mercoledì 7 marzo 2012

Io sono intelligente, tu sei intelligente, egli è intelligente, noi siamo...



Io penso di essere intelligente. Ma io penso, anche, che ciascuno di voi pensi di essere intelligente. Non è vero?

A questo punto si apre però una contraddizione, un'aporia. L'aggettivo intelligente, infatti, non si riferisce a un'abilità cognitiva di carattere generale - "un comune intelligere", diciamo - ma all'iperbole implicita di tale qualità. In altre parole, pensando di essere intelligente io penso di essere più intelligente. Ma più intelligente di chi?

Beh, degli altri - che pensano anch'essi di essere più intelligenti di me -, o almeno della prevalenza statistica dei miei simili, non vedo altra risposta. Ed è qui che si manifesta la contraddizione: in che modo tutti possono avere la pretesa, o comunque la convinzione, di essere intelligenti, quando l'intelligenza è per definizione uno stato particolare e limitato, oggettivamente circoscritto dai confini esclusivi del sostantivo?

Ci viene in aiuto in quest'ultimo interrogativo la psicologia del profondo, la quale suggerisce che la percezione della propria intelligenza (della propria superiorità intellettuale, meglio) è una strategia mentale utile a mantenere integra e armoniosa la percezione di sé; modernamente, tale concetto è stato chiamato "autostima". Ma, ennesima domanda, è sempre stato così?

Onestamente e con i rozzi strumenti della mia intelligenza (beninteso superiore), io non lo credo. O almeno non credo che le moderne categorie di eccellenza nel passato rappresentassero un titolo ambito, da esibire o contemplare. L'eccellere e il primeggiare sugli altri nelle forme attualmente diffuse (tra cui l'intelligenza, o il talento espressivo che da essa deriva), mi sembrano piuttosto uno sviluppo abbastanza recente, anche se innestato su una radice antica.

Quello della Riforma protestante, ad esempio e come già suggerito da Max Weber. O ancor prima, risalendo l'asse cronologico delle civiltà, del successo in campo militare e quindi sportivo; che tra guerra e contesa sportiva ci sia una sottile continuità simbolica, in fondo l'avevano già intuito gli antichi greci nell'istituire i Giochi olimpici.

In ogni caso, mi sembra che gli ambiti in cui l'umanità ha storicamente cercato di prevalere sugli altri siano essenzialmente tre: 1) l'attività politica e il rilievo sociale conseguente; 2) la sfera economica; 3) la prestanza fisica, declinata in chiave militare e agonistica. A quest'ultimo aspetto, per le donne, va sostituita la bellezza, divenuta in seguito e più generalmente l'estetica.

Per imporsi nei primi due campi, ciò che veniva richiesta era una forma di intelligenza particolare, che i greci chiamavano "metis" (sorta di astuzia o di pensiero interessato e vagamente fraudolento, impersonata dalla divinità omologa figlia di Teti e di Oceano). Nel terzo caso abbiamo invece il dispiegamento di un pensiero puro (e a volte anche un po' tonto, a ben vedere), che non insegue il compromesso dialettico ma tende a risolvere ogni possibile contrasto nell'azione, vero discrimine tra le forze in campo. Ma anche nella contesa militare, la metis, a partire da Ulisse e dal suo cavallo di legno, seppe imporsi come l'elemento davvero decisivo, spodestando la forza bruta di Ercole e Achille.

Quanto all'estetica, ossia al sistema gerarchico fondato sull'unità di misura della bellezza, è sempre stato un valore soggettivo, ma oggettivamente declinato dentro schemi culturali con una loro compattezza e consistenza geografica e temporale. Ma in fondo, anche adesso e per quanto suonino antipatici e volgarmente maschilisti, i commenti di un Berlusconi sulle donne ammiccano a un consenso poco negoziabile: sarebbe infatti difficile affermare che Rosi Bindi sia più bella di Belen...

Il provvisorio quadro che sto cercando di tratteggiare mostra comunque un insieme di qualità, per così dire, verificabili: se io sono più forte di te ti batto nella lotta e nella guerra, ed è anzi mio dovere farlo (come nel celebre discorso degli ateniesi ai meli, ricordato da Tucidide); se sono più ricco mi compro i tuoi armenti; se sono più furbo indirizzo la vita pubblica della città; e se sono più bella mi prendo il tuo uomo. A questi aspetti oggettivabili del valore, se ne aggiunge uno implicito e carismatico: la sovranità, da cui quel sottoprodotto che è la varia aristocrazia dei titoli.

Un nobile non ha necessariamente più soldi, più muscoli, più bellezza e neppure più intelligenza, ma fino a qualche secolo fa godeva comunque di un livello di riconoscimento maggiore. Possedeva, in altre parole, una qualità dello spirito priva di manifestazioni estrinseche - una qualità rarefatta, gassosa -, che veniva tramandata per discendenza diretta tra consanguinei, come avviene appunto per la regalità.

Quanto infine all'eccellenza artistica e scientifica, non mi pare che le società arcaiche vi abbiano mai dato troppo credito, relegando, salvo rare eccezioni, musici, artisti ed inventori al tavolo della servitù. E' solo col pieno dispiegarsi della modernità - diciamo dal tardo Ottocento - che la sensibilità artistica e intellettuale acquisiscono uno status di pubblico riconoscimento. Beethoven è una star, Picasso, più tardi, ha fama e successo popolare, ma non meno di lui Einstein o Hemingway o Lucio Dalla, che approfittiamo per salutare.

A questo processo di aristocraticizzazione delle arti, si accompagna, però, la progressiva perdita di prestigio e influenza dell'aristocrazia vera e propria, al punto che è legittimo sospettare un passaggio di consegne: l'elemento carismatico appannaggio per nascita della nobiltà, si traduce nell'elemento "spirituale" che caratterizza l'artista, il più delle volte ancora senza un'oggettiva possibilità di verifica.

Mentre nella guerra, nello sport e nell'economia - ma in fondo anche a Miss Italia - le forze in campo sono evidenti e commensurabili, la misura del pensiero e dell'espressione contiene ineliminabili margini di soggettività interpretativa. Ed è dunque proprio in ragione di questa impossibilità di un discrimine certo, che io penso, anzi affermo, di essere intelligente.

Ma anche voi: vi sentiti forse dei cretini, o anche solo dei mediocri, dei così così, dei quaquaraqua?

No, come anticipato io sono convinto che tutti quelli che mi stanno leggendo si sentono intelligenti, credono fermamente in quella qualità fumosa e pubblicamente celebrata che è l'intelligenza. Magari, alcuni, si sentono anche sensibili, talentuosi, intuitivi e pieni di stile, che è un'altra qualità senza qualità certa e verificabile, come suggerisce la novità del nostro tempo.

L'intelligenza moderna non coincide dunque più con la metis, che come abbiamo visto fa sempre perno su un elemento reale ma con il proposito di scardinarlo, imprimendo alle cose una direzione differente e interessata. Piuttosto con l'atteggiamento, quasi mistico, di chi si rifletta nel pensiero stesso, e come Narciso si smarrisce nello stagno dell'autocontemplazione. Fino all'inevitabile ciuf, in cui pensiero e pensante liquidamente si abbracciano.

I vari e intangibili derivati dell'intelligenza - tra cui il più pernicioso è quello di Originalità, l'estro personale frivolamente esibito - diventano così una sorta di attributo tautologico, che quasi mai siamo disposti a mettere alla prova dei fatti. Anche perché, appunto, ciò sarebbe difficilmente realizzabile, anche se di tali moderni fantasmi amiamo circonfondere l'aura delle nostre convinzioni.

Ma allora, diciamocelo, dai, una buona volta: che a noi dell'intelligenza ci importa meno di un cazzo! Perché noi vogliamo essere semplicemente amati, ammirati, riconosciuti come tronisti neghittosi a una trasmissione di Maria de Filippi. E in un mondo senza più categorie stabili e nobiltà del sangue, l'intelligenza è rimasta l'ultimo titolo nobiliare disponibile. E così, come Napoleone, ci incoroniamo da soli: con la corona di un'ineguagliabile e indiscutibile e in fondo immaginaria intelligenza.

6 commenti:

  1. Ma a me sembra che ogni essere umano, più o meno intelligente, più o meno tronista, più o meno incoronato, desideri semplicemente essere amato ...

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    1. sì, certo, è quello che provo a dire anch'io. ma forse sono le forme di questa ricerca - la sua "fenomenologia", correggerebbe un filosofo imbronciato - a mutare di continuo. ed ora, sono evidentemente di moda intelligenza e sensibilità... (mah)

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  2. Il tanto citato di questi tempi Lucio Dalla direbbe che l'impresa eccezionale (dammi retta) è essere normale.
    Bentrovato guido :-)

    Cinzia

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  3. grazie Cinzia, un saluto a te. un altro grande "filosofo" per strofe e ritornelli (Giorgio Gaber) direbbe anche che oggi non ci accontentiamo più dell'intelligenza, o dell'amore, ma ricerchiamo il plus-amore, la plus-intelligenza. come una sorta di benzina super, ecco, che fa correre i nostri pensieri sulle autostrade del qualunquismo... ;-)

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  4. Mi fa sempre piacere leggerti: apri sempre nuove porte!
    Ciao, mg

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    1. Maria Grazia, è sempre un piacere anche per me ritrovare le tue parole :-)

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