lunedì 25 marzo 2013

Tutti a balaaare, o sulla psicologia del tango



Washington è una ruota di asfalto, vetro e marmo chiaro che irraggia dai precisi e studiati equilibri del compasso massonico. Questo è noto. Anche altre città – si dice Praga, Londra, Torino – nascondono sotto l’epidermide levigata della toponomastica simboli e strutture recondite, a intenzionarne i rapporti umani. Non sapevo però che anche Milano, negli ultimi anni, avesse ricollocato il suo centro simbolico perduto negli anni della ristrutturazione industriale, alla fine degli anni settanta. E la nuova trama occulta di Milano è costituita delle sue sale da ballo, le milonghe, in particolare, che stanno spuntando a ogni angolo della città.

Ma cerchiamo di capire meglio.

Fine marzo, martedì verso l’ora di cena, pioggerella leggera che accompagna al suolo l’incalzare greve delle polveri sottili, con un gentile e neghittoso casché. E finalmente si respira. Sull’enorme portone di vetro incrocio due mie vicine di casa di mezza età, si sarebbe detto un tempo. Ma l’età è la mia, e dunque, nei nuovi galatei linguistici, due ragazze.

“Buonasera, ragazze.”

Mi rispondono affannate, mentre armeggiano con un borsone – una lo passa all’atra ma subito lo riprende dopo aver trovato le chiavi dell’ingresso – da cui vedo sgusciare i tacchi affilati di bellissime e lucide scarpe da sera, scarpe da balera.

“Scusa Guido, non abbiamo tempo, siamo in ritardo per la lezione di tango.”

Il tango, capisco. Già l’anno scorso avevano organizzato un corso di tango argentino, che veniva tenuto nella sala comune (“club house”, la chiamano i più) del nostro condominio un po’ fichetto e snob (un “cohousing”, lo chiamano sempre quelli di prima). Le mie vicine avevano quindi preso a nolo un ballerino esperto che, a turno, le faceva ballare e istruiva nei passi fondamentali. Non so perché, ma questa cosa mi pareva contenesse qualcosa d’indistintamente metaforico, che mi inquietava: cinque donne, un uomo, di cui condividerne pragmaticamente l’utilizzo… Qualcuno si ricorda dei film di Russ Meyer? Ecco, quella roba lì.

A distanza di un giorno, mi ritrovo a parlarne con una giovane psicologa, la quale pure è capitolata sulla via di Buenos Aires. Le dico che anche a me affascina molto il tango, lo strano yo-yo dei corpi dei danzatori, in cui si prende allontanandosi e ci si avvicina per negarsi. In uno dei più fulminati paragoni che ho incontrato, così lo descrive Paolo Conte:

Come la lucertola è il riassunto di un coccodrillo, così, il tango, è il riassunto di una vita.

Lei non conosceva la frase e mostra di apprezzare. Ma poi, una lieve incrinatura nel sorriso, si vede che vorrebbe aggiungere qualcosa di ugualmente lapidario, che però non le viene. Si limita dunque a dire:

“Non proprio della vita, di tutta la vita intendo. Diciamo che cambiano le proporzioni: come se la lucertola, nel replicare in forma miniaturizzata il coccodrillo, ne amplificasse a dismisura la coda, ma poi avesse una testa piccina piccina. Una copia sproporzionata, per così dire.”

Annuisco, mi sembra un’immagine convincente; e in ogni caso mi sono sempre trovato più a mio agio con le immagini che non con le spiegazioni. “Se mi dici dove vai a ballare” le dico, “una sera mi piacerebbe raggiungerti, vedere cosa succede in una milonga, ascoltare, annusare.” In fondo anche uno scrittore prende solo una piccola parte del coccodrillo: gli occhi, lo sguardo. Lasciando le zampe a chi la vita la sa danzare.

“Sì, certo. Se vuoi ci possiamo andare assieme”, mi risponde con il sorriso che si è rifatto pieno. “Però con due macchine separate. Sai, io una volta dentro una milonga non posso darti retta più di tanto. Io ballo, non so resistere. Così quando sei stufo tu torni a casa. Io invece resto lì, fino alle due o alle tre di notte, in genere.”

Sorrido anch’io e chino il capo come per dire sì. Ma poi, alla maniera dei bulgari che assentono in modo inverso, torcendo il collo ai due lati opposti, sento uscire dalla mia bocca questi pochi suoni: “Grazie, ma preferirei di no”.

Le parole dello scrivano Bartleby, già, nel magnifico racconto di Melville, le sole e semplici parole che ripete per tutto il testo, solo quelle. A rappresentare il culmine enigmatico dell’intransitività moderna: preferirei, un condizionale che non spiega la negazione, la quale per paradosso risulta tanto più recisa, certa. Ripensandoci a distanza di giorni, mi sembra però che anche l’offerta della mia amica, anzi di tutte le mie amiche, delle mie vicine di casa, dell’intero mondo danzante che zampetta sotto le fondamenta di Milano, fosse massimamente intransitiva. Preferirei-di-no, preferirei, e comunque no, è come se mi sussurrasse all’orecchio la lucertola, mentre finge di essere un coccodrillo.

Ritorno allora col pensiero a un documentario del 1965 in cui Pasolini, muovendosi lungo la Penisola con la sua troupe, intervistò gli italiani su temi legati alle relazioni umane, tra cui quelle allora scabrosissime riguardanti la sfera sessuale, di cui era tabù solo nominarle. Nel trambusto di una balera lombarda, una ragazza dall’acconciatura bombata e la cadenza simpaticamente popolare, così rispondeva alle domande insidiose del regista: “Qui c’è gente che viene per balaaare ma anche gente che fa finta di venire per balaaare ma non vuole mica balaaare per davvero, quella gente lì, vuole fare un’altra cosa…”

Intendeva ovviamente dire che molti uomini andavano lì per rimorchiare, per sedurre, o per usare il linguaggio di un bizzarro personaggio a cui ho dato un passaggio in autostop la settimana scorsa, per “raccogliere il pane”. Ma siamo sicuri che anche adesso si vada in una milonga “per raccogliere il pane”, e non invece e solo per aggraparsi alle note struggenti di un bandoneon?

Il che sarebbe certamente una buona notizia, almeno per la ragazza con i capelli bombati uscita dal cilindro degli anni sessanta, ma per noi così sgamati, così disinvoltamente postmoderni tanto da aver inventato Meetic, le chat erotiche e i preservativi al gusto gorgonzola…? Vediamo.

La mia amica, ritorniamo provvisoriamente a lei. La giovane e bella donna che mi dice vieni in milonga con me, e come sempre lo fa sorridendo. Però poi aggiunge torni a casa da solo, si intende. Perché io devo – e il verbo è davvero quello giusto: dovere – perché io devo ballare, anzi: balaaare. Ma balaaare e balaaare il tango, nel nostro caso, è appunto un modo per prendere il coccodrillo e replicarne una parte in forma di lucertola, una parte solamente. Così ci viene in aiuto proprio la psicologia, di cui la mia amica si occupa quando non si infila gli abiti da tanguera.

Lacan, ad esempio, che nella savana dei discorsi sulla mente fu uno dei più abili a mimetizzarsi, imbambolando i cacciatori di certezze con discorsi ipnotici e tortuosi. Tra i suoi interpreti, uno dei pochi che hanno saputo riportare le volute dei seminari del Maestro a un’accessibilità verbale buona anche per i non iniziati, è certamente Massimo Recalcati, filosofo e psicanalista milanese. In importanti e recenti contributi Recalcati insiste molto sull’attualità delle categorie lacaniane di desiderio e godimento, con un risvolto che potremmo definire sociologico.

Semplificando, il godimento coincide con quelle forme di piacere che non passano attraverso il confronto, glissando così la differenza personale e il confine mobile che viene posto nella relazione. Il godimento (“jouissance”, viene detto anche nei testi italiani) è dunque una sorta di assimilazione, in ciò davvero simile alle fauci del coccodrillo che incorpora la sua preda. Il principio binario dell'incontro viene quindi riassorbito nell’unità della vita che afferma se stessa, con ciò escludendo ogni distinzione fondante. In altre parole, quel che viene goduto è la rifrazione incerta di uno specchio, nel quale si adombra l’eterna figura di Narciso. O se vogliamo dirlo con una sola sillaba: il godimento è “io”.

Eppure, ci ricorda sempre Lacan per voce di Recalcati, non esiste realmente alcuna struttura cognitiva che possa essere circoscritta dentro un io incontaminato e anteriore ogni rapporto, già che non potrebbe esistere qualcosa senza il suo opposto nominale, senza un Altro, un Tu a limitarne e condizionarne l’estensione. Ed è qui che entra in gioco il desiderio, inteso, al contrario, non come semplice desiderio di un oggetto a noi estraneo, o di un soggetto accessibile all'appetito di chi dice "voglio!" Ciò che viene desiderato è piuttosto il desiderio dell’altro, che nello sporgergersi verso di noi contende e ridetermina il nostro stesso desiderare, limitando l’onnipotenza (onnipotenza “mortel”, aggiunge Lacan nel Discorsodel capitalista) di uno sconfinato godimento. O se preferite: “Amor ch’anullo amato amor perdona”, per dirla con chi già da molto prima aveva intuito il trucco.

Ma veniamo al presente, al tango, e alla balere che fioriscono tra gli sbadigli e gli affanni delle nostre città distratte, in un apparente trionfo della vita sui meri vincoli di produttività. Ma di quale vita stiamo parlando: la vita della lucertola o la vita del coccodrillo? O per tornare alla nostra domanda originaria: di gente che vuole solo balaaare o di chi fa finta di voler balaaare ma non vuol mica solo balaaare, quella gente lì?

Beh, provando a ritradurre il tutto dentro le categorie psicanalitiche di Lacan, assunte di recente anche da Giuseppe De Rita come filtro concettuale nell’annuale rapporto del Censis, si ritorna al dilemma tra desiderio e godimento. Una persona, una donna, meglio, che invita un uomo ma gli dice portati l’automobile perché io devo continuare ballare anche senza di te, a me sembra che stia svolgendo una figura di danza simile a quella di un gruppo di condomine che affitta un ballerino. Stanno cioè affermando tutte, anche se ciascuna dentro le proprie scarpe lucide, la supremazia del godimento a dispetto del desiderio che soggiace a ogni relazione, non necessariamente erotica.

La parte del coccodrillo di cui difetta la lucertola, solo intuita, ma con acutezza, dalla mia amica psicologa, si mostra dunque dentro il concetto di limite. O meglio nell’assenza di limite, nell’illimitatezza del suo godimento di danzatrice di tango che cerca solo il “buon passo”, come lo chiamava Nietzsche. In psicanalisi lo stesso pensiero viene tradotto con il fantasma della castrazione, quale effetto dell’imposizione dell’autorità paterna ad argine del desiderio del figlio verso la madre, la legge del padre che per Recalcati è il grande assente del nostro tempo.

Ma il limite, per estensione, sta anche nel baratro che si spalanca a margine di un qualsiasi rapporto umano, e che ci sprofonda negli abissi del rifiuto e del fraintendimento, del desiderio dell’altro che non ci desidera. Desiderare è infatti perdere sovranità sul proprio regno immaginale, ospitando il banchetto dei Proci – sempre possibile, sempre in agguato – dentro le mura che dovrebbero proteggerci, e dove siamo più fragili ed esposti. Perché desiderare è mancare, mancarsi.

Quel che viene mimato nel tango è così un tentativo al netto dell’errore, sensualità senza sesso, vita priva del suo doppio oscuro: la morte. Perciò la seduzione degli amanti-danzanti non ne consuma il gesto, e come nel testo dell'habanera di Bizet l'incontro viene sempre differito, allontananando da sé il momento della verifica, che in questo modo non possono fallire. Canta Giorgio Gaber sulle note finali di una delle sue canzoni più belle, in cui viene rappresentato il modesto rito sessuale di una coppia, è un sabato pomeriggio come tanti, i corpi non sono più giovani e scattanti e le cose vanno un po’ così…

“Ci vuole troppa comprensione per trasformare in dolcezza una cosa venuta male.”

Ecco, a me sembra che se, una volta, negli anni sessanta interrogati da Pasolini, si andava a balaaare sperando in qualcosa di diverso e più rischioso di un arròstre o di una calesìta, adesso lo si faccia proprio e solo per balaaare. Forse perché in quegli anni, se vuoi anche ipocriti e "democristiani", esisteva comunque una maggior disponibilità a trasformare in dolcezza una cosa venuta male, a desiderare prima ancora che a godere. Mentre ora si balla, si suda, si prendono lezioni condominiali di tango per rendere la vita più semplice e pura e leggera, prima di tornare a casa da soli, sempre soli. Al massimo rischiando di inciampare in pista, ma non nelle pantofole di un estraneo.

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