1) Nei giorni scorsi ho scritto che mi sarei preso un
annetto senza pubblicare interventi su Facebook, dopo avere fatto lo stesso con
il blog. Sono arrivati molti commenti, attestati di stima, solidarietà. La cosa
mi ha fatto piacere, ma confesso anche un po’ stupito. In fondo stavo
comunicando una cosa di quieto e assoluto buon senso, anche nella professione
universitaria esistono gli anni sabbatici: mica stavo andando nella Legione
straniera, dico, o vendendo un rene per nutrire i miei cuccioli!
Faccio dunque un’infrazione al mio proposito per spiegare a tutti quelli che mi hanno scritto, e che ancora ringrazio, le ragioni della mia scelta. Ma è forse più chiaro se lo faccio con un esempio, preso proprio da qui.
Ieri sulla bacheca di uno scrittore toscano che sta tra i miei contatti – immagino sia anche bravo, ma non so quasi nulla di lui, se non appunto che vive a Pisa – era presente la foto di due ragazzi, stavano seduti in un luogo che ricorda un commissariato di polizia. Più in basso una didascalia: “Eravamo davvero molto ubriachi. Amiamo il popolo tailandese e la cultura tailandese ma non conoscevamo questa legge.”
Il riferimento è dunque ai due italiani che, nei giorni scorsi, hanno rubato una bandiera thailandese, gesto per il quale sono stati arrestati e ora rischiano davvero grosso. L’immagine proveniva invece dal Corriere della Sera, ma di questo non sono certo. Subito dopo uno dei contatti dello scrittore pisano ha scritto tra i commenti: “THAILANDESE CON LA H!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!”
In seguito a una breve scorsa su Google, sono intervenuto a mia volta per far notare che non c’è alcun errore. Secondo i principali dizionari italiani sono consentite le due forme: tailandese oppure thailandese; secondo il Devoto Oli è addirittura preferibile la prima. Tale propensione credo dipenda da una nota regola linguistica, che ammette, e un tempo promuoveva, l’italianizzazione dei nomi di località straniere, con relativa aggettivazione. Da qui il fatto che si scriva ungherese, non hungherese, e così giapponese, inglese etc.
La stessa persona che era inizialmente intervenuta per stigmatizzare l’errore, ribatte subito che no, non c’è discussione: il termine tai fa riferimento a un’area geografica e culturale ben più ampia di quella dell’attuale Thailandia, è un errore. Punto.
Si scoprirà poi che l'intervento è suffragato da una conoscenza accurata dei luoghi di cui si parla. L'uomo, una cinquantina d'anni, faccia simpatica e sorridente, vive infatti lì, ed è dunque e per così dire "persona informata sui fatti'. Ma va aggiunto che ciò non lo rende automaticamente esperto anche delle regole d’uso della lingua italiana (come per altro si può sospettare dal numero di punti esclamativi inseriti…).
Ammetto in ogni caso di scoprire solo ora ciò che mi dice, e la trovo un’informazione interessante. Ciò assimila infatti il caso a quanto avviene per gli Stati Uniti, i cui abitanti vengono spesso chiamati americani; termine che come noto qualifica l’intero continente, non la sottoparte occupata dai cinquanta stati della confederazione. È quindi un errore concreto, un’iperbole geografica o se vogliamo essere ancora più precisi una metonimia (una generica attinenza di senso tra campi comunque distinti) che è speculare alla confusione tra thai e tai. Il tutto per la parte, in sintesi.
Da ciò se ne ricava – ed è proprio ciò che tento di argomentare, molto pacatamente, quasi pedantemente tra i commenti al post dello scrittore pisano - che le lingue, muovendosi sia nel tempo sia nello spazio, sono soggette a mutazioni che rispondono a generali e incerti principi di associazione semantica, a far sì che quelli che sono inizialmente degli errori veri e propri (indiano per nativo americano) o delle imprecisioni lessicali (americano per statunitense) finiscano con l’essere accettati nell’uso comune, e quindi ratificati dalle istituzioni linguistiche nazionali; tra cui spiccano i dizionari, di cui ricordo ancora l’unanimità di consenso nel considerare legittimo il termine tailandese.
Interviene a quel punto lo scrittore pisano, a dar man forte al suo conoscente e torto a me. Se (tutti) i dizionari scrivono così, in soldoni il suo pensiero, (tutti) i dizionari sbagliano e andrebbero emendati. Non servono i miei successivi tentativi di riconoscere le ragioni culturali, storiche e geografiche a preferenza del termine thailandese, con la acca e come sostiene l'amico più competente, specie in contesti linguistici molto tecnici; un saggio di geografia economica, ad esempio. Ma ribadisco che un gruppo ristretto di persone, una congrega potremmo dire, non può stabilire delle verità comuni come quelle del linguaggio.
Ne consegue che se i dizionari scrivono che un termine è amesso, e per quanto possa avere un' origine un po' strampalata, grossolana se non addirittura scorretta, questo termine diventa "vero". I dizionari rappresentano infatti la forma pubblica del mondo, quando si rispecchi nelle parole, e ciò conferisce alle verità della lingua una fondazione unicamente storica, talvolta convenzionale e sempre fluida: comunque mai oggettiva. Non mi sembra complicato, no?
Il mio zelo veritativo (la mia ingenuità, dai, diciamocelo) porta quindi la comunità degli amici dello scrittore pisano, oltre che lo scrittore stesso, a burlarsi sbrigativamente di me. A quel punto, seppur tardivamente, capisco l’aria che tira, cancello i miei precedenti interventi al suo post e bon, chi si è visto si è visto.
Quel che mi preme ora aggiungere è però lo schema generale della circostanza, non la circostanza stessa. Su Facebook è infatti divenuto abituale, potremmo parlare anche in questo caso di “legge linguistica”, il fatto che un gruppo ristretto di persone produca affermazioni per affinità emotiva e non per la forza dei propri argomenti, da accordare a pensieri, concetti ed esperienze più estesi e verificati del perimetro plaudente degli omologhi. In altre parole Facebook rappresenta il compiuto ribaltamento del celebre motto attribuito ad Aristotele: “Amicus Plato sed magis amica veritas.”
Ma a questo modo la verità sta diventando sul web un correlativo arbitrario dell'amicizia, la verità dell’amico dell’amico dell’amico, che si chiami Platone o Pierino poco importa. E se tu sei percepito come nemico e benché portatore di una verità più generale, per quanto non oggettiva – e che cazzo, i dizionari italiani vorranno pure dire qualcosa! –, no, niente, non conta, sei semplicemente una voce eccentrica a cui fare le pernacchie, come dalla curva di uno stadio.
E guardate che è lo stesso, esattamente lo stesso se invece che di linguaggio parliamo di vaccinazioni, di scie chimiche, casta politica, complotti vari ed eventuali. La verità non è quella riconosciuta da ciò che nel mondo fa resistenza e attrito alla volontà personale, non quel grumo che recalcitra l’opinione e che i greci chiamavano “epistème”, in ferma opposizione alla mutevolezza umorale della “doxa”. Piuttosto il riconoscimento celebrativo del proprio clan, ossia l'unica verità al tempo di Facebook: la parte che si autoincorona tutto, una sineddoche che, al contrario di quanto avvenuto con il termine tailandese, non vuole altra totalità che se stessa. Il resto non esiste o peggio è minaccioso.
Per questo e non solo per questo ho deciso di allontanarmi per un po' da qui. A maggior ragione, da tifoso del Livorno quale sono, lontano anche da tutto ciò che odora di ultras del Pisa… ;-)
Faccio dunque un’infrazione al mio proposito per spiegare a tutti quelli che mi hanno scritto, e che ancora ringrazio, le ragioni della mia scelta. Ma è forse più chiaro se lo faccio con un esempio, preso proprio da qui.
Ieri sulla bacheca di uno scrittore toscano che sta tra i miei contatti – immagino sia anche bravo, ma non so quasi nulla di lui, se non appunto che vive a Pisa – era presente la foto di due ragazzi, stavano seduti in un luogo che ricorda un commissariato di polizia. Più in basso una didascalia: “Eravamo davvero molto ubriachi. Amiamo il popolo tailandese e la cultura tailandese ma non conoscevamo questa legge.”
Il riferimento è dunque ai due italiani che, nei giorni scorsi, hanno rubato una bandiera thailandese, gesto per il quale sono stati arrestati e ora rischiano davvero grosso. L’immagine proveniva invece dal Corriere della Sera, ma di questo non sono certo. Subito dopo uno dei contatti dello scrittore pisano ha scritto tra i commenti: “THAILANDESE CON LA H!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!”
In seguito a una breve scorsa su Google, sono intervenuto a mia volta per far notare che non c’è alcun errore. Secondo i principali dizionari italiani sono consentite le due forme: tailandese oppure thailandese; secondo il Devoto Oli è addirittura preferibile la prima. Tale propensione credo dipenda da una nota regola linguistica, che ammette, e un tempo promuoveva, l’italianizzazione dei nomi di località straniere, con relativa aggettivazione. Da qui il fatto che si scriva ungherese, non hungherese, e così giapponese, inglese etc.
La stessa persona che era inizialmente intervenuta per stigmatizzare l’errore, ribatte subito che no, non c’è discussione: il termine tai fa riferimento a un’area geografica e culturale ben più ampia di quella dell’attuale Thailandia, è un errore. Punto.
Si scoprirà poi che l'intervento è suffragato da una conoscenza accurata dei luoghi di cui si parla. L'uomo, una cinquantina d'anni, faccia simpatica e sorridente, vive infatti lì, ed è dunque e per così dire "persona informata sui fatti'. Ma va aggiunto che ciò non lo rende automaticamente esperto anche delle regole d’uso della lingua italiana (come per altro si può sospettare dal numero di punti esclamativi inseriti…).
Ammetto in ogni caso di scoprire solo ora ciò che mi dice, e la trovo un’informazione interessante. Ciò assimila infatti il caso a quanto avviene per gli Stati Uniti, i cui abitanti vengono spesso chiamati americani; termine che come noto qualifica l’intero continente, non la sottoparte occupata dai cinquanta stati della confederazione. È quindi un errore concreto, un’iperbole geografica o se vogliamo essere ancora più precisi una metonimia (una generica attinenza di senso tra campi comunque distinti) che è speculare alla confusione tra thai e tai. Il tutto per la parte, in sintesi.
Da ciò se ne ricava – ed è proprio ciò che tento di argomentare, molto pacatamente, quasi pedantemente tra i commenti al post dello scrittore pisano - che le lingue, muovendosi sia nel tempo sia nello spazio, sono soggette a mutazioni che rispondono a generali e incerti principi di associazione semantica, a far sì che quelli che sono inizialmente degli errori veri e propri (indiano per nativo americano) o delle imprecisioni lessicali (americano per statunitense) finiscano con l’essere accettati nell’uso comune, e quindi ratificati dalle istituzioni linguistiche nazionali; tra cui spiccano i dizionari, di cui ricordo ancora l’unanimità di consenso nel considerare legittimo il termine tailandese.
Interviene a quel punto lo scrittore pisano, a dar man forte al suo conoscente e torto a me. Se (tutti) i dizionari scrivono così, in soldoni il suo pensiero, (tutti) i dizionari sbagliano e andrebbero emendati. Non servono i miei successivi tentativi di riconoscere le ragioni culturali, storiche e geografiche a preferenza del termine thailandese, con la acca e come sostiene l'amico più competente, specie in contesti linguistici molto tecnici; un saggio di geografia economica, ad esempio. Ma ribadisco che un gruppo ristretto di persone, una congrega potremmo dire, non può stabilire delle verità comuni come quelle del linguaggio.
Ne consegue che se i dizionari scrivono che un termine è amesso, e per quanto possa avere un' origine un po' strampalata, grossolana se non addirittura scorretta, questo termine diventa "vero". I dizionari rappresentano infatti la forma pubblica del mondo, quando si rispecchi nelle parole, e ciò conferisce alle verità della lingua una fondazione unicamente storica, talvolta convenzionale e sempre fluida: comunque mai oggettiva. Non mi sembra complicato, no?
Il mio zelo veritativo (la mia ingenuità, dai, diciamocelo) porta quindi la comunità degli amici dello scrittore pisano, oltre che lo scrittore stesso, a burlarsi sbrigativamente di me. A quel punto, seppur tardivamente, capisco l’aria che tira, cancello i miei precedenti interventi al suo post e bon, chi si è visto si è visto.
Quel che mi preme ora aggiungere è però lo schema generale della circostanza, non la circostanza stessa. Su Facebook è infatti divenuto abituale, potremmo parlare anche in questo caso di “legge linguistica”, il fatto che un gruppo ristretto di persone produca affermazioni per affinità emotiva e non per la forza dei propri argomenti, da accordare a pensieri, concetti ed esperienze più estesi e verificati del perimetro plaudente degli omologhi. In altre parole Facebook rappresenta il compiuto ribaltamento del celebre motto attribuito ad Aristotele: “Amicus Plato sed magis amica veritas.”
Ma a questo modo la verità sta diventando sul web un correlativo arbitrario dell'amicizia, la verità dell’amico dell’amico dell’amico, che si chiami Platone o Pierino poco importa. E se tu sei percepito come nemico e benché portatore di una verità più generale, per quanto non oggettiva – e che cazzo, i dizionari italiani vorranno pure dire qualcosa! –, no, niente, non conta, sei semplicemente una voce eccentrica a cui fare le pernacchie, come dalla curva di uno stadio.
E guardate che è lo stesso, esattamente lo stesso se invece che di linguaggio parliamo di vaccinazioni, di scie chimiche, casta politica, complotti vari ed eventuali. La verità non è quella riconosciuta da ciò che nel mondo fa resistenza e attrito alla volontà personale, non quel grumo che recalcitra l’opinione e che i greci chiamavano “epistème”, in ferma opposizione alla mutevolezza umorale della “doxa”. Piuttosto il riconoscimento celebrativo del proprio clan, ossia l'unica verità al tempo di Facebook: la parte che si autoincorona tutto, una sineddoche che, al contrario di quanto avvenuto con il termine tailandese, non vuole altra totalità che se stessa. Il resto non esiste o peggio è minaccioso.
Per questo e non solo per questo ho deciso di allontanarmi per un po' da qui. A maggior ragione, da tifoso del Livorno quale sono, lontano anche da tutto ciò che odora di ultras del Pisa… ;-)
2) Guardando vecchie fotografie in bianco e nero
trovate in un cassetto della credenza nel soggiorno. Probabilmente sono state
realizzate da mio padre, oppure da mio zio, lo zio Franco, autoproclamato
fotografo di famiglia ci ronzava attorno con la sua Nikon impicciona al termine
di matrimoni, battesimi, funerali e un po' dovunque. Al punto che a me e mia
cugina era venuto un sospetto: saremo mica una famiglia reale, che ci
fotografano sempre?
Nel cassetto c'è un intero rullino su un gruppo di vedove: forse siamo in Puglia, una remota vacanza in roulotte sul Gargano… Certamente al sud. Le vedove, saranno quattro o cinque - ma non tutte sono presenti in ogni scatto - siedono su un muretto basso e bianco, la stessa assenza di colore delle pareti gessose delle case attorno, dentro una luce chiara e afosa, da meriggio estivo. Staglia così il nero nerissimo delle vesti abbottonate, la testa è coperta da un velo, come si conviene al loro stato, ma l'espressione è generalmente distesa, quasi festosa nella grazia di un filo d'ombra proiettata da un alberello che sorge sparuto dai lastroni del selciato. Non so se fingano di non accorgersi del fotografo, ma, nel caso, lo fanno molto bene, ricordando il ruminare incurante delle giraffe tra gli umani che affollano lo zoo.
La cosa che più sorprende ma allo stesso tempo trasmette una sensazione rassicurante, tra la rocciosa fermezza del mito e la pigrizia dello stereotipo, è la naturalezza gravida di senso delle immagini. Come se la condizione di vedovanza, da sola, senza ulteriori riempitivi, fosse sufficiente a saturare il vuoto tragico di cui ci parla, in un risultato che è dolcemente paradossale.
Quelle donne raggiungono infatti il loro compimento sociale proprio nel momento della perdita più importante per una donna, tanto che l'avere avuto un tempo dei mariti diventa ora irrilevante, se non addirittura ornamentale. Il lutto le ha quindi dotate di una funzione (testimoniare il passato assieme al proprio uomo), ma la funzione ha saputo rendersi autonoma in un gesto che è divenuto estetico, imponendosi sullo sguardo nella sua lieta inutilità. Stare lì a rappresentare il semplice stare, malgrado tutto, malgrado ciò che di loro non c'è più, in questa ostinazione a perdurare senza altra apparente ragione che se stessa. Un cortocircuito, un'assenza che consacra la presenza: esserci per sottrazione, ecco cos'è una vedova.
Ma allora, una vedova contiene lo scandalo di qualsiasi fotografia, non solo di quelle che sto sfogliando con crescente partecipazione: il manifestarsi di una realtà temporale nel momento in cui la realtà stessa è definitivamente perduta, come se la vita, per saldarsi alla coscienza, avesse bisogno di un lieve differimento cronologico. L'aveva intuito e scritto John Berger, lo vedo ora, lo sento tenendo le foto tra le mani, quasi potessi udirne la voce.
Un brusio da un tempo senza tempo, con cui le vedove meridionali ci sussurrano: "Noi siamo il pozzo nero, lo vedi, ci vedi nelle nostre vesti scure e senza più senso alcuno. Eppure, se hai il coraggio di bagnarti nell'acqua più lorda, puoi scoprire un significato, perfino una pace che non coincide col prima, col poi, ma con l'adesso atemporale di questo muricciolo scrostato, che abitiamo raccontandoci storie da poco, storie da nulla. E questo è tutto."
Rimetto le fotografie in una busta gialla che a sua volta infilo nel cassetto della credenza, per richiuderlo con un colpo secco. Però non smetto di pensarci. In un'epoca in cui davvero abbiamo perso fiducia in ogni cosa - fondamento, progetto, direzione -, magari potremmo imparare qualcosa dalle vedove meridionali, oltre che dalle fotografie. Ad accettare quella perdita, ad esempio. E a stare qui, ora, in questo adesso che è un sempre e per quanto abbia il brutto ghigno del mai, stare qui con le nostre storie fatte di niente. E questo è davvero tutto...
Nel cassetto c'è un intero rullino su un gruppo di vedove: forse siamo in Puglia, una remota vacanza in roulotte sul Gargano… Certamente al sud. Le vedove, saranno quattro o cinque - ma non tutte sono presenti in ogni scatto - siedono su un muretto basso e bianco, la stessa assenza di colore delle pareti gessose delle case attorno, dentro una luce chiara e afosa, da meriggio estivo. Staglia così il nero nerissimo delle vesti abbottonate, la testa è coperta da un velo, come si conviene al loro stato, ma l'espressione è generalmente distesa, quasi festosa nella grazia di un filo d'ombra proiettata da un alberello che sorge sparuto dai lastroni del selciato. Non so se fingano di non accorgersi del fotografo, ma, nel caso, lo fanno molto bene, ricordando il ruminare incurante delle giraffe tra gli umani che affollano lo zoo.
La cosa che più sorprende ma allo stesso tempo trasmette una sensazione rassicurante, tra la rocciosa fermezza del mito e la pigrizia dello stereotipo, è la naturalezza gravida di senso delle immagini. Come se la condizione di vedovanza, da sola, senza ulteriori riempitivi, fosse sufficiente a saturare il vuoto tragico di cui ci parla, in un risultato che è dolcemente paradossale.
Quelle donne raggiungono infatti il loro compimento sociale proprio nel momento della perdita più importante per una donna, tanto che l'avere avuto un tempo dei mariti diventa ora irrilevante, se non addirittura ornamentale. Il lutto le ha quindi dotate di una funzione (testimoniare il passato assieme al proprio uomo), ma la funzione ha saputo rendersi autonoma in un gesto che è divenuto estetico, imponendosi sullo sguardo nella sua lieta inutilità. Stare lì a rappresentare il semplice stare, malgrado tutto, malgrado ciò che di loro non c'è più, in questa ostinazione a perdurare senza altra apparente ragione che se stessa. Un cortocircuito, un'assenza che consacra la presenza: esserci per sottrazione, ecco cos'è una vedova.
Ma allora, una vedova contiene lo scandalo di qualsiasi fotografia, non solo di quelle che sto sfogliando con crescente partecipazione: il manifestarsi di una realtà temporale nel momento in cui la realtà stessa è definitivamente perduta, come se la vita, per saldarsi alla coscienza, avesse bisogno di un lieve differimento cronologico. L'aveva intuito e scritto John Berger, lo vedo ora, lo sento tenendo le foto tra le mani, quasi potessi udirne la voce.
Un brusio da un tempo senza tempo, con cui le vedove meridionali ci sussurrano: "Noi siamo il pozzo nero, lo vedi, ci vedi nelle nostre vesti scure e senza più senso alcuno. Eppure, se hai il coraggio di bagnarti nell'acqua più lorda, puoi scoprire un significato, perfino una pace che non coincide col prima, col poi, ma con l'adesso atemporale di questo muricciolo scrostato, che abitiamo raccontandoci storie da poco, storie da nulla. E questo è tutto."
Rimetto le fotografie in una busta gialla che a sua volta infilo nel cassetto della credenza, per richiuderlo con un colpo secco. Però non smetto di pensarci. In un'epoca in cui davvero abbiamo perso fiducia in ogni cosa - fondamento, progetto, direzione -, magari potremmo imparare qualcosa dalle vedove meridionali, oltre che dalle fotografie. Ad accettare quella perdita, ad esempio. E a stare qui, ora, in questo adesso che è un sempre e per quanto abbia il brutto ghigno del mai, stare qui con le nostre storie fatte di niente. E questo è davvero tutto...
3) Understatement, perversissima invenzione. Ti mostro
qualcosa, ad esempio il mio status sociale che si presume elevato, ma per farlo
utilizzo dei simboli attenuati di prestigio - un'automobile costosa ma che
sembra economica e discreta, un abito monacale e castigato, e però di qualche
sarto famoso con l'erre moscia e turgide tariffe senza outlet e sconti di
stagione -, quasi volessi negare ciò che affermo, nascondere la mano che ha
appena lanciato il sasso. Ne ricavo che la figura
totemica dell'erotismo contemporaneo occidentale è proprio l'understatement.
Magari non ancora per la quindicenne procace, la ventenne che appartiene a vitalissime periferie del mondo, ma l'amica che, su Facebook, posta una foto che la ritrae lo fa spesso per via della medesima retorica paradossale, in cui per affermare qualcosa si delinea la sua miniatura, se non addirittura il suo opposto. Sì, understatement.
Ma dal momento che ogni ostensione di sé contiene un sottotesto relazionale che si chiama appunto erotismo (e non corrisponde ovviamente a un'offerta reale, piuttosto al suo simulacro, rappresentazione in un gioco eterno di potere e sangue), per mostrarti quanto sono sexy, quale bocconcino hai la fortuna di conoscere, che faccio, mi rivolgo direttamente ai tuoi sensi, di cui sto cercando l'ipoteca col differimento del mio ghiotto corpo di femmina, che è tutto per te ma anche e sempre tutto mio?
Macchè, se guardo meglio la fotografia dell'amica che pare ammiccarmi, ammiccare proprio a me, sotto il braccio scorgo una copia dei "Paralipomeni della batracomiomachia", al naso gli occhialini che fanno tanto Simone Weil e quel sorrisetto come a dire: "Te la sei bevuta, mica ti crederai veramente che sono una zoccola, che c'ho un corpo vivo e desiderante? Scherzavo, valà, scemo: io sono una festa privata, un verbo intransitivo."
Potremmo dunque guardare all'understatement erotico diffuso sui socialnetwork non solo come a un eufemismo contenitivo, ma addirittura come a una variante del genere farsesco, dove l'adesione al registro sessuale possiede la natura di burla, con la negazione del suo oggetto apparente attraverso la cortocircuitazione di temi elusivi.
Eppure, quanto invece appaiono belle, belle per effetto della assoluta coerenza con i propri gesti le donne senegalesi che fanno la leumbeul, la danza tradizionale wolof. Nessun doppio registro comunicativo, affermazioni negate o scarti ironici postmoderni. E così, quando al culmine dello scatanemento delle carni sollevano il lembo anteriore del vestito e ti mostrano la fica, ti accorgi che stanno facendo proprio quello, non altro, non understatement, ti mostrano la fica.
Magari non ancora per la quindicenne procace, la ventenne che appartiene a vitalissime periferie del mondo, ma l'amica che, su Facebook, posta una foto che la ritrae lo fa spesso per via della medesima retorica paradossale, in cui per affermare qualcosa si delinea la sua miniatura, se non addirittura il suo opposto. Sì, understatement.
Ma dal momento che ogni ostensione di sé contiene un sottotesto relazionale che si chiama appunto erotismo (e non corrisponde ovviamente a un'offerta reale, piuttosto al suo simulacro, rappresentazione in un gioco eterno di potere e sangue), per mostrarti quanto sono sexy, quale bocconcino hai la fortuna di conoscere, che faccio, mi rivolgo direttamente ai tuoi sensi, di cui sto cercando l'ipoteca col differimento del mio ghiotto corpo di femmina, che è tutto per te ma anche e sempre tutto mio?
Macchè, se guardo meglio la fotografia dell'amica che pare ammiccarmi, ammiccare proprio a me, sotto il braccio scorgo una copia dei "Paralipomeni della batracomiomachia", al naso gli occhialini che fanno tanto Simone Weil e quel sorrisetto come a dire: "Te la sei bevuta, mica ti crederai veramente che sono una zoccola, che c'ho un corpo vivo e desiderante? Scherzavo, valà, scemo: io sono una festa privata, un verbo intransitivo."
Potremmo dunque guardare all'understatement erotico diffuso sui socialnetwork non solo come a un eufemismo contenitivo, ma addirittura come a una variante del genere farsesco, dove l'adesione al registro sessuale possiede la natura di burla, con la negazione del suo oggetto apparente attraverso la cortocircuitazione di temi elusivi.
Eppure, quanto invece appaiono belle, belle per effetto della assoluta coerenza con i propri gesti le donne senegalesi che fanno la leumbeul, la danza tradizionale wolof. Nessun doppio registro comunicativo, affermazioni negate o scarti ironici postmoderni. E così, quando al culmine dello scatanemento delle carni sollevano il lembo anteriore del vestito e ti mostrano la fica, ti accorgi che stanno facendo proprio quello, non altro, non understatement, ti mostrano la fica.
4) Flannery O’Connor è stata una scrittrice immensa.
Questo è noto a tutti, a tutti quelli che si interessano di letteratura,
almeno. E’ ricordata per la sua prosa asciutta e visionaria, potente, come se
ogni volta dovesse incidere le tavole di una legge che si sottrae agli uomini,
ma per lo stesso motivo è tanto più necessaria e urgente.
Ma Flannery O’Connor è ricordata anche per la sua salute malandata, che la
portò a morire poco prima dei quarant’anni come conseguenza del morbo di Lupus, ereditato dal padre. A ciò si aggiunga la
passione per i pavoni, e il pensiero corre subito al ventaglio variopinto che
si spalanca nella coda, così distante dall’immagine riservata e schiva che
abbiamo della grande scrittrice americana, pavoni che allevava ad Andalusia, la
fattoria di famiglia a Milledgeville, in Georgia.Un particolare meno conosciuto riguarda un episodio di quando aveva appena sei anni, dunque accaduto nel 1931. Nell’anno in cui Salvador Dalì dipingeva gli orologi molli e a Madrid veniva dichiarata la repubblica, non si sa bene come la bambina riuscì a insegnare a un pollo a camminare all’indietro. Per tale stravagante risultato fu oggetto dell’attenzione della stampa nazionale, che si riversò in massa dentro i cancelli della tenuta di Andalusia - immaginiamoci un vero e proprio assedio di flash, il tintinnare continuo delle Lettera 22 dei cronisti, telefonate, dispacci di agenzia.
Nelle sue memorie, Flannery O’Connor scrive che da lì in poi la sua vita fu tutto un “anticlimax”, non riuscendo più a uguagliare il successo di quella performance giovanile.
Ci pensavo oggi, con il dubbio che non sia un episodio tanto eccentrico e isolato…
Quanti di noi inseguono infatti un talento che non li compiacerà nemmeno di una pacca sulle spalle. Quando invece, magari senza saperlo, avrebbero il mondo ai piedi se solo comprendessero la natura burlona e tragica di questa vita, che ti acclama quando fai una cosa bizzarra e inaspettata, perfino facile, può riuscirci anche una bambina di sei anni. Basta un niente, un pollo, un ribaltamento nell’ordine consueto delle cose.
Ed è forse questo il senso, o meglio il contro-senso di tutta la successiva letteratura di Flannery O’Connor, in cui è messo in scena lo scandalo cristiano del bene che si mostra, si dischiude nella coscienza come la coda di un pavone, per poi negarsi nei fatti. Una vita letteralmente alla rovescia.
A guardar con attenzione, era dunque già tutto lì: nel gesto assurdo di quel povero pollo che cammina all'indietro, su suggerimento di una bambina con lo sguardo vispo sotto occhiali dalla montatura spessa. Bambina che, cresciuta, ha poi ripetuto quel gesto per tutta la sua breve e sfortunata esistenza.
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