Leggendo i resoconti giudiziari dei festini di Berlusconi, mi torna in mente un mio vecchio amico omosessuale. Lui era omosessuale e orgoglioso di esserlo, ma gli altri omosessuali non gli piacevano, non provava desiderio e tantomeno amore verso chiunque gli somigliasse. Ed è così che chiamava froci i gay, il mio amico gay, oppure finocchi checche isteriche busoni, erano questi gli epiteti con cui si esprimeva il mio amico “finocchio”, il mio amico “checca”, il mio amico che se per disavventura avesse incrociato un suo doppio, si sarebbe certo dato del “busone”.
Si era infatti appropriato dell’intero campionario del
disprezzo, mentre la voce, nel porgere gli insulti, si accendeva nella nota
acuta del livore. Eppure, a suo modo, era un romantico. Pigliandosi delle
formidabili sbandate per ragazzi giovanissimi, e ovviamente eterosessuali, che
immancabilmente lo portavano a delle altrettanto ciclopiche delusioni.
O almeno, io Berlusconi me lo immagino a questo modo: uno
che odia le troie, la superficialità emotiva e la disinvoltura sessuale. In altre parole, odia se stesso. Quindi, per sviare lo sguardo dalla propria nudità, è ossessionato da una testarda e adolescienziale fantasia di purezza. Perciò
vorrebbe che tutte le ragazze frequentassero i collegi delle Orsoline, trucco
leggero, mocassini blu e capelli raccolti nella cupola di un casto chignon, con
l’unico vezzo di una catenina d’oro da cui pende lo stemma della propria
associazione di volontariato.
Ma pensiamo ora alla corte dei ruffiani, negli
affollati corridoi delle sue ville, che si danno di gomito e cercano di istruire le ragazze, nel disperato tentativo di evitargli ogni incontro con lo specchio: “Aò, chiuditi quella camicetta, nun farte
sgamà subito, raccontaje che cc’hai tre laure, no, tre so' troppe, due, ma una
l’hai pijata a’la Sorbona…”
Con le poverette che annuiscono, sì sì, correndo subito in
bagno a sbiancarsi le unghie viola, sostituendo il reggiseno leopardato con
biancheria candida al profumo di mughetto. E candida anche l’anima di
Berlusconi, come le lenzuola stese al sole pallido del nord, il cielo è terso e
le nuvole soffici e bianchissime, potremmo essere in un film di Carl Theodor
Dreyer.
Ma le lenzuola, a cinema, si trasformano facilmente in uno
schermo, su cui scorre la pellicola di un’intera generazione, che è poi quella
dei nostri padri. Una generazione plasmata da un'insinuante mitologia,
ragazzetti magri cresciuti a pane e cinematografo, icone sportive e bionde attrici
hollywoodiane, con la colonna sonora di canzonette sincopate e la carriera e il lavoro quale pedigree
distintivo, da appuntarsi al bavero della giacchetta. Tutto questo – sogno
americano lo si chiamava un tempo, ma sciacquato insieme ai panni in Tevere e sui
navigli – Berlusconi ha saputo realizzarlo. E bisogna ammetterlo: è stato il
migliore!
Ha infatti svolto il compitino talmente bene che, come il
mio amico, si è dimenticato di quello che ci stava dietro al lenzuolo, i
cartelloni all’ingresso, l’omino in livrea che strappa i biglietti e controlla
che nessuno lo passi al compagno in attesa sotto la
finestra dei gabinetti, il naso rivolto all'insù. Nemmeno fa più caso, Berlusconi, al fumo denso delle
Muratti, o alla lama di luce che lo perfora partendo stretta e poi dilagando sullo
schermo, era solo un puntino nella feritoia del proiezionista.
Ed è allora per un eccesso di fiducia – sospensione dell'incredulità, la chiamano nei testi di narratologia – che come il mio amico non riconosce il proprio, di sogno, né il suo volto sfatto di vecchio, continuando a vivere la vita che altri (Frank Capra, Gregory Peck, Dean Martin) hanno sognato per lui. Mentre anche la scena pubblica del Paese continua a essere solo un vecchio film.
Un film in cui mi sembra di vedere entrambi – il mio amico
e Berlusconi – nelle inquadrature finali che non appartengono però al film di
prima, è cambiato all’improvviso alla maniera appunto dei sogni. Ora la gente,
siamo su un viale impolverato e afoso, gli grida delle cose brutte – al mio amico
dicono arruso, fru-fru, mentre a Berlusconi danno del comunista, del puzzone e gli chiedono quanto vuoi, come
si fa con le baldracche sotto ai lampioni. I due però non capiscono, continuano a camminare. Palme che
oscillano ai lati. Il rimmel cola dagli occhi. Con il sole che si rapprende,
in fondo alla strada lunga e dritta, simile al sangue di San Gennaro.
E siamo al punto in cui sento una frase, anzi la frase, senza
sapere se sia Berlusconi o il mio amico a pronunciarla, ma la odo
distintamente malgrado sia solamente sussurrata e le note finali incombano,
alcuni spettatori stanno già alzandosi dalle poltroncine. “E’ stato solo per
amore”, dice la frase. Lo dice lui o forse l’altro: “E stato solo per amore”
ripete uno dei due. Solo questo.
E forse non era il rimmel a colare dagli occhi e gocciolare in una pozzanghera, avviando dei piccoli cerchi concentrici. E forse quella
frase, la frase, non l’ho mai davvero sentita, e non avrei voluto vedere questo film. Ma è uno
spettacolo a orario continuato e ora ricomincia, ricomincia, ricomincia…
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