Da dieci anni mi fa compagnia un magnifico e placido Golden
Retriver di nome Peppa. Come anticipato, è il cane più buono del mondo. Peppa
di qui, Peppa di là – al giardinetto di via Parolo il mio cane ormai è
famosissimo – le sussurrano compiacenti gli anziani, o i bambini in acute ed euforiche
modulazioni. Da tutti, lei, la Peppa, si lascia fare qualsiasi cosa, nella speranza
che dalla cernira di una sporta o dal risvolto di un loden spunti croccante un biscottino. Anche con gli altri cani la Peppa
manifesta un’insolita tolleranza. Rimane però il fatto che è un bestione di
quarantun chili, e che quando – anche questo non è raro – un cagnetto che è una
manciata ringhiosa d’ossa si fa troppo pressante la Peppa possa reagire. E quando lo fa, è sempre con
un’insospettabile e scomposta veemenza.
Certo, nei bisticci tra cani non esiste uno sfondo politico
e ideologico, a ricollocare le ragioni e i torti con il criterio di una
razionalità ponderabile, per quanto mai del tutto certa. Aveva ragione Fido,
il quale rivendicava l’esclusiva di quel pezzetto di legno trovato sotto la
betulla, oppure Tuono, che gliel’ha soffiato con un bau? Chi lo sa…. Sta di fatto
che quando il più forte viene sfidato in campo aperto dal più debole, dagli e
dagli, ma il forte prima o poi reagisce, e per il debole di solito sono cazzi. A
questo livello non è insomma un problema etico, ma per dirla con Nietzsche: di
“potenza”.
Ma facciamo un passo ulteriore, oltre la potenza e verso il
diritto. Quando il Ministero dell’Interno per il tramite delle forze
dell’ordine, come è suo dovere fare, pone degli argini toponomastici allo
sfilare dei cortei (la famosa “zona rossa” di Genova), non sta compiendo un
atto violento di arbitrio, ma cercando semplicemente di garantire la normale
prassi democratica nella manifestazione del dissenso; e ciò a tutela dei cittadini ma anche degli stessi manifestanti. La sciagurata scelta del corteo genovese – e non mi sto
riferendo ai famigerati Black Bloc, ma ai riconosciuti leader del movimento,
tra cui Emanuele Agnoletto – però fu: superiamo la linea
rossa, invadiamo lo spazio negato anche solo di una decina di metri. Tutto ciò,
beninteso, pacificamente, per dimostrare in forma simbolica la dissidenza
all’autorità. Ci può stare in effetti, come gesto espressivo.
Ma ci può allora stare, in questa logica di sfida del debole
al forte, anche la reazione scomposta delle forze di polizia chiamate
a presidiare quella linea. I quali poliziotti – e non mi sto nuovamente riferendo
ai fatti di Bolzaneto, faccenda del tutto diversa e da tutti i punti di vista obbrobriosa
–, i poliziotti abituati più alla pratica marziale che alla sottigliezza dei
simboli, cercarono semplicemente di ripristinare l’ordine costituito. La loro unica colpa, non per questo meno grave, in taluni casi anche penalmente, fu di farlo con sistemi davvero rozzi e brutali, in un’ inadeguata catena di controllo e di comando.
Stessa dinamica negli scontri romani dei giorni scorsi.
Esistono ogni volta dei limiti formali allo scorrere del corteo, delle dogane
invisibili, per quanto dichiarate, che si sceglie deliberatamente di
forzare, determinando la rabbiosa risposta del bestione. Posto
l’esempio nella sua tenace ricorrenza – cane piccolo contro cane grande
– ciò che voglio dire non è che abbia sempre
ragione il cane grande, infastidito dalla petulante ostilità del piccoletto. Ma
nemmeno questi, il piccolo, e nella fattispecie i numerosi movimenti di protesta per la
semplice e tautologica ragione del loro essere contro, si collocano automaticamente
dalla parte luminosa del Giusto e del Vero. E ciò perché oltre alla ragion pura esiste una ragione che non è tanto o solo pratica, come vuole la formula filosofica, e che potremmo chiamare strategica, dove l'aggettivo è inseparabile dal sostantivo.
Ora, non dico un generale d’armata, ma anche un qualsiasi
allenatore di prima divisione calcistica sa che prima di scendere in campo con
l’AlbinoLeffe, mettiamo, bisogna essersi preparati: oltre che fisicamente, con
un’adeguata strategia e una conseguente tattica di gioco. Se tu sei Ulisse, ad
esempio, non vai da Ciclope e gli tiri un calcio nei coglioni, perché se no poi
le prendi, quello ti schianta. Meglio, anche, se gli indichi un nome falso e lo
blandisci di continuo, mentre arroventi la punta di un tronco da cacciargli nel
monocolo quando dorme. A meno che il tuo obiettivo non sia proprio questo:
prenderle, perdere. Diversamente, cerchi di fare tutto il possibile per
spuntarla, ribaltando con l’intelligenza la disparità svantaggiosa nella forza.
La coscienza di quanto sia importante adeguare la propria
azione alla distribuzione delle forze in campo, specie quando la bilancia pende
a nostro palese svantaggio, trovò nel generale Giap il maggiore interprete
moderno, applicando la sua innegabile intelligenza all'invenzione di strategie di guerriglia che sono ancora adesso utilizzate. La domanda che mi piacerebbe rivolgere ai leader del movimento
studentesco, alla luce dell’esperienza dello scaltro comandante dei Vietcong,
non è dunque quella se ritengano o meno di essere eticamente nel giusto (questo, personalmente, io mi
sento di riconoscerglielo) ma piuttosto sull’opportunità strategica dei loro
mezzi. Già che la valutazione politica, che è ciò per cui in fondo essi manifestano – una diversa politica – , è data dalla proporzionalità dei mezzi (concreti) ai fini (morali).
O ancora più a monte, e lo chiedo davvero con curioso candore: cari
studenti, intendete la vostra azione quale dissenso democratico circoscritto
all’interno di un sistema formale di regole, a cui nell’intimo vi sentite leali,
oppure no? Perché in tal caso sarebbero gli stessi legami istituzionali a esser posti
in discussione, estendendo le ragioni contingenti della contestazione – i tagli
all’istruzione, le politiche sociali, la palese subalternità dei governi
europei verso le banche e i sistemi finanziari – a un orizzonte strutturale, che
trasforma una contestazione in una vera e propria guerriglia. Si combatte infatti
quando vengono meno le premesse dialogiche (i cosiddetti “valori comuni”) che
rendono ipotizzabile una mediazione tra le rispettive istanze, nello slancio verso una pace che
non è dunque più figura del compromesso, ma generazione dell’inaudito.
Se la risposta alla domanda fosse, come io auspico,
affermativa, allora e semplicemente si deve stare al di qua delle linee
simboliche che in una società democratica delimitano il dissenso, come era per le
erme che delimitavano le vie dell’Atene democratica del quinto secolo. Mutilando le erme, Alcibiade o chi per lui, si pone al di fuori del sistema sociale
ateniese, ipotecando il proprio futuro ostracismo.
Ma nel caso la risposta fosse invece negativa, beh, allora, ragazzi,
fatevi furbi… Non si va a sfidare un massiccio Rottweiler quando si è un
grazioso Yorkshire con le treccine, che la sera si corica nella cesta tiepida di
un attico dei Parioli. Credo che fosse essenzialmente questa l’obiezione –
prepolitica quindi, estetica fino allo struggimento – formulata da Pasolini nella famosa poesia su ValleGiulia. I poliziotti, allora come adesso, erano lì a presidio di un sistema
ingiusto e autoritario, e le rivendicazioni degli studenti erano anche in quel
caso del tutto legittime. Ma puerile e scomposta e violenta fu la loro azione, come
se ci fosse un compiacimento nel ricevere gli sganassoni di un padre occhiuto e
severo. Aggredire per poi lamentarsi con la Mamma, ecco. Vecchio gioco di chi è atteso in una sontuosa tana colma di bende e cerotti..
Viene addirittura il dubbio che più che l’eterna contesa
illuminata da Freud con il complesso di Edipo – i figli che cercano di uccidere
simbolicamente il Padre – sia in atto un'altra e differente dinamica
psicologica, che potremmo chiamare “complesso di Geremia”, in ricordo del
profeta biblico. Colui che seppe prevedere con anticipo e lungimiranza
l’invasione dei Babilonesi, ma che non solo non venne creduto – come per altro
adesso avviene con gli studenti, che vengono tutt’al più ascoltati con
l’infastidita tolleranza che si accorda a un raffreddore passeggero – ma finì con
l’essere ricordato più per le proprie continue lamentele, che non per ciò che di
vero e profondo seppe prefigurare.
Ed è incrociando uno dei portavoce del movimento studentesco
in televisione, che si rafforza in me questa idea. Quasi nulla mi è rimasto dei
contenuti politici della protesta da lui elencati con burocratico puntiglio, e
piuttosto il basso continuo di lagnanze, geremiadi, querimonie e lamentazioni
bibliche, formulate però in un acuto e tignoso registro vocale: “Polizia
cattiva, brutta, cattiva, io metto il casco anche se non si può, tiè, ahia, bua,
polizia di merda…”
Ma se i manganelli fanno male – e fanno male! – non è
meglio allora stare al di qua dei divieti suggeriti da un puro buon senso organizzativo, manifestando così nel senso etimologico
del termine (rendere manifesto) un malessere che in tal modo possa essere
riassorbito in discorso, in logos pubblico e dialettica democratica. Evitando
di oltrepassare gli impalpabili Rubiconi che segnano il limes
simbolico di una comunità costituita, e oltre i quali la sfida si fa diretta,
fisica, verso un’autorità vicaria con cui siamo certi di uscire con le ossa
rotte (tecnicamente, si chiama masochismo). O diversamente, preso atto del
venir meno del recinto morale della polis e avvertendo l’altro come semplice
estraneo, quel che bisogna imparare è l’arte duttile della strategia,
producendo effetti commisurati alle intenzioni. Quell’arte strategica che
suggerì a Davide di non dare appuntamento a Golia sopra a un ring, ma di comprarsi una fionda.
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