Washington è una ruota di asfalto, vetro e marmo chiaro che
irraggia dai precisi e studiati equilibri del compasso massonico. Questo è
noto. Anche altre città – si dice Praga, Londra, Torino – nascondono sotto l’epidermide
levigata della toponomastica simboli e strutture recondite, a intenzionarne i
rapporti umani. Non sapevo però che anche Milano, negli ultimi anni, avesse
ricollocato il suo centro simbolico perduto negli anni della ristrutturazione
industriale, alla fine degli anni settanta. E la nuova trama occulta di Milano
è costituita delle sue sale da ballo, le milonghe, in particolare, che stanno spuntando
a ogni angolo della città.
Ma cerchiamo di capire meglio.
Fine marzo, martedì verso l’ora di cena, pioggerella leggera
che accompagna al suolo l’incalzare greve delle polveri sottili, con un gentile
e neghittoso casché. E finalmente si respira. Sull’enorme portone di vetro incrocio
due mie vicine di casa di mezza età, si sarebbe detto un tempo. Ma l’età è la
mia, e dunque, nei nuovi galatei linguistici, due ragazze.
“Buonasera, ragazze.”
Mi rispondono affannate, mentre armeggiano con un borsone –
una lo passa all’atra ma subito lo riprende dopo aver trovato le chiavi
dell’ingresso – da cui vedo sgusciare i tacchi affilati di bellissime e lucide scarpe
da sera, scarpe da balera.
“Scusa Guido, non abbiamo tempo, siamo in ritardo per la
lezione di tango.”
Il tango, capisco. Già l’anno scorso avevano organizzato un
corso di tango argentino, che veniva tenuto nella sala comune (“club house”, la
chiamano i più) del nostro condominio un po’ fichetto e snob (un “cohousing”,
lo chiamano sempre quelli di prima). Le mie vicine avevano quindi preso a nolo
un ballerino esperto che, a turno, le faceva ballare e istruiva nei passi
fondamentali. Non so perché, ma questa cosa mi pareva contenesse qualcosa
d’indistintamente metaforico, che mi inquietava: cinque donne, un uomo,
di cui condividerne pragmaticamente l’utilizzo… Qualcuno si ricorda dei film di Russ Meyer? Ecco,
quella roba lì.
A distanza di un giorno, mi ritrovo a parlarne con una
giovane psicologa, la quale pure è capitolata sulla via di Buenos Aires. Le
dico che anche a me affascina molto il tango, lo strano yo-yo dei corpi dei
danzatori, in cui si prende allontanandosi e ci si avvicina per negarsi. In uno
dei più fulminati paragoni che ho incontrato, così lo descrive Paolo Conte:
Come la lucertola è il riassunto di un coccodrillo, così,
il tango, è il riassunto di una vita.
Lei non conosceva la frase e mostra di apprezzare. Ma poi,
una lieve incrinatura nel sorriso, si vede che vorrebbe aggiungere qualcosa di
ugualmente lapidario, che però non le viene. Si limita dunque a dire:
“Non proprio della vita, di tutta la vita intendo. Diciamo che cambiano le proporzioni: come se
la lucertola, nel replicare in forma miniaturizzata il coccodrillo, ne
amplificasse a dismisura la coda, ma poi avesse una testa piccina piccina. Una copia
sproporzionata, per così dire.”
Annuisco, mi sembra un’immagine convincente; e in ogni caso
mi sono sempre trovato più a mio agio con le immagini che non con le
spiegazioni. “Se mi dici dove vai a ballare” le dico, “una sera mi piacerebbe
raggiungerti, vedere cosa succede in una milonga, ascoltare, annusare.” In
fondo anche uno scrittore prende solo una piccola parte del coccodrillo: gli
occhi, lo sguardo. Lasciando le zampe a chi la vita la sa danzare.
“Sì, certo. Se vuoi ci possiamo andare assieme”, mi risponde
con il sorriso che si è rifatto pieno. “Però con due macchine separate. Sai, io
una volta dentro una milonga non posso darti retta più di tanto. Io ballo, non
so resistere. Così quando sei stufo tu torni a casa. Io invece resto lì, fino
alle due o alle tre di notte, in genere.”
Sorrido anch’io e chino il capo come per dire sì. Ma poi,
alla maniera dei bulgari che assentono in modo inverso, torcendo il collo ai due lati opposti,
sento uscire dalla mia bocca questi pochi suoni: “Grazie, ma preferirei di no”.
Le parole dello scrivano Bartleby, già, nel magnifico
racconto di Melville, le sole e semplici parole che ripete per tutto il testo, solo quelle. A rappresentare il
culmine enigmatico dell’intransitività moderna: preferirei, un condizionale che non spiega la negazione, la quale per paradosso risulta tanto più recisa, certa. Ripensandoci a distanza di giorni, mi sembra però che
anche l’offerta della mia amica, anzi di tutte le mie amiche, delle mie vicine
di casa, dell’intero mondo danzante che zampetta sotto le fondamenta di Milano,
fosse massimamente intransitiva. Preferirei-di-no, preferirei, e comunque no, è
come se mi sussurrasse all’orecchio la lucertola, mentre finge di essere un
coccodrillo.
Ritorno allora col pensiero a un documentario del 1965 in cui Pasolini,
muovendosi lungo la Penisola con la sua troupe, intervistò gli italiani su temi legati alle
relazioni umane, tra cui quelle allora scabrosissime riguardanti la sfera
sessuale, di cui era tabù solo nominarle. Nel trambusto di una balera
lombarda, una ragazza dall’acconciatura bombata e la cadenza simpaticamente popolare,
così rispondeva alle domande insidiose del regista: “Qui c’è gente che viene
per balaaare ma anche gente che fa finta di venire per balaaare ma non vuole
mica balaaare per davvero, quella gente lì, vuole fare un’altra cosa…”
Intendeva ovviamente dire che molti uomini andavano lì per
rimorchiare, per sedurre, o per usare il linguaggio di un bizzarro personaggio
a cui ho dato un passaggio in autostop la settimana scorsa, per “raccogliere il
pane”. Ma siamo sicuri che anche adesso si vada in una milonga “per raccogliere
il pane”, e non invece e solo per aggraparsi alle note struggenti di un bandoneon?
Il che sarebbe certamente una buona notizia, almeno per la
ragazza con i capelli bombati uscita dal cilindro degli anni sessanta, ma per
noi così sgamati, così disinvoltamente postmoderni tanto da aver inventato Meetic, le chat erotiche e i
preservativi al gusto gorgonzola…? Vediamo.
La mia amica, ritorniamo
provvisoriamente a lei. La giovane e bella donna che mi dice vieni in milonga con me, e come sempre
lo fa sorridendo. Però poi aggiunge torni
a casa da solo, si intende. Perché io devo – e il verbo è davvero quello giusto:
dovere – perché io devo ballare,
anzi: balaaare. Ma balaaare e balaaare il tango, nel nostro caso, è appunto un
modo per prendere il coccodrillo e replicarne una parte in forma di lucertola,
una parte solamente. Così ci viene in aiuto proprio la psicologia, di cui la mia
amica si occupa quando non si infila gli abiti da tanguera.
Lacan, ad esempio, che nella savana dei discorsi sulla mente fu uno dei più abili a mimetizzarsi, imbambolando i cacciatori di certezze con discorsi ipnotici e
tortuosi. Tra i suoi interpreti, uno dei pochi che hanno saputo riportare le
volute dei seminari del Maestro a un’accessibilità verbale buona anche per i non iniziati, è certamente
Massimo Recalcati, filosofo e psicanalista milanese. In importanti e recenti
contributi Recalcati insiste molto sull’attualità delle categorie lacaniane di
desiderio e godimento, con un risvolto che potremmo definire sociologico.
Semplificando, il godimento coincide con quelle forme di
piacere che non passano attraverso il confronto, glissando così la differenza
personale e il confine mobile che viene posto nella relazione. Il godimento (“jouissance”, viene detto anche nei testi italiani) è dunque una sorta di assimilazione, in ciò
davvero simile alle fauci del coccodrillo che incorpora la sua preda. Il
principio binario dell'incontro viene quindi riassorbito nell’unità della vita che afferma se
stessa, con ciò escludendo ogni distinzione fondante. In altre parole, quel
che viene goduto è la rifrazione incerta di uno specchio, nel quale si adombra
l’eterna figura di Narciso. O se vogliamo dirlo con una sola sillaba: il
godimento è “io”.
Eppure, ci ricorda sempre Lacan per voce di Recalcati, non
esiste realmente alcuna struttura cognitiva che possa essere circoscritta
dentro un io incontaminato e anteriore ogni rapporto, già che non potrebbe esistere
qualcosa senza il suo opposto nominale, senza un Altro, un Tu a limitarne e
condizionarne l’estensione. Ed è qui che entra in gioco il desiderio, inteso,
al contrario, non come semplice desiderio di un oggetto a noi estraneo, o di un
soggetto accessibile all'appetito di chi dice "voglio!" Ciò che viene desiderato è piuttosto il desiderio dell’altro,
che nello sporgergersi verso di noi contende e ridetermina il nostro stesso desiderare, limitando l’onnipotenza
(onnipotenza “mortel”, aggiunge Lacan nel Discorsodel capitalista) di uno sconfinato godimento. O se preferite: “Amor ch’anullo amato amor perdona”, per dirla con chi già da molto prima aveva intuito il
trucco.
Ma veniamo al presente, al tango, e alla balere che
fioriscono tra gli sbadigli e gli affanni delle nostre città distratte, in un apparente
trionfo della vita sui meri vincoli di produttività. Ma di quale vita stiamo
parlando: la vita della lucertola o la vita del coccodrillo? O per tornare alla
nostra domanda originaria: di gente che vuole solo balaaare o di chi fa finta
di voler balaaare ma non vuol mica solo balaaare, quella gente lì?
Beh, provando a ritradurre il tutto dentro le categorie
psicanalitiche di Lacan, assunte di recente anche da Giuseppe De Rita come
filtro concettuale nell’annuale rapporto del Censis, si ritorna al dilemma tra
desiderio e godimento. Una persona, una donna, meglio, che invita un uomo ma gli dice portati l’automobile perché io devo continuare ballare
anche senza di te, a me sembra che stia svolgendo una figura di danza simile a
quella di un gruppo di condomine che affitta un ballerino. Stanno cioè affermando tutte, anche se ciascuna dentro le proprie scarpe lucide, la supremazia del godimento a dispetto del desiderio che soggiace a ogni relazione, non necessariamente erotica.
La parte del coccodrillo di cui difetta la lucertola, solo intuita,
ma con acutezza, dalla mia amica psicologa, si mostra dunque dentro il concetto
di limite. O meglio nell’assenza di
limite, nell’illimitatezza del suo godimento di danzatrice di tango che
cerca solo il “buon passo”, come lo chiamava Nietzsche. In psicanalisi lo
stesso pensiero viene tradotto con il fantasma della castrazione, quale effetto
dell’imposizione dell’autorità paterna ad argine del desiderio del figlio verso
la madre, la legge del padre che per Recalcati è il grande assente del nostro
tempo.
Ma il limite, per estensione, sta anche nel baratro che si spalanca a margine di un qualsiasi rapporto umano, e che ci sprofonda negli abissi del rifiuto e del fraintendimento, del desiderio dell’altro che non ci desidera. Desiderare è infatti perdere sovranità sul proprio regno immaginale, ospitando il banchetto dei Proci – sempre possibile, sempre in agguato – dentro le mura che dovrebbero proteggerci, e dove siamo più fragili ed esposti. Perché desiderare è mancare, mancarsi.
Ma il limite, per estensione, sta anche nel baratro che si spalanca a margine di un qualsiasi rapporto umano, e che ci sprofonda negli abissi del rifiuto e del fraintendimento, del desiderio dell’altro che non ci desidera. Desiderare è infatti perdere sovranità sul proprio regno immaginale, ospitando il banchetto dei Proci – sempre possibile, sempre in agguato – dentro le mura che dovrebbero proteggerci, e dove siamo più fragili ed esposti. Perché desiderare è mancare, mancarsi.
Quel che viene mimato nel tango è così un tentativo al netto
dell’errore, sensualità senza sesso, vita priva del suo doppio oscuro: la morte. Perciò la seduzione degli amanti-danzanti non ne consuma il gesto, e
come nel testo dell'habanera di Bizet l'incontro viene sempre differito, allontananando da sé il momento della verifica, che in
questo modo non possono fallire. Canta Giorgio Gaber sulle note finali di una delle sue canzoni più belle, in cui viene rappresentato il modesto rito sessuale di una coppia, è un sabato pomeriggio come tanti, i corpi non
sono più giovani e scattanti e le cose vanno un po’ così…
“Ci vuole troppa comprensione per trasformare in dolcezza
una cosa venuta male.”
Ecco, a me sembra che se, una volta, negli anni sessanta interrogati da Pasolini, si
andava a balaaare sperando in qualcosa di diverso e più rischioso di un
arròstre o di una calesìta, adesso lo si faccia proprio e solo per
balaaare. Forse perché in quegli anni, se vuoi anche ipocriti e "democristiani", esisteva comunque una maggior disponibilità a trasformare in dolcezza una cosa venuta male, a desiderare prima ancora che a
godere. Mentre ora si balla, si suda, si prendono lezioni condominiali di
tango per rendere la vita più semplice e pura e leggera, prima di tornare a
casa da soli, sempre soli. Al massimo rischiando di inciampare in pista, ma non
nelle pantofole di un estraneo.
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