino". Il santino è ovviamente rappresentato dalle icone dello star system, nella fattispecie Patty Smith.
No, non lo era.
Per quello – smitizzare, rendere laico il monumento sacro – è necessario armare lo sguardo con spirito di finezza, quindi immergersi nelle pieghe simboliche della mitopoiesi pop, come faceva uno come Roland Barthes.
Il post di Fulvio Abbate, coerentemente al ruolo che si è assegnato da qualche tempo, era piuttosto un "detournement” situazionistico, a stravolgere e rifondare il paesaggio ricettivo: prendiamo la famosa rock star - osservata e venerata, normalmente, nella sua squisita arte canora - e ricollochiamola dentro uno scenario sessualmente comune, se non corrivo.
Un po’ come faceva Giorgio Bracardi ad Alto Gradimento: immaginiamo il Papa o il presidente della repubblica sul water, aggiungiamo un paio di scoregge, e il gioco è fatto.
Allo stesso modo, opplà, giravolta, e ritroviamo il mito musicale nel nuovo ruolo di "cesso inchiavabile". Da segno astratto, insomma, a femmina incarnata e un po' sfiorita. In altre parole era un'esca semiotica ben congegnata, a cui tutti noi abbiamo abboccato.
Il dubbio non è dunque quello sul talento di Abbate nel cogliere nervi scoperti da pizzicare (e io, che mi ritengo suo amico nella distanza, a maggior ragione glielo riconosco), ma piuttosto se queste provocazioni aggiungano qualcosa: sia alla comprensione dell'arte sia a quella della realtà, fosse solo un suo piccolo pezzo.
O per rispondere alla domanda ancora più decisiva di Carver, nella sua nuova formulazione: non è che quando scriviamo su Facebook scriviamo sempre e solo di noi: per fare il botto, per épater le bourgeois…
26) Oggi ho visto un cane della stessa razza e della stessa età
che avrebbe avuto ora il mio cane. Golden Retriver e quattordici anni, rispettivamente.
Entrambi gli animali sono di sesso femminile e si conoscevano, si può dire che fossero amiche, dopo che si erano conosciute frequentando lo stesso giardinetto. Ricordo la padrona, un po' saccente, dell'altro cane, che mi sgridava perché gli facevo fare lo scivolo. Rischia una distorsione, mi diceva. E a me che mi importa pensavo, pago dello sguardo euforico e felice che aveva dopo ogni discesa.
Poi i due animali, percependo forse la scarsa simpatia tra i padroni, si sono bisticciati un po', complice anche un bel meticcetto di nome Spenk. La mia cagnolona invece si chiamava Peppa, ed è morta otto mesi fa.
Camminava piano e aveva occhi leggermente velati dalla cataratta, l'altro Golden che ho visto oggi al guinzaglio lungo viale Mazzini, ma nel complesso sembrava godere di buona salute.
Ecco, se devo pensare a un'immagine che per me riassuma il termine invidia - il sentimento probabilmente più inviso e negato da tutti - è senz'altro questa qui. Un cane quasi identico al mio, ma non è il mio. Già che non si invidia ciò che è lontano e irraggiungibile, ma il quasi prossimo, il quasi noi.
Ma in questo caso con una sola piccola cosa in più: la vita. Che ora dunque gli invidio come nel testamento di Tito.
Entrambi gli animali sono di sesso femminile e si conoscevano, si può dire che fossero amiche, dopo che si erano conosciute frequentando lo stesso giardinetto. Ricordo la padrona, un po' saccente, dell'altro cane, che mi sgridava perché gli facevo fare lo scivolo. Rischia una distorsione, mi diceva. E a me che mi importa pensavo, pago dello sguardo euforico e felice che aveva dopo ogni discesa.
Poi i due animali, percependo forse la scarsa simpatia tra i padroni, si sono bisticciati un po', complice anche un bel meticcetto di nome Spenk. La mia cagnolona invece si chiamava Peppa, ed è morta otto mesi fa.
Camminava piano e aveva occhi leggermente velati dalla cataratta, l'altro Golden che ho visto oggi al guinzaglio lungo viale Mazzini, ma nel complesso sembrava godere di buona salute.
Ecco, se devo pensare a un'immagine che per me riassuma il termine invidia - il sentimento probabilmente più inviso e negato da tutti - è senz'altro questa qui. Un cane quasi identico al mio, ma non è il mio. Già che non si invidia ciò che è lontano e irraggiungibile, ma il quasi prossimo, il quasi noi.
Ma in questo caso con una sola piccola cosa in più: la vita. Che ora dunque gli invidio come nel testamento di Tito.
27) Gli amanti di Patty Smith si stanno scagliando contro i
non-amanti di Patty Smith, che la irridono per la sua performance alla consegna
del Nobel a Bob Dylan - io l'ho trovata meravigliosa anche nella smemoratezza,
per inciso.
Intanto, amanti e non-amanti di qualsiasi cosa o persona o personcina si affrontano quotidianamente su Facebook, lanciandosi addosso i reciproci strali fiammeggianti (una tizia che detesta Pisapia mi ha appena dato del cretino reazionario: a me, che considero Pisapia alla stregua di un geometra azzimato del catasto?!).
Guelfi contro Ghibellini insomma, al tempo del Web 2.0.
Ma forse è la stessa internet a possedere questa utile funzione sociale: dare moderno corso al settarismo. Che è sempre settarismo d'amore, tocca ricordarlo, prima di rivolgersi nel suo contrario: l'odio.
Viene allora il dubbio che sia proprio l'amore a rendere "odiosamente" settari, qualsiasi amore e qualsiasi cricca di amanti, non ciò per cui ci si prende gioiosamente a cornate, che è in fondo solo un pretesto.
L'amore rende infatti intimi al suo oggetto o, meglio, ne fornisce l'illusione: un'illusione di identità, essere lo stesso della cosa amata, che ha bisogno di un opposto negativo per definirsi dialetticamente.
Quel che ne patisce è dunque lo sguardo, a cui viene agganciata una zavorra piena di amore grezzo e pastoso, che tira giù giù giù...
Povero sguardo amoroso, che così non può più elevarsi nel giudizio. E dalla modesta veduta del troppo, davvero troppo vicino per vedere - la presbiopia, il grande male degli anziani -, chiama tifoni le scoregge. Quindi le romba addosso alle schiere nemiche, per abbatterle.
Intanto, amanti e non-amanti di qualsiasi cosa o persona o personcina si affrontano quotidianamente su Facebook, lanciandosi addosso i reciproci strali fiammeggianti (una tizia che detesta Pisapia mi ha appena dato del cretino reazionario: a me, che considero Pisapia alla stregua di un geometra azzimato del catasto?!).
Guelfi contro Ghibellini insomma, al tempo del Web 2.0.
Ma forse è la stessa internet a possedere questa utile funzione sociale: dare moderno corso al settarismo. Che è sempre settarismo d'amore, tocca ricordarlo, prima di rivolgersi nel suo contrario: l'odio.
Viene allora il dubbio che sia proprio l'amore a rendere "odiosamente" settari, qualsiasi amore e qualsiasi cricca di amanti, non ciò per cui ci si prende gioiosamente a cornate, che è in fondo solo un pretesto.
L'amore rende infatti intimi al suo oggetto o, meglio, ne fornisce l'illusione: un'illusione di identità, essere lo stesso della cosa amata, che ha bisogno di un opposto negativo per definirsi dialetticamente.
Quel che ne patisce è dunque lo sguardo, a cui viene agganciata una zavorra piena di amore grezzo e pastoso, che tira giù giù giù...
Povero sguardo amoroso, che così non può più elevarsi nel giudizio. E dalla modesta veduta del troppo, davvero troppo vicino per vedere - la presbiopia, il grande male degli anziani -, chiama tifoni le scoregge. Quindi le romba addosso alle schiere nemiche, per abbatterle.
28) Ugo, un amico di famiglia di ottantaquattro anni. Da alcuni
giorni è ricoverato all’ospedale di Sondrio per un piccolo intervento al cuore.
Mia madre è andata oggi a fargli visita: l’ha trovato bene, fortunatamente. Ma
era un po’ incavolato.
Nei gabinetti lungo la corsia – “Tutto pulito, per carità”, ci tiene a precisare – gli assi dei water mancavano di qualche vitina. Ne consegue che sedendosi si spostano un po’ di qua e un po’ di là. Ballano, insomma. “E sai com’è Aristea”, che è il nome di mia madre: “l’è miga bel in qui mument…”
Ugo si è allora fatto portare da casa la cassetta degli attrezzi, e ha sistemato tutto. Uscendo con il cacciavite ancora in mano ha però incocciato nella caposala. Che gli ha allungato un’occhiataccia torva. Aggiungendo, con voce sibilante: “Non si permetta di farlo un’altra volta! Questi, sono lavori che deve fare il servizio tecnico."
E così adesso Ugo continua a rammendare il mondo, ma di nascosto.
Nei gabinetti lungo la corsia – “Tutto pulito, per carità”, ci tiene a precisare – gli assi dei water mancavano di qualche vitina. Ne consegue che sedendosi si spostano un po’ di qua e un po’ di là. Ballano, insomma. “E sai com’è Aristea”, che è il nome di mia madre: “l’è miga bel in qui mument…”
Ugo si è allora fatto portare da casa la cassetta degli attrezzi, e ha sistemato tutto. Uscendo con il cacciavite ancora in mano ha però incocciato nella caposala. Che gli ha allungato un’occhiataccia torva. Aggiungendo, con voce sibilante: “Non si permetta di farlo un’altra volta! Questi, sono lavori che deve fare il servizio tecnico."
E così adesso Ugo continua a rammendare il mondo, ma di nascosto.
29) Michele è uno dei miei migliori amici. Per i miei nemici, Michele è
invece lo scemo del villaggio.
Il villaggio è come sempre Sondrio, ma, prima, Michele deve essere stato lo scemo di Palma di Montechiaro, da cui proviene. Come sia capitato a Sondrio nessuno lo sa. Semplicemente, si è presentato dodici anni fa al bar Piero e ha ordinato un caffè. "Con il dolcificante", ha aggiunto con la faccia seria e un po’ imbronciata.
Perché Michele ha il diabete e non può prendere lo zucchero, gli hanno detto. Ma non gli hanno detto niente sul resto, e così Michele mangia qualsiasi cosa e a qualsiasi ora - ieri sera quattro uova e una scatoletta di carne Montana, prima di andare a dormire.
"Però non mi piace l'aglio” dice Michele “Mi fa schifo l’aglio e anche le cervella e la trippa. E’ che so' fino, come mia madre. Miii dovevi vedere mia madre come era fiiina. Me lo diceva sempre mio padre: sei fino come tua maaadre."
Oltre a dormire e a mangiare moltissimo, ma niente aglio e cervella e trippa, perché è fino, Michele prega. Va a messa anche due volte al giorno. Parla con Gesù e tutti i santi. A cui chiede due cose: datemi i soldi, datemi la bellezza.
Ma se le sommiamo, ci accorgiamo che in realtà sta supplicando una grazia solamente. Quella di una donna. Solo che invece di arrampicarsi su una grande quercia per reclamarla a gran voce, come fa lo zio un po' toccato in Amarcord, prima che una suorina minuscola gli intimi di scendere, Michele si arrampica direttamente alla porta di Dio, che però non apre. “Dio non fa nieeente”, conclude allora muovendo il testone sconsolato.
In compenso è Michele a fare piccole cose, gesti buffi, motti estemporanei che regalano il sorriso a chi sta intorno. Sì, è simpatico a chi lo conosce e la conoscenza, nel tempo, porta a volergli bene. Forse perché è un enorme bambino di cinque o sei anni, con una sola cosa in più: la sessualità.
Una sessualità prorompente, vitale, compulsiva come i personaggi delle novelle di Boccaccio. Gli ambienti cattolici che frequenta cercano però di sviarlo da questi desideri troppo umani. "Dio non vuole", gli dicono. "Dio non vuooole?" risponde lui con sorpresa.
Ma poi, un sorrisetto malizioso sulle labbra, si rivolge a me e Ivano, e di nascosto dai preti aggiunge: "Dio non vuole ma Padre Pio è d'accooordo... Mi regalate dieci euro, ho trovato una che fa?"
Quando il "fare" non è più quello negletto di Dio, ma ha ora valore di sineddoche che, nel suo codice, sta per: fa-sesso-a-pagamento-e-non-vedo-l'ora-di-andarci-se-mi-date-i-soldi-grazie.
Io e Ivano gli diamo allora dieci euro e l'accompagniamo in auto in via Maffei, un quartiere popolare cresciuto negli anni in cui il boom involgeva come un'onda, grandi e anonimi casermoni scrostati, potrebbe essere ovunque ma non abitarci chiunque. Roba da poveri, insomma. A piano terra con l'ingresso che dà su un giardinetto comune, abita questa persona che "fa".
Non è una prostituta, chiariamolo subito. E’ semplicemente una donna sudamericana di una sessantina d'anni, forse qualcuno in meno, ma ne dimostra di più. Anche lei si trova in cura al centro psicosociale dove Michele va tutte le mattine col pulmino verde. Fa dunque solo per arrotondare i sussidi e prendersi qualche sigaretta, da fumare avidamente fino al filtro. Fa tanto per fare, si potrebbe dire.
Mentre Ivano sta ancora parcheggiando, Michele si dirige spedito verso la sua abitazione e inizia a bussare alla portafinestra, da cui traspaiono le immagini di un televisore acceso: "Gutierrez, apri, apri: c'ho i soooldi!" Intanto sventola la banconota ricevuta da me e Ivano, che ci raggiunge nell'oscurità del vialetto, una luce su tre è rotta o è stata spaccata con un sasso.
Al contrario della porta blindata su cui veglia San Pietro, dopo una manciata di secondi qualcosa si apre per davvero, lasciando fuoriuscire una nuvola di condensa all'odore acre di spezie. Contemporaneamente fa capolino un donnone piccolo e largo in mutande, i capelli radi sono arruffati e tinti di rosso, con abbondante ricrescita bianca che contrasta con la carnagione brunita. Sono radi anche i denti in una bocca dalle labbra strette e tirate.
"Guarda, so' buoooni questi, dieci eeeuro, fammi entrare Gutierrez!"
Ma lei invece guarda, malissimo, noi, prima di richiudere bruscamente la porta dietro a Michele, che nel frattempo si sta già spogliando in cucina. Resta solo la nuvoletta al curry che piano piano dilegua.
Io e Ivano, come genitori che attendono il figlio a una visita odontoiatrica, ci sediamo quindi sul muretto di fronte. Al freddo. Al buio. Se questo fosse un film, ora anche noi ci accenderemmo una sigaretta e inizieremmo a fumare alla maniera accanita dei matti. Ma non è un film, e io e Ivano non fumiamo.
Dopo una quindicina di minuti si riapre la portafinestra di Gutierrez, e nel cono di luce compare la sagoma massiccia di Michele, con a tracolla il suo borsello colmo di santini ordinati per forza specifica: Padre Pio è il più forte di tutti, assicura Michele. Subito dopo vengono Sant'Antonio da Padova e Tomasina Pozzi.
"Allora, dai, racconta!" lo incalziamo con allegria, dandogli una sonora pacca sulle spalle. Una scena che ricorda l'uscita del giocatore dopo aver segnato tre goal, e che l'allenatore sostituisce solo per regalargli la standing ovation del pubblico.
Lui però stranamente non risponde. Ha la faccia del colore di un lenzuolo. Fa qualche passo, prova ad accendersi una Camel, ma dopo un paio di tirate inizia a vomitare sull'erba gelata dell'aiuola, mentre io e Ivano lo sorreggiamo.
Poi si volta. Ci guarda. Sorride. E dice: "Ve l'avevo detto, so' fiiino, come mia madre. Era fina mia madre..."
"Va bene Michele, adesso andiamo però, la macchina è qui sotto. Andiamo a finire l'albero di Natale."
Il villaggio è come sempre Sondrio, ma, prima, Michele deve essere stato lo scemo di Palma di Montechiaro, da cui proviene. Come sia capitato a Sondrio nessuno lo sa. Semplicemente, si è presentato dodici anni fa al bar Piero e ha ordinato un caffè. "Con il dolcificante", ha aggiunto con la faccia seria e un po’ imbronciata.
Perché Michele ha il diabete e non può prendere lo zucchero, gli hanno detto. Ma non gli hanno detto niente sul resto, e così Michele mangia qualsiasi cosa e a qualsiasi ora - ieri sera quattro uova e una scatoletta di carne Montana, prima di andare a dormire.
"Però non mi piace l'aglio” dice Michele “Mi fa schifo l’aglio e anche le cervella e la trippa. E’ che so' fino, come mia madre. Miii dovevi vedere mia madre come era fiiina. Me lo diceva sempre mio padre: sei fino come tua maaadre."
Oltre a dormire e a mangiare moltissimo, ma niente aglio e cervella e trippa, perché è fino, Michele prega. Va a messa anche due volte al giorno. Parla con Gesù e tutti i santi. A cui chiede due cose: datemi i soldi, datemi la bellezza.
Ma se le sommiamo, ci accorgiamo che in realtà sta supplicando una grazia solamente. Quella di una donna. Solo che invece di arrampicarsi su una grande quercia per reclamarla a gran voce, come fa lo zio un po' toccato in Amarcord, prima che una suorina minuscola gli intimi di scendere, Michele si arrampica direttamente alla porta di Dio, che però non apre. “Dio non fa nieeente”, conclude allora muovendo il testone sconsolato.
In compenso è Michele a fare piccole cose, gesti buffi, motti estemporanei che regalano il sorriso a chi sta intorno. Sì, è simpatico a chi lo conosce e la conoscenza, nel tempo, porta a volergli bene. Forse perché è un enorme bambino di cinque o sei anni, con una sola cosa in più: la sessualità.
Una sessualità prorompente, vitale, compulsiva come i personaggi delle novelle di Boccaccio. Gli ambienti cattolici che frequenta cercano però di sviarlo da questi desideri troppo umani. "Dio non vuole", gli dicono. "Dio non vuooole?" risponde lui con sorpresa.
Ma poi, un sorrisetto malizioso sulle labbra, si rivolge a me e Ivano, e di nascosto dai preti aggiunge: "Dio non vuole ma Padre Pio è d'accooordo... Mi regalate dieci euro, ho trovato una che fa?"
Quando il "fare" non è più quello negletto di Dio, ma ha ora valore di sineddoche che, nel suo codice, sta per: fa-sesso-a-pagamento-e-non-vedo-l'ora-di-andarci-se-mi-date-i-soldi-grazie.
Io e Ivano gli diamo allora dieci euro e l'accompagniamo in auto in via Maffei, un quartiere popolare cresciuto negli anni in cui il boom involgeva come un'onda, grandi e anonimi casermoni scrostati, potrebbe essere ovunque ma non abitarci chiunque. Roba da poveri, insomma. A piano terra con l'ingresso che dà su un giardinetto comune, abita questa persona che "fa".
Non è una prostituta, chiariamolo subito. E’ semplicemente una donna sudamericana di una sessantina d'anni, forse qualcuno in meno, ma ne dimostra di più. Anche lei si trova in cura al centro psicosociale dove Michele va tutte le mattine col pulmino verde. Fa dunque solo per arrotondare i sussidi e prendersi qualche sigaretta, da fumare avidamente fino al filtro. Fa tanto per fare, si potrebbe dire.
Mentre Ivano sta ancora parcheggiando, Michele si dirige spedito verso la sua abitazione e inizia a bussare alla portafinestra, da cui traspaiono le immagini di un televisore acceso: "Gutierrez, apri, apri: c'ho i soooldi!" Intanto sventola la banconota ricevuta da me e Ivano, che ci raggiunge nell'oscurità del vialetto, una luce su tre è rotta o è stata spaccata con un sasso.
Al contrario della porta blindata su cui veglia San Pietro, dopo una manciata di secondi qualcosa si apre per davvero, lasciando fuoriuscire una nuvola di condensa all'odore acre di spezie. Contemporaneamente fa capolino un donnone piccolo e largo in mutande, i capelli radi sono arruffati e tinti di rosso, con abbondante ricrescita bianca che contrasta con la carnagione brunita. Sono radi anche i denti in una bocca dalle labbra strette e tirate.
"Guarda, so' buoooni questi, dieci eeeuro, fammi entrare Gutierrez!"
Ma lei invece guarda, malissimo, noi, prima di richiudere bruscamente la porta dietro a Michele, che nel frattempo si sta già spogliando in cucina. Resta solo la nuvoletta al curry che piano piano dilegua.
Io e Ivano, come genitori che attendono il figlio a una visita odontoiatrica, ci sediamo quindi sul muretto di fronte. Al freddo. Al buio. Se questo fosse un film, ora anche noi ci accenderemmo una sigaretta e inizieremmo a fumare alla maniera accanita dei matti. Ma non è un film, e io e Ivano non fumiamo.
Dopo una quindicina di minuti si riapre la portafinestra di Gutierrez, e nel cono di luce compare la sagoma massiccia di Michele, con a tracolla il suo borsello colmo di santini ordinati per forza specifica: Padre Pio è il più forte di tutti, assicura Michele. Subito dopo vengono Sant'Antonio da Padova e Tomasina Pozzi.
"Allora, dai, racconta!" lo incalziamo con allegria, dandogli una sonora pacca sulle spalle. Una scena che ricorda l'uscita del giocatore dopo aver segnato tre goal, e che l'allenatore sostituisce solo per regalargli la standing ovation del pubblico.
Lui però stranamente non risponde. Ha la faccia del colore di un lenzuolo. Fa qualche passo, prova ad accendersi una Camel, ma dopo un paio di tirate inizia a vomitare sull'erba gelata dell'aiuola, mentre io e Ivano lo sorreggiamo.
Poi si volta. Ci guarda. Sorride. E dice: "Ve l'avevo detto, so' fiiino, come mia madre. Era fina mia madre..."
"Va bene Michele, adesso andiamo però, la macchina è qui sotto. Andiamo a finire l'albero di Natale."
30) Pensierino. Il venti per cento, se non di più, degli
interventi che vengono postati su internet, riguarda le proprietà terapeutiche
della marjuana, con relativa perorazione per il suo libero consumo. Ed è bello
vedere le persone che si preoccupano per la tua salute. Dai, cazzo, combattiamo
assieme per la liberalizzazione della marjuana, per un mondo finalmente fatto
di sani e di belli!
Ma anche le cellule staminali, penso poi, cellule sia adulte che embrionali, hanno infinite proprietà terapeutiche, e come per la marjuana la legge 40 ne vieta in Italia la sperimentazione.
Mi aspetto dunque che almeno un altro buon venti per cento degli interventi riguardi la liberalizzazione della ricerca sulle staminali. Quindi controllo… Mmm, strano: non ne trovo alcuna entusiastica apologia. Solo pagine e pagine che glorificano l'uso della marjuana, bada bene da un punto di vista scientifico, su internet tutti scienziati.
Pensierino conclusivo: non è che si riesce trovare un modo per fumarci anche le staminali…
Ma anche le cellule staminali, penso poi, cellule sia adulte che embrionali, hanno infinite proprietà terapeutiche, e come per la marjuana la legge 40 ne vieta in Italia la sperimentazione.
Mi aspetto dunque che almeno un altro buon venti per cento degli interventi riguardi la liberalizzazione della ricerca sulle staminali. Quindi controllo… Mmm, strano: non ne trovo alcuna entusiastica apologia. Solo pagine e pagine che glorificano l'uso della marjuana, bada bene da un punto di vista scientifico, su internet tutti scienziati.
Pensierino conclusivo: non è che si riesce trovare un modo per fumarci anche le staminali…
31) Come i continenti sommersi, le faglie telluriche che si
spostano di pochi metri all'anno, deve esistere anche un movimento psichico
compensativo, impiega decenni prima che appaia il terremoto di cui si faceva
portatore. E sono interi mondi che crollano, ma senza fragore: ti alzi una
mattina e hanno cambiato il paesaggio - dov'è l'edicola, e il pizzicagnolo…? -
come il fondale di cartapesta nell'opera. Così mentre si osservano le rovine ci
si dimentica del tempo: tutti quei giorni passati, semplicemente, a passare, in
cui i maschi si femminilizzavano un poco e le donne diventavano più mascoline.
Ma arrivati a questa età, noi ormai donnine profumate e loro che si girano al
passaggio di un bel ragazzo, commentando a voce alta, ci guardiamo e non lo
sappiamo più: chi deve entrare prima al ristorante…
32) Nei giorni scorsi ho scritto di come sono stato appena
bannato, per futilissimi motivi, da una persona che stimo. Ho ricevuto qualche
segno di solidarietà, apprezzato, ma vorrei ora aggiungere che non intendeva
essere quello il tema: come la gente, brutta, cattiva, si comporta nei miei
confronti.
La gente è infatti quel che è, e neppure io mi sento poi tanto buono. Mi interessava piuttosto riflettere sul rapporto tra vita immediata, là fuori, e vita mediata qui dentro. Quindi sul fatto che la tecnologia, altrove artefice di cambiamenti antropologici profondi, su Facebook abbia un effetto di mera riproduzione della realtà, magari esasperando alcuni tratti costitutivi dell'umano: narcisismo e aggressività, innanzitutto.
Detto ciò, trovo che a monte del rapido e diffuso gesto di bannare sia presente un grosso equivoco: quello che Facebook sia uno spazio aperto di discussione. Una sorta di grande forum, ecco, un'agorà telematica o, più frequentemente, un karaoke in cui nessun ugola venga considerata stonata.
Per come invece è strutturato il mezzo, bannare, dall'inglese "to ban", con radice latina "bannum" ma prima ancora dal germanico "bann" (bandire, intimare), ha la semplice funzione di mettere alla porta un impiccione.
Facebook non è infatti una comunità, ma l'equivalente di ciò che Hemingway, in un suggestivo libro sulla vita parigina degli anni trenta, chiamò "festa mobile". Si saltabecca insomma da una festa all'altra, da una bacheca a un'altra bacheca, che però sono spazi dove c'è un unico padrone di casa, con potere assoluto sui visitatori.
In un universo strutturato per microcosmi domestici, non stupisce dunque che sia tanto diffusa l'antica pratica della proscrizione. Bannandoti, facendo di te, letteralmente, un "bandito", io non faccio altro che ribadire il fatto che questa è una festa privata, per quanti imbucati ci siano in giro a trascinarsi da un salotto all'altro, con il bicchiere di Martini sempre colmo. .
Bene insomma ha fatto quello scrittore a ricordarmi che è casa sua, bene fa chiunque a fare selezione all'ingresso come in certe discoteche con il suffisso "vip", bene tutto. Con forse solo una domanda residua, da sussurrare mentre si chiude la porta e ci si mette un bel cartello sopra: "Raus!"
Prima di questa distesa di villette sigillate, ed è la domanda, prima, non dopo, esiste ancora un mondo, un "mundus" mondato dalla monnezza che ciascuno deposita davanti a casa propria, per quanto ben differenziata in sacchettini gialli, neri, blu?
Un mondo in cui fare mondo, sistema, parola pubblica, senza che il Gianfranco Fini di turno debba alzarsi e dire: "Che fai, mi cacci?"
La gente è infatti quel che è, e neppure io mi sento poi tanto buono. Mi interessava piuttosto riflettere sul rapporto tra vita immediata, là fuori, e vita mediata qui dentro. Quindi sul fatto che la tecnologia, altrove artefice di cambiamenti antropologici profondi, su Facebook abbia un effetto di mera riproduzione della realtà, magari esasperando alcuni tratti costitutivi dell'umano: narcisismo e aggressività, innanzitutto.
Detto ciò, trovo che a monte del rapido e diffuso gesto di bannare sia presente un grosso equivoco: quello che Facebook sia uno spazio aperto di discussione. Una sorta di grande forum, ecco, un'agorà telematica o, più frequentemente, un karaoke in cui nessun ugola venga considerata stonata.
Per come invece è strutturato il mezzo, bannare, dall'inglese "to ban", con radice latina "bannum" ma prima ancora dal germanico "bann" (bandire, intimare), ha la semplice funzione di mettere alla porta un impiccione.
Facebook non è infatti una comunità, ma l'equivalente di ciò che Hemingway, in un suggestivo libro sulla vita parigina degli anni trenta, chiamò "festa mobile". Si saltabecca insomma da una festa all'altra, da una bacheca a un'altra bacheca, che però sono spazi dove c'è un unico padrone di casa, con potere assoluto sui visitatori.
In un universo strutturato per microcosmi domestici, non stupisce dunque che sia tanto diffusa l'antica pratica della proscrizione. Bannandoti, facendo di te, letteralmente, un "bandito", io non faccio altro che ribadire il fatto che questa è una festa privata, per quanti imbucati ci siano in giro a trascinarsi da un salotto all'altro, con il bicchiere di Martini sempre colmo. .
Bene insomma ha fatto quello scrittore a ricordarmi che è casa sua, bene fa chiunque a fare selezione all'ingresso come in certe discoteche con il suffisso "vip", bene tutto. Con forse solo una domanda residua, da sussurrare mentre si chiude la porta e ci si mette un bel cartello sopra: "Raus!"
Prima di questa distesa di villette sigillate, ed è la domanda, prima, non dopo, esiste ancora un mondo, un "mundus" mondato dalla monnezza che ciascuno deposita davanti a casa propria, per quanto ben differenziata in sacchettini gialli, neri, blu?
Un mondo in cui fare mondo, sistema, parola pubblica, senza che il Gianfranco Fini di turno debba alzarsi e dire: "Che fai, mi cacci?"
33) Ah, per la cronaca: quello scrittore romano più bravo che
famoso, quello di cui ho scritto, sì, quello che imbastisce dei gustosi
siparietti sarcastici che si chiudono, immancabilmente, con la clausola
"sticazzi", e a cui io suggerivo di provare a sostituirla con la
domanda "perché?", proprio quello lì. Ecco, mi ha bannato. Subito
dopo il mio intervento. Per via del mio intervento.
O con maggior probabilità, mi ha bannato "a prescindere", seguendo un impulso vitale che ancora una volta Facebook ha saputo riprodurre: tagliare, sfrondare, fare posto al nuovo e al lieto, mantenendo nello zaino solo ciò che non pesa e fa paesaggio. Ed è questo, più che il dato personale, a suscitarmi un poco di tristezza.
Pensavamo infatti che la tecnologia avrebbe trasformato le nostre esistenze in qualcosa di diverso, non dico migliore, ma diverso. E invece siamo ancora qui, siamo sempre noi. Come in quell'altra contagiosa novità: il selfie.
Ma forse è solo perché è più facile e non produce attrito: mettersi in posa di fronte a uno stagno che gracchia compiacente, su cui simbolizzare l'ovvio con le dita - i pollicioni alzati come abaco su cui infilzare il consenso, le perorazioni virtuose, gli emoticon col bacetto e le numerose manfrine -, seguendo logiche che ricordano il fare branco delle medie, magari anche i primi anni del liceo, vah.
E però peccato, perché continuo a pensare che fosse uno scrittore proprio bravo, per quanto il mezzo tecnologico non faccia buon servizio al suo talento. Se vi va, leggete piuttosto i suoi racconti, appena usciti per l'editore Melville. Dimenticavo: si chiama Andrea Carraro.
O con maggior probabilità, mi ha bannato "a prescindere", seguendo un impulso vitale che ancora una volta Facebook ha saputo riprodurre: tagliare, sfrondare, fare posto al nuovo e al lieto, mantenendo nello zaino solo ciò che non pesa e fa paesaggio. Ed è questo, più che il dato personale, a suscitarmi un poco di tristezza.
Pensavamo infatti che la tecnologia avrebbe trasformato le nostre esistenze in qualcosa di diverso, non dico migliore, ma diverso. E invece siamo ancora qui, siamo sempre noi. Come in quell'altra contagiosa novità: il selfie.
Ma forse è solo perché è più facile e non produce attrito: mettersi in posa di fronte a uno stagno che gracchia compiacente, su cui simbolizzare l'ovvio con le dita - i pollicioni alzati come abaco su cui infilzare il consenso, le perorazioni virtuose, gli emoticon col bacetto e le numerose manfrine -, seguendo logiche che ricordano il fare branco delle medie, magari anche i primi anni del liceo, vah.
E però peccato, perché continuo a pensare che fosse uno scrittore proprio bravo, per quanto il mezzo tecnologico non faccia buon servizio al suo talento. Se vi va, leggete piuttosto i suoi racconti, appena usciti per l'editore Melville. Dimenticavo: si chiama Andrea Carraro.
34) Leggo, sento, in giro, che ha perso la sinistra. Oppure
leggo, sento, mi dicono, che invece no, non è la sinistra ad avere perso. Non
so, a me in questo momento viene in mente solo una vecchia canzone di Vinicio
Capossela, che così cantava: "ma non si può perdere \ quello che mai in
fondo si è tenuto \ non si può perder niente \ se niente si è mai avuto… "
(Come a dire che la sinistra dovrebbe prima esistere, per poter perdere.)
35) Su Facebook sono in contatto con diversi scrittori. Anch'io
lo sono, in fondo, me lo ripeto, anche se da dieci anni sono entrato in una
specie crepuscolo appiccicoso: di vita, di scrittura.
Uno di questi scrittori con cui sono in contatto è romano, più bravo che famoso, purtroppo, e su Facebook ha un'attività compulsiva, riversando sulla propria bacheca parole, link musicali, citazioni che si depositano sulla pagina digitale come una pioggerella leggera, attirando numerosi e meritati consensi.
La ragione del suo successo su internet credo sia da attribuire allo stile veloce ed evocativo, oltre ai contenuti perlopiù ironici, se non sarcastici, che prendono la forma di brevi dialoghi immaginari. Due battute secche, perlopiù: A dice, B risponde.
Nel primo virgolettato ha preso l'abitudine di inserire una frase di uso comune: pensieri banalotti, meglio se pretenziosi e dall'intonazione alta e stucchevole. Ci sarebbero infiniti esempi da fare, già che la banalità, come la stupidità, è una madre sempre gravida. Non cambia invece la risposta, nella forma della seguente clausola: "Sticazzi."
Confesso che questa strategia narrativa mi faceva molto ridere, almeno all'inizio, e ciò confermava la mia stima verso lo scrittore romano non troppo famoso, purtroppo. Il motto romanesco ha infatti il potere contrastivo di far risaltare l'ovvietà, riconducendo al suolo ogni goffo slancio verso i cieli del sublime.
Il guaio, mi sono accorto continuando a leggere i suoi arguti interventi, è che questo effetto zavorrante lo esercita su ogni cosa, alla maniera di una formula magica o dell'ammaestratore che insegni al cane: "Zampetta!"
E il cockerino poi te la dà, sempre, la zampetta, anche se in quel momento volevi solo salutare il commendator Zametta. Non ci credete?
"Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura."
"Sticazzi."
Sì, è possibile vanificare anche le vette liriche di Dante: abbassandolo, irridendolo, riconducendolo infine a un compiaciuto e vagamente stolido buon senso, che viene fatto risalire al disincantato cinismo della plebe romana: uomini bassi e larghi che si leccano l'unto della paiada dalle dita, mentre conversano distrattamente di qualsiasi argomento.
Quando mi sono accorto di questo implacabile dispositivo retorico al ribasso, anche gli interventi del bravo scrittore romano hanno però iniziato a piacermi meno: in fondo è troppo facile mandare tutto ma davvero tutto in vacca.
Quante persone conoscete, dai, che per ogni vostro slancio magari un poco ingenuo hanno pronta una frasetta analoga, basta un sorriso con la bocca storta per ricondurvi all'ordine, con l'implacabile sottotesto: siamo una specie senza ali, scendi a terra pure tu.
Normalizzazione, viene chiamata ora, ma è sempre il buon vecchio sticazzi sotto mentite spoglie.
Così ho iniziato a pensare a delle contromisure linguistiche: "per salvare la meraviglia nel mondo", mi sono detto. "Sticazzi" ha ribattuto una vocina dentro la mia testa.
Ma dagli e dagli, a furia di pensare, mi è venuta in mente una parolina altrettanto magica, che però mette le ali pensiero: perché?
Si, perché, col punto interrogativo al termine. E anche in questo caso, basta provare:
"Nel mezzo del cammin…"
"Perché?"
Ma invece di riderci sopra, stavolta la Commedia te la devi leggere tutta: per capire come va a finire, scoprire le ragioni occulte del dire e dell'agire umano. O per il semplice fatto che è bellissima!
Il perché? infatti apre, dischiude, spalanca dubbi come finestre. Ed è l'intravedere, più che il vedere, a muovere il passo e avviare il cammino, e chi se ne frega se il paesaggio sullo sfondo è da cartolina illustrata o da periferia suburbana. Importante e che al prossimo passo ti troverai da un'altra parte.
E poi, perché?, la più semplice e umile delle domande, funziona per qualsiasi cosa, anche per le frasi banalotte che lo sticazzi smascherava.
Ma in questo caso non vengono scimmiottate, non ce n'è bisogno, e neppure di un piedestallo da cui far sentire l'altro più piccolo e maldestro. La frase iniziale viene al contrario sospesa, o meglio ancora stesa come panni "sull'abisso", almeno quel tanto che basta al sole per prosciugarle da ogni ovvietà, quel grande mare di frasi fatte e pensieri già masticati che ogni giorno ci piovono addosso da chissà dove.
Se avete un po' di dimestichezza con la filosofia, potete anche chiamarla "maieutica".
E così quando una persona a cui tenete vi racconta, magari con slancio, partecipazione commossa, una mezza fesseria, non umiliatela con uno sticazzi, ma chiedetegli semplicemente perché.
Uno di questi scrittori con cui sono in contatto è romano, più bravo che famoso, purtroppo, e su Facebook ha un'attività compulsiva, riversando sulla propria bacheca parole, link musicali, citazioni che si depositano sulla pagina digitale come una pioggerella leggera, attirando numerosi e meritati consensi.
La ragione del suo successo su internet credo sia da attribuire allo stile veloce ed evocativo, oltre ai contenuti perlopiù ironici, se non sarcastici, che prendono la forma di brevi dialoghi immaginari. Due battute secche, perlopiù: A dice, B risponde.
Nel primo virgolettato ha preso l'abitudine di inserire una frase di uso comune: pensieri banalotti, meglio se pretenziosi e dall'intonazione alta e stucchevole. Ci sarebbero infiniti esempi da fare, già che la banalità, come la stupidità, è una madre sempre gravida. Non cambia invece la risposta, nella forma della seguente clausola: "Sticazzi."
Confesso che questa strategia narrativa mi faceva molto ridere, almeno all'inizio, e ciò confermava la mia stima verso lo scrittore romano non troppo famoso, purtroppo. Il motto romanesco ha infatti il potere contrastivo di far risaltare l'ovvietà, riconducendo al suolo ogni goffo slancio verso i cieli del sublime.
Il guaio, mi sono accorto continuando a leggere i suoi arguti interventi, è che questo effetto zavorrante lo esercita su ogni cosa, alla maniera di una formula magica o dell'ammaestratore che insegni al cane: "Zampetta!"
E il cockerino poi te la dà, sempre, la zampetta, anche se in quel momento volevi solo salutare il commendator Zametta. Non ci credete?
"Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura."
"Sticazzi."
Sì, è possibile vanificare anche le vette liriche di Dante: abbassandolo, irridendolo, riconducendolo infine a un compiaciuto e vagamente stolido buon senso, che viene fatto risalire al disincantato cinismo della plebe romana: uomini bassi e larghi che si leccano l'unto della paiada dalle dita, mentre conversano distrattamente di qualsiasi argomento.
Quando mi sono accorto di questo implacabile dispositivo retorico al ribasso, anche gli interventi del bravo scrittore romano hanno però iniziato a piacermi meno: in fondo è troppo facile mandare tutto ma davvero tutto in vacca.
Quante persone conoscete, dai, che per ogni vostro slancio magari un poco ingenuo hanno pronta una frasetta analoga, basta un sorriso con la bocca storta per ricondurvi all'ordine, con l'implacabile sottotesto: siamo una specie senza ali, scendi a terra pure tu.
Normalizzazione, viene chiamata ora, ma è sempre il buon vecchio sticazzi sotto mentite spoglie.
Così ho iniziato a pensare a delle contromisure linguistiche: "per salvare la meraviglia nel mondo", mi sono detto. "Sticazzi" ha ribattuto una vocina dentro la mia testa.
Ma dagli e dagli, a furia di pensare, mi è venuta in mente una parolina altrettanto magica, che però mette le ali pensiero: perché?
Si, perché, col punto interrogativo al termine. E anche in questo caso, basta provare:
"Nel mezzo del cammin…"
"Perché?"
Ma invece di riderci sopra, stavolta la Commedia te la devi leggere tutta: per capire come va a finire, scoprire le ragioni occulte del dire e dell'agire umano. O per il semplice fatto che è bellissima!
Il perché? infatti apre, dischiude, spalanca dubbi come finestre. Ed è l'intravedere, più che il vedere, a muovere il passo e avviare il cammino, e chi se ne frega se il paesaggio sullo sfondo è da cartolina illustrata o da periferia suburbana. Importante e che al prossimo passo ti troverai da un'altra parte.
E poi, perché?, la più semplice e umile delle domande, funziona per qualsiasi cosa, anche per le frasi banalotte che lo sticazzi smascherava.
Ma in questo caso non vengono scimmiottate, non ce n'è bisogno, e neppure di un piedestallo da cui far sentire l'altro più piccolo e maldestro. La frase iniziale viene al contrario sospesa, o meglio ancora stesa come panni "sull'abisso", almeno quel tanto che basta al sole per prosciugarle da ogni ovvietà, quel grande mare di frasi fatte e pensieri già masticati che ogni giorno ci piovono addosso da chissà dove.
Se avete un po' di dimestichezza con la filosofia, potete anche chiamarla "maieutica".
E così quando una persona a cui tenete vi racconta, magari con slancio, partecipazione commossa, una mezza fesseria, non umiliatela con uno sticazzi, ma chiedetegli semplicemente perché.
36) Non me l'aspettavo: la quantità di persone, qui e altrove,
perfino dall'emblematico salumiere, che ti comunicano la loro intenzione di
voto, o anche solo il fatto che andranno o sono già andate a votare. Per una
materia così sdrucciolosamente tecnica, è sorprendente. Ma forse è proprio
questo elemento politico, che discende dalla polis, e però non partitico,
conflittuale, a generare coinvolgimento, e il piacere nel comunicare. In fondo
è talmente incerta e sfumata la contrapposizione,
che l'altro, a cui ti confidi, non può essere un potenziale nemico, o peggio
una spia. Potremmo interpretarlo come un segno forte di appartenenza civile -
riconoscersi in una comunità viva e pulsante, nel volto collettivo di un
"noi" -, e salutare con riconoscenza questo momento di raggiunta pace
sociale. Eppure, mi accorgo che il motivo per cui io non voterò è forse il
medesimo, ma con una differente ombreggiatura. Mi sembra infatti che questa
raggiunta concordia, quasi un irenismo natalizio con Bianco Natal in sottofondo
- i militari che intanto sospendono le ostilità, ed escono dalle trincee per
abbracciarsi - nasconda una specie di trucco, di inganno, o comunque un vizio
del pensiero. Insomma, fatevi pure la Costituzione che volete: ma non ditemi
che sono amico vostro, della maggior parte di voi, almeno. Perché se sento come
parlate, vedo come vestite e le automobili che portate a lavare il sabato
pomeriggio, le facce dei vostri figli mentre chiedono i soldi per il giro
serale dei chupiti, mi accorgo di stare da un'altra parte. No, non un altro
partito: un altro mondo, proprio.
E' successo anche di recente con Andrea Scanzi, che questo retropensiero l'ha addirittura scritto, innescando una polemica più noiosa che pungente.
Il tema è dunque e come sempre: l'aspetto fisico quale unico elemento di legittimazione sociale in una donna. A meno che, attenzione, non sia essa stessa a rinunciarvi - mi riferisco a tutte quelle donne, come Rosy Bindi, per intenderci, che più che essere brutte hanno intenzionalmente svuotato il loro aspetto pubblico di ogni connotazione sensuale, offrendosi come puro pensiero disincarnato.
Ma la Murgia si sottrae a questa dicotomia vagamente ricattatoria, fieramente indisponibile - ricordiamoci che è sarda… - a essere solo una testa pensante. Rivendica quindi una cura, persino una grazia femminile a tratti quasi leziosa, "fru fru", al suo corpo non proprio avvenente. Ed è questo che spiazza, fa imbestialire i maschi oggetto dei suoi (frequenti) disappunti letterari.
Io però credo non sia solo per orgoglio ferito, ma perché, a questo modo, tutti noi ci ritroviamo come dislocati rispetto alla mappa del femminile che ci eravamo costruiti, e ci aggrappiamo alle uniche coordinate geografiche acquisite già da bambini: o sei intelligente, oppure figa. Tertium non datur.
38) Oggi, dentro un Bacio Perugina, ho letto che l'amore è… Purtroppo il bigliettino era sporco di cioccolato, si leggeva solo fino a questo punto. E nel tentativo di ripulirlo si è rotto. Così ho preso un altro Bacio: il segreto degli amanti… Ma un colpo di vento, inusuale per Milano, a dicembre poi, si è portato via tutto. Al terzo tentativo ce l'ho finalmente fatta, trovando la seguente frase in caratteri azzurrini: troppo cioccolato fa salire la glicemia, smettila! Così per salvaguardare la salute, non saprò mai il segreto dell'amore.
39) Fidel, terza parte. Un'obiezione, giusta, al comunismo (nella sua versione cubana e non), è che c'è qualcosa di mortificante nel fatto che un medico guadagni poco più di un calzolaio. Ciò che questo ragionamento tace è che un medico, nell'Occidente democratico e liberale, guadagna dieci volte quanto guadagna un calzolaio con i soldi del calzolaio.
Intendo dire, quando un calzolaio ha un problema di salute la parcella che il medico da cui si rivolge gli presenta è da medico - cento, duecento, a me l'ultimo oculista ha richiesto trecento euro -, non da calzolaio. Mentre se il medico si fa risuolare le scarpe è a prezzi da calzolaio - dieci, quindici, a me l'ultimo calzolaio ha richiesto addirittura venti euro! -, non da medico. E per quanto gli studi e le competenze siano diverse, questo schema porta, alla lunga, a un mondo diviso tra medici e calzolai, medici che crescono e si sviluppano ipertroficamente sulle spalle di calzolai.
Così, a meno che un medico sposi un calzolaio, anche i figli dei medici saranno divisi dai figli dei calzolai, perfino nel caso (remoto) in cui diventino anch'essi medici e si comprino un bel paio di scarpe inglesi coi buchini.
Ecco, tutto ciò, con i limiti già osservati, a Cuba non succede. Medici e calzolai sono prima di tutto persone, persone integrate in un sistema vivo, una comunità. Non funzioni economiche.
40) Fidel, seconda parte. Fidel Castro non era "buono", o almeno non lo era per come siamo abituati a trattare il concetto mutuandolo da una lunga tradizione filosofico-teologica: uno slancio disinteressato e generico verso un'idea di Bene altrettanto generica, impersonale. Fidel Castro era al contrario molto "interessato", perseguendo gli interessi (particolarissimi) di un gruppo di persone che non era però ristretto, ma coincideva con il popolo cubano.
Nell'eterno conflitto tra uguaglianza e libertà, il Lìder Màximo aveva dunque sposato con slancio il primo attributo, a danno del secondo. Tecnicamente si chiama dittatura, e la dottrina comunista (dimenticavo, Fidel Castro era comunista, se a qualcuno fosse sfuggito…) non ha mai negato tale aspetto: la dittatura, almeno iniziale, del proletariato sulle élite economiche borghesi.
Ammesso questo innegabile dato, a me pare però che rimanga aperta la questione decisiva, sotto forma di domanda. E cioè: la dittatura castrista ha raggiunto il suo proprio obbiettivo dichiarato (realizzare l'uguaglianza e l'interesse economico del popolo cubano), oppure, nel corso del tempo, si è pervertita verso interessi personali?
Per quel che mi riguarda, non credo alla seconda ipotesi, e tantomeno vedo ragioni per giubilare alla sua morte. Perché alla fine c'è una differenza tra limitare le libertà per il proprio tornaconto, o nella speranza, certamente ingenua e a volte feroce, di salvaguardare i diritti dei più deboli.
41) Fidel, prima parte. Il più grande errore della Sinistra
italiana, penso, prima di addormentarmi, è aver trasformato un'istanza economica
in un generico e sempre più stinto afflato etico. Da questo equivoco
concettuale, era quasi meccanico - un piano inclinato - arrivare al
cattocomunismo e al governo Renzi, figli del medesimo travisamento: sostituire
il vitale e sacrosanto egoismo di una classe sociale (il
"Lumpenproletariat") in lotta con l'egoismo speculare, ma egemone, di
un'altra classe (la borghesia), in prebenda cattolica che lascia il quadro
immutato, limitandosi a dargli una raddrizzatina. Ecco, se c'è allora una cosa
che non si può imputare a Fidel Castro, è aver confuso l'arte con la vita.
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