lunedì 9 gennaio 2012

Se hai una montagna di neve tienila all’ombra, una mail


E’ da poco uscito in libreria, per l’editore Bompiani e in parte curato dal suo stesso editor, Elisabetta Sgarbi, un interessantissimo volume in cui gli autori si interrogano sul presente italiano e sui modi in cui la conoscenza si organizza e trasmette. Cosa significa insomma, oggi, per tutti noi, questa vecchia parola: cultura. Il tragitto interpretativo scelto è quello dell’indagine sul campo, in una sorta di odissea geografica lungo tutta la penisola, alla maniera del celebre reportage di Pasolini intitolato Comizi d’amore.
Non ho ancora avuto occasione di leggere il libro, ma da quel che ne ho inteso mi sembra che l'Itaca verso cui l'intero viaggio si protende non corrisponda a una definizione stabile e certa, ma all'eco di molte voci, non necessariamente concordi, che nel loro rifrangersi restituiscano almeno un’atmosfera: l’ombra della cultura, appunto. Ma se la cultura ha dismesso l’immutabile stabilità del monumento, facendosi luce, riflesso ottico, clima del pensiero, appare opportuna la scelta di allegare al volume due dvd, in cui l’interrogazione viene girata dallo scrittore Edoardo Nesi e dal filosofo Eugenio Lio ai numerosi ospiti della narrazione. E nel caso di uno dei due dvd si tratta di un vero e proprio film, che con lo stesso titolo del volume (Se hai una montagna di neve tienila all’ombra) è stato presentato alla 67a Mostra del Cinema di Venezia, riscuotendo un generale interesse.

Colpito e stimolato dalla bella iniziativa, ho subito inviato una mail a Elisabetta Sgarbi, complimentandomi per il progetto. L'autrice, molto gentilmente, mi ha risposto. Per un normale galateo che vuole la corrispondenza privata rimanere, per definizione, privata, non riprodurrò ciò che lei mi ha scritto, ma solo la mia replica. E ciò nella convinzione, forse un poco presuntuosa, che contenga un nucleo di pensiero dal valore generale. E dunque pubblico.


Gentile Elisabetta,

la ringrazio molto per la risposta e l'attenzione. Per quel che mi riguarda, e come spero si sia inteso anche dal mio testo, io un tentativo per coniugare il termine cultura al singolare invece ancora lo farei. Non cioè culture, coriandoli di conoscenza, sistemi chiusi e particolari con i propri codici e le proprie regole d'uso, alla maniera in cui la disposizione postmoderna ci ha insegnato a riconoscere, non senza qualche buona ragione. No, proprio e ancora Cultura con la c maiuscola, come prima che Quentin Tarantino fosse in grado di reggere una cinepresa tra le mani.

Per tornare a una sagomatura sintetica di questo termine stropicciato dall'uso, ma soprattutto dall'abuso, bisogna però essere disposti a distinguere preliminarmente tra
sapere e cultura; ed è una proposta ermeneutica, per così dire, non certo una verità linguistica. Ammettendo tale premessa normativa - la cultura non corrisponde con l'oggetto della conoscenza archiviata -, si può in compenso definire un nuovo senso unitario, oltre che un'utile funzione sociale del nostro sostantivo. Che possiamo figurarci come un punto di vista superiore, impregiudicato dalle ambiguità in cui lo costringono le pratiche del fare.

La cultura come
"link", insomma, come nodo e relazione, che solo dall'altro riusciamo a cogliere nel suo insieme significante, proprio come l'aviatore che per primo si accorse delle misteriose linee nel deserto di Nazca. Tutto ciò nello slancio verso una postura rialzata, si è detto, ma allo stesso tempo incerta e precaria: un orizzonte da guadagnare e subito rimettere in discussione, in un oscillante e instabile sforzo verticale. Una sorta di panopticon (tanto inviso a Michel Foucault) da cui noi possiamo finalmente scorgere, o meglio creare, istituire attraverso il processo dell'interpretazione, le relazioni significative tra i saperi particolari, nel tentativo di conferirgli una direzione e uno scopo pienamente umani. Un panopticon, sì, e però di gelatina.

Ma il tema diventa a questo punto l'accordo sul punto in cui collocare lo sguardo generale sulle cose, come se si trattasse di un film in cui il regista - mettiamo ancora Tarantino - non sia più il solo a decidere le inquadrature, e una moltitudine di comparse si affannasse per scegliere dove posizionare la camera di ripresa. Infatti, come aveva intuito lo stesso Foucault, una prospettiva culturale imposta dall'altro è sempre una verità arbitraria, che inevitabilmente produce schemi gerarchici ed effetti di potere, rigidità sociali, se non proprio abuso e violenza.

Il problema della cultura è dunque inseparabile dal problema della democrazia, a ben vedere e come è già stato visto. E la cultura postmoderna nasce in fondo anche come tentativo imperfetto di risolvere il dilemma: chi decide qual è il balcone corretto da cui affacciarsi?

Eppure, senza un punto di osservazione condiviso da cui collegare i puntini del disegno nascosto, o se preferite i tasselli sparsi nella cornice robusta del puzzle, è impossibile ottenere ciò che il termine cultura prevede:
una visione, intesa come totalità articolata nelle proprie molteplicità espressive.

Cambiando ancora di metafora, sarebbe come cercare di costruire una casa di soli mattoni, senza l'ausilio della malta. Ecco, a me pare che questo tempo sconti un eccesso di mattoni, ma nessun legante che li tenga assieme, ossia che li colleghi conferendo la solidità necessaria ad un comune progetto civile. E in questo senso, dal trespolo instabile da
cui provvisoriamente mi protendo, la cultura si mostra come la semplice e umile malta che tiene unito l'edificio del pensiero. Ma senza la quale è davvero difficile costruire un nuovo tempio, o anche solo una baracchetta in cui farsi compagnia nelle notti più oscure...

Con simpatia

guido hauser

1 commento:

  1. Caro Guido, hai sempre pensieri che aggiustano altri pensieri! Un abbraccio, mg

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