mercoledì 17 aprile 2013
Aramaica, o sulla vita come progetto e come orda
Da un po' di tempo continuo a ricevere mail di persone che non sento da tempo. Non che abbiano qualcosa da dirmi, come per altro io a loro, e però sono come mossi da un'urgenza. Quella di mostrarmi una o più fotografie dei loro figli, appena nati, oppure nipoti, pronipoti, comunque bambini piccolissimi. La cosa non mi turba, anzi. Potrei perfino dire che mi fa piacere, ma non sarei del tutto sincero.
E' successo anche oggi. Mia zia mi ha girato una mail con allegata fotografia di Aramaica, nipote di Gilberto, testimone di nozze dei miei genitori. E' una bimba bellissima, dico subito. Quanto al nome, be', ora non è poi così difficile cambiarlo, e un giorno anche a lei potrà fregiarsi di un più confortevole Maria, Anna, Lucia. O a suo gusto, anche Jennifer o Samantha. Aramaica comunque non c'entra, è pura vita, e ciò su cui mi piacerebbe riflettere non è la vita "in quanto tale" (orrenda espressione, lo so), ma il successivo abito storico e culturale di cui non sempre la si riveste.
Una volta c'era infatti l'idea che la vita fosse qualcosa come un viaggio, all'interno del quale si doveva realizzare un progetto, una missione, o in ogni caso dare sagoma a una propria idea di mondo. Ma oltre alla dimensione epica di tale quest, esiste anche un risvolto quotidiano dello stare attivamente tra le cose, che viene generalmente riassunto nell'aggettivo civile.
Con buona pace di Aramaica, sono dunque andato a ricercare delle pagine in cui questo termine viene messo a tema, non trovando niente di meglio degli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini. L'intervento in cui parla dei "giovani d'oggi", ad esempio. "È giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all’ordine degradante dell’orda." ("Contro i capelli lunghi”, dal Corriere della Sera del 7 gennaio 1973.)
Io sono nato troppo tardi per aver potuto conoscere personalmente Pasolini. Ma anche sorvolando l'aspetto anagrafico, non sono certo che saremmo diventati amici. E però, ecco, pensavo, non me lo vedo Pasolini che mi invia una mail, magari per mostrarmi la foto di sua nipote. Non che non amasse i bambini, oppure la vita di cui aveva una smania quasi religiosa, si è da più parti osservato. Piuttosto la disposizione evangelica del poeta – lasciate che i pargoli vengano a me, e sia detto senza doppi sensi pruriginosi – era sempre filtrata da un'idea di forma.
Una vita senza forma, senza coscienza e intenzione, si presenta infatti nella formazione sparsa dell'orda, che viene giustamente definita quale ordine degradante. Ovvero negazione di ogni dimensione autenticamente civile, presente nei giovani quanto negli anziani, negli illetterati non meno che nei colti. E il "modo orribile di acconciarsi", adesso come allora, sta forse proprio nella "volgare servitù" alle pulsioni informi, alla vita che sa solamente balbettare se stessa.
La semplice vita non è nulla, sembra allora riecheggiare la voce penetrante e lieve di Pasolini, a ribadire il poco compreso (ma coerentissimo) ripudio della sua trilogia cinematografica della vita. Eppure, in qui tre film consecutivi, aveva saputo cantare magnificamente ciò che poi gli apparì come un legno storto. Del tutto inutilte se non siamo in grado di farci qualcosa, anche una piccola cosa, ma in relazione significativa con le infinite piccole cose che sono in grado di fare gli altri: con i loro legnetti, con la loro vita messa finalmente in forma.
Tutto ciò, in termini laici, si chiama appunto civiltà. Mentre in quelli teologici non alieni allo stesso artista, credo sia molto prossimo al concetto di redenzione: "transumanare" la vita in senso, anzi in quel sovrasenso che dalle radici interrate nel vaso del particolare, sappia raggiungere le fronde dischiuse e fiorite nell'universale.
La diffusa e tautologica affermazione della vita a cui assistiamo – vita propria e dei propri cari, con le immagini dei figli come stendardi da conficcare nell'interregno di Facebook – mi sembra dunque possedere qualcosa di collettivamente regressivo, che apre le porte a una nuova e degradante orda. Non vedo insomma molta differenza tra il giovane che passa le ore in palestra per gonfiare i muscoli, per riempirli di vita, e il nonno che subissa i conoscenti con le fotografie zampettanti dei nipoti. Forse dimenticando che anche Hitler, anche Stalin e perfino Andreotti, da cuccioli sono stati pura e magnifica vita.
Non mi basta dunque, caro Gilberto, il sorriso tenero e accattivante della tua piccola Aramaica. Vorrei sapere che cosa saprà farci di quel sorriso, non adesso, ma a suo tempo, che è anche e ancora per poco il tempo nostro. Già che il tempo dell'orda non è il tempo dell'io né tantomeno quello del noi. Quale tempo, dunque? E di quale vita parliamo quando parliamo di vita?
martedì 16 aprile 2013
Il Comandante e il Campione, o sull’abito che non fa il monaco, ma continua a fare il cardinale

Questa è senza dubbio una buona fotografia.
L’autore dello scatto ci prende per mano e conduce per le autostrade affollate del
senso, in cui il paesaggio che vediamo scorrere dal finestrino ci parla di amicizia,
di fama e successo e perfino di gloria; ma su tutto ciò continua a prevalere
il senso ultimo della lealtà: alle persone, ma soprattutto alle idee. E dunque
si parla anche di tempo, ma lo si dice tacendo, come in tutte le buone foto. Del tempo e del
suo declinare.
Una gita turistica che però abbiamo fatto già troppo volte,
conosciamo a menadito il percorso. Passeremmo dunque immediatamente a un nuovo
viaggio se, tra le stradine secondarie, non scorgessimo un dettaglio che fa
correre il nostro sguardo più lontano. Ma come abbiamo fatto a non vederlo
subito!, ci diciamo picchiando con la mano sulla fronte.
Eppure non si tratta di una sola minuscola corsia, sono tre,
ben tre come le strisce in bell'evidenza sulla tuta azzurra del vecchio Comandante. Sì,
Fidel Castro, mentre stringe calorosamente la mano all’amico Campione, indossa
una tuta che appartiene a un celebre brand, di cui le tre linee parallele sono l’inequivocabile segno di
riconoscimento.
E stiamo ovviamente parlando della Adidas, fondata in Baviera da Adolf Dassler, anno 1948, Bartali vince il suo secondo Tour de
France e Truman batte Dewey alle presidenziali americane, mentre la DC si fa lanciare la volata dai parroci di paese e dilaga nel primo parlamento repubblicano con il 49% dei voti, con le piazze che insorgono dopo l'attentato a Togliatti. Troppa carne al fuoco perché il riflettore della storia si accorgesse del lumino acceso dalla
Adidas, a rischiarare le macerie ancora tiepide della guerra.
Ma già da prima le scarpe
dei fratelli Dassler – dopo essersi divisi, Rudolf fondò la Puma – avevano
accompagnato le lunghe falcate di Jesse Owens nelle Olimpiadi di Berlino del
1936. Nonostante le mai celate simpatie naziste di famiglia, l’Adidas ha però sempre
restituito un piacere che potremmo definire orizzontale: la rassicurante
sensazione di quelle tre linee che ci invadono il corpo, come la tessera di un
club dove l’impersonalità dell’abito è la condizione di ciascuno. E però proprio
per questo, ciascuno è anche tutti. La forza di tutti in ciascuno.
In fondo, è la miglior sintesi dell’utopia comunista del
Nuovo Mondo: confondersi tra gli altri, godere della pienezza diffusa e
laica dell’umano, in cui non esistono vertici ma solo gli infinti nodi che
saldando il tessuto, la trama con lo stesso valore dell’ordito. Eppure, se
proseguiamo su quei tre sentieri che accompagnano il corpo stanco e acciaccato
del grande vecchio, approdiamo a uno stemma che non è quello solito della
Adidas, e sopra a cui è scritta una sola parolina di sei lettere: Castro,
leggiamo. Castro come il cognome di chi indossa la divisa della nuova
impersonalità al potere. Come a dire che tutti quelli che vestono Adidas sono
uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri…
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lunedì 15 aprile 2013
H, o sui dilemmi della bellezza

Le persone che indossano quelle scarpe lì, con la suola sintetica alta e l’acca grande di Hotel, di solito indossano anche dei pantaloni affusolati color pastello, ma più spesso aragosta, e polo inglesi su cui campeggia una piccola ghirlanda ricamata e bande ornamentali sul colletto, che loro tengono sollevato come il minimo séparé tra gli orinatoi degli Autogrill, per impedirti di sbirciare a lato e confrontare le dimensioni del tuo membro con quello del camionista slavo che se lo sta scrollando, dopo aver tiepidamente espulso quel che resta di tre Peroni gelate.
Vi torna, l’immagine?
A me capita spesso, dicevo, e ne vengo come schiacciato, non so ancora voi. Un'immagine o forse era un sogno, un incubo in cui io continuo a stare con queste persone modernamente abbigliate: loro parlano a voce alta in un perfetto italiano televisivo, io non riesco a dire niente, apro la bocca e le parole non escono; quindi si sporgono verso di me, sbracciano amichevoli e festosi, mi danno di gomito ridacchiando; però io sono come paralizzato, non riesco a muovermi, tantomeno a correre e a scappare.
Poi mi chiedo, ridestandomi all’improvviso: ma davvero la bellezza, da cui la moda prova a trarre maldestramente legittimità - e il nostro è un paese in cui da sempre ci si fa vanto di stare alla moda, se non di dettarla -, davvero quando diciamo la parola bello ci riferiamo alla media matematica delle tante sensazioni personali, che è poi il significato originale del termine estetica?
Ma forse, dietro all'estetica, si nasconde la lotta darwiniana per il successo della propria concezione del valore, che prima di risalire alla mente sta conficcata in gola, negli sguardi occasionali e obliqui; ma sacrosanto e libero è il gusto di chi si accosta alle cose del mondo, fino a che una visione non riesce ad acciuffare la corona e posarsela sulla testa, subordinando tutte le altre come un sovrano occhiuto, in attesa di essere avvelenato dall'amico più fedele e caro...
Perché se così fosse, dovremmo concludere che la corona della bellezza è ora monopolio di questa gente (i "barbari", li chiama Baricco in un fortunato saggio), che dopo aver sottratto le chiavi del tempio ai sacerdoti e agli scribi, stabilisce le nuove e diffuse liturgie del piacere e della forma. No, non c'è frode: l'egemonia di quel che ai miei occhi, certamente minoritari, si offre come il peggio, a ben vedere è il risvolto pubblico del nostro bene più prezioso, la democrazia.
"Vedo il meglio ma mi appiglio al peggio", scriveva Petrarca.
La democrazia estetica si configura dunque nel ribaltamento della sua intuizione: meglio e peggio si equivalgono, e ci appigliamo, un po' a casaccio, dove si appigliano gli altri. Uguale uguale a quanto accade su un tram.
Ma come la mettiamo allora con Raffaello, Michelangelo, Piero della Francesca, Giotto e Bernini?
Tempo scaduto, sono superati dall’incalzare di nuovi e più lucenti appigli, che come l'amo per la trota fanno leva sul palato. A meno che non si voglia pensare alla bellezza come a una costante algebrica: la puoi sporcare, la puoi parodiare con abiti variopinti da pagliaccio triste, ma rimane immune al baccano del presente, rifugiandosi nella proporzione aurea con cui venivano progettate le cattedrali gotiche.
Platone contro Nietzsche, per intendersi.
Con l'antica bellezza attica che si alza anche quella il bavero, la bellezza delle idee che se ne torna all'iperuranio da cui proviene, indifferente ai goffi tentativi di chi prova a farle il verso.
Ma prima di darmi una risposta, mi viene un dubbio ancora più insinuante...
E però, in fondo, penso, non sono poi tanto male a guardarle da vicino, quelle scarpe come si chiamano già quelle scarpe lì, con la suola sintetica alta e l’acca grande di Hotel…?
venerdì 5 aprile 2013
Ovetti, o su amore, sesso e vocabolari

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